Le donne ai margini dell’arte

12 Novembre 2023

Come si costruisce l’immagine dell’Altro nella cultura occidentale, o meglio, come si costruisce lo sguardo portato sull’Altro nell’ambito delle produzioni visuali di questa parte del mondo?

Compito non facile – l’aveva già capito Victor Stoichita (L'immagine dell'altro. Neri, giudei, musulmani e gitani nella pittura occidentale dell'età moderna, La Casa Usher, 2019) visto che un elemento che caratterizza fortemente l’arte, e la produzione visuale in genere, dell’Occidente è l’aver fatto uno dei suoi massimi centri di interesse non la questione dell’alterità, ma quella dell’identità. La figura dell’Altro, pertanto, è stata costruita per lo più nei margini, nelle pieghe, negli interstizi delle immagini che abbiamo ereditato dalla storia dell’arte, fungendo da confini e specchi negativi che hanno permesso all’identità europea di plasmarsi attraverso lo sguardo rivolto all’altro da sé; di farsi luce attraverso l’ombra proiettata sul diverso.

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Sano di Pietro, I santi Cosma e Damiano tagliano la gamba all'etiope (1444), Pinacoteca Nazionale di Siena.

Da questo assunto prende le mosse il libro di Sara Benaglia, Note ai margini della storia dell’arte (PostmediaBooks, 2023), che alle figure che declinano la categoria dell’Altro in senso etnico e culturale aggiunge anche l’Altro per antonomasia, il polo di genere, la donna. Certamente non un soggetto messo ai margini delle rappresentazioni, anzi vero e proprio protagonista dell’arte figurativa fin dalle origini, ma solo in quanto oggetto per lo più passivo plasmato dallo sguardo maschile.

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La moglie del fabbro ritratta nella Bibbia di Holkham (1327- 1335 ca.), London, British Library, Add Ms 47682, fol. 31.

E se è vero che “la differenza esiste, l’alterità si costruisce”, motto da cui prende le mosse Stoichita, allora l’indagine sul visuale diventa la ricerca minuziosa di questo processo di costruzione e di messa in forma dell’Altro nell’arte occidentale, la cui storia ufficiale solo raramente ha preso in considerazione questo tema. Questo oggetto di ricerca interessa soprattutto gli ambiti delle scienze sociali, dei Visual Culture Studies di matrice anglosassone, degli studi postcoloniali e intersezionali, ma risulta poco frequentato dalle discipline più tradizionali dell’estetica e della storia dell’arte. In particolare, uno studio simile risultava quasi assente nel panorama specificamente nostrano, accademico e non. Sarebbe difficile, d’altronde, da parte della storia dell’arte accettare che l’oggetto del proprio interesse, considerato il più elevato livello cui possa giungere lo spirito umano, possa essere stato un territorio compromesso dal colonialismo, dall’imperialismo, dalle discriminazioni razziali e dalle subordinazioni di genere. Anzi, uno dei territori preferiti di imposizione ideologica e legittimazione culturale delle relazioni di potere presenti in ogni epoca.

Il canone visivo occidentale si costruisce principalmente in senso identitario, anche quando, all’inizio dell’età moderna, si trova al cospetto dei popoli del nuovo mondo: la scoperta della differenza è impiegata per compattare un’immagine di sé e rinsaldare distanze e demarcazioni in senso eurocentrico, cercando all’interno delle rappresentazioni dell’Altro le conferme, o le smentite, ai paradigmi culturali regolari. È per questo che proprio il discorso sull’alterità si rivela il più efficace per riconsiderare, se non per decostruire radicalmente, quel canone visivo dominante.

Una parte del libro scandaglia il rapporto tra donne e arte, a partire proprio dalla domanda che, già nel 1971, diede il titolo al saggio più famoso di Linda Nochlin, Why Have There Been No Great Women Artists?, indagando gli ostacoli istituzionali che hanno limitato l’accesso delle donne alla pratica artistica. La donna, oggetto dell’arte per eccellenza, in tutte le epoche e stili, solo raramente ne è stata anche soggetto, potendo occupare, anche in questo caso, solo i margini e i confini di quel mondo che si è esplicato quasi solo al maschile. La rappresentazione del femminile, pertanto, ha risentito di queste limitazioni, costruendosi nei secoli come la messa in figura da parte di uno sguardo eteronomo, plasmato dalle istanze della morale religiosa come del patriarcato borghese.

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Antonio Cifrondi, L'ebbrezza di Cambise Cambise ebbro uccide il figlio del suo ministro Pressaspe (1690 ca.), Collezione Intesa Sanpaolo.

Nel Settecento si costituisce la disciplina della storia dell’arte, fondata su principi di universalità. “Il bello è ciò che piace universalmente senza concetto”: è su questo principio kantiano che nasce l’estetica moderna, fondata sull’idea di una bellezza valida in assoluto, oltre ogni contingenza storica o geografica. Di fatto facendo assurgere l’idea occidentale del bello a valore universale, elevando una determinata esperienza culturale a espressione di un soggetto universale, da cui risultavano esclusi tutti coloro che non rientravano nella categoria dell’umano, in quanto privi di libertà, di identità e di autonomia, confinati nella dialettica servo-padrone. «La cultura del gusto – scrive Sara Benaglia – […] e il giudizio estetico, nella sua astrazione da condizioni particolari e nella sua rivendicazione di universalità, pretende di trascendere differenze razziali mentre le presuppone». Astrarre dalle diversità ha significato, di fatto, espungerle, spingerle lontano e imporre un modello particolare, elevandolo a canone assoluto rispetto al quale l’Altro – la donna, il nero, il selvaggio, il subalterno – veniva presentato come il “distante”, il lontano dalla norma dell’umano, l’elemento “esotico” appartenente più alla sfera del naturale che a quella della civiltà. Il soggetto universale, intorno a cui si è costruito il discorso moderno dell’arte e dell’estetica, dunque, non era altro che il soggetto occidentale protagonista e dominus dell’ordine patriarcale e coloniale. È lui che definisce e normalizza i principi del gusto e del bello, in quanto all’Altro è negata ogni possibilità di giudizio, a causa della sua condizione di soggezione alla natura. L’universalismo della teoria dell’arte è stato dunque fondato su principi e su pratiche di esclusione e di subordinazione.

Ed è ancora nel Settecento che si sviluppano le teorie “scientifiche” sulla razza e le pseudoscienze come la fisiognomica e la craniometria, che impongono modelli di normalità e di devianza sempre riferiti a un canone occidentale. In Italia sembra si faccia ancora fatica a riconoscere come la nascita della storia dell’arte e l’impianto dei concetti fondamentali dell’estetica abbiano anche significato un processo di assimilazione dell’alterità in uno schema normocentrico ed eurocentrico, affiancando più o meno strettamente la veicolazione dell’ideologia coloniale e patriarcale del dominio bianco e maschile. 

Il libro di Benaglia è uno sprone necessario a indagare i dettagli del nostro patrimonio artistico occidentale, a mettere a fuoco le pieghe dove più si nascondono le questioni storico-ideologiche spesso sottaciute o minimizzate. Le letture iconografiche e semiotiche che facciamo dei monumenti, delle sculture e delle pitture che formano la nostra eredità visuale non possono occultare il lato in ombra della nostra modernità, che attraverso concetti assoluti quali universalità, libertà e umanità ha fondato una gerarchia di potere e un “ordine razziale” del mondo e, di conseguenza, una “strutturazione razziale del visivo”.

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Elisabetta Sirani, Timoclea precipita nel pozzo il capitano di Alessandro (1659), Museo di Capodimonte, Napoli.

«La filosofia estetica – scrive ancora Benaglia –, sin dalla sua apparizione alla fine dell’Illuminismo, ha funzionato come un discorso regolativo dell’umano, in cui risiedono le moderne concezioni dell’ordine politico, razziale e sessuale”. […] È importante dare spazio nel contesto italico al modo in cui l’arte classica e il giudizio estetico siano connessi a economie razziali, e a come l’estetica di questo specifico contesto e periodo storico abbiano fatto nascere un “regime di rappresentazione” razziale, la cui ombra lunga arriva sin nel contemporaneo».  Nelle pagine del libro, strutturato in forma di brevi saggi autonomi che affrontano diversi temi, traspare lo sforzo, anche appassionato, di favorire la “comprensione delle categorie storiche escluse dalla storia dell’immagine”, di far emergere dall’ombra coloro che vi sono stati confinati, di spingere dai bordi verso il centro dell’obiettivo dello studio tutti quelli che sono stati tenuti ai margini delle rappresentazioni e dei discorsi sull’arte occidentale. Seguendo le tracce sedimentate nei secoli, l’obiettivo è quello di scrivere ciò che forse, con termine un po’ improprio, si potrebbe definire una “storia inclusiva dell’arte” o, più propriamente, fissare un punto di vista diverso da cui guardare il passato per comprendere meglio il nostro presente, rilevando continuità e discontinuità, eredità e persistenze.

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