L'eco di uno sparo allo specchio. Due lettori, un libro

Nulla sapevo di lui. Sono stato abituato a imparare – o, meglio, imparare a dimenticare – quell'uomo nel silenzio familiare, tramite rare foto, discorsi assenti. So come la sua non presenza abbia avuto un riflesso profondo nella mia educazione, quindi nella mia vita. Due cose sole possedevo: il nome, Ulisse, che io porto come secondo, e che sempre ho dovuto considerare come un intruso, una parte sconosciuta di me; e una giacca, un tessuto ruvido di lana, il nero orbace della sua divisa autarchica. Niente di più, prima di questo libro.

 

Per bilanciare questo niente ho lasciato passo all'attrazione magnetica per quei colpi di pistola del febbraio 1944 e seguito la loro eco lungo un paio di secoli. Ho dovuto capire dove sono nati, quei colpi, chi li ha generati, dove sono andati a rimbalzare, che cosa hanno smosso, smurato, prodotto. Ho dovuto scovare tracce seminate e sepolte, frugare da dilettante negli archivi che tutto conservano e tutto confondono, respirare polvere antica, macchiarmi di inchiostri, decifrare scritture impossibili, toccare carta infastidita dalla luce con il timore di vederla rompere. E poiché scrivere è un lento modificarsi, ho dovuto, soprattutto, vivere nel frattempo e accettare di vedere cambiati i lineamenti della mia vita. È stato bene farlo: tocca ai nipoti raccontare, sottraendo ai genitori un compito che non avrebbero potuto svolgere con giustezza; tocca a noi questo scegliere o tralasciare, sapendo che ogni parola nostra o azione avvicinerà la pace o il male che devono arrivare.

 

Questa è la storia di Ulisse e dei suoi sparatori che infine si spararono tra loro, tutto sconvolgendo. Il racconto di ciò che è stato prima e che ha innescato quei colpi in canna, di ciò che è stato dopo e perdura inconciliato, forse inconciliabile. Di questo la mia famiglia è stata testimone: che ogni sparo da spari precedenti è generato e a sua volta genera spari, nell'instaurarsi di una catena senza fine.

 

 

Spesso un personaggio noto (come lo è Massimo Zamboni, cofondatore dei CCCP e poi dei CSI, chitarrista di fama internazionale) pubblica per egocentrismo, senza una vera, profonda ragione. L’eco di uno sparo (Einaudi 2015) invece è un vero libro, costruito con passione in anni di studio e lavoro, che si legge con piacere, con gusto, con avidità. È il frutto di una scoperta, ovvero di una riscoperta del proprio passato famigliare: un nonno fascista, Ulisse, piccolo gerarca di provincia, ucciso dai partigiani, dai GAP, nel 1944. Una vicenda ricostruita con fatica, attraverso una vera ricerca storica, in archivi e biblioteche, suoi luoghi, coi testimoni. Una storia poi che non si esaurisce con quei colpi di pistola ma che prosegue fino a portare, diciassette anni dopo, uno dei due esecutori a uccidere l’altro, con le stesse modalità di agguato della seconda guerra mondiale.

 

L’eco dello sparo, appunto, un'eco che non si esaurisce mai, che provoca altri morti, che nasce da lontano. Il racconto di Zamboni infatti prende l’avvio quasi due secoli prima, con la ricostruzione delle fortune della sua famiglia, arricchitasi in maniera sorprendente poi durante la Prima guerra mondiale, vendendo carne in scatola all’esercito: “Carne di macello per carne spedita a farsi macellare”. Un macello che rende ricca e prospera quella famiglia di sette fratelli. Sette come i fratelli Cervi, caduti nelle stesse terre venti anni dopo, e solo pochi mesi prima di Ulisse. Questo libro è infatti anche una storia di famiglie, di terre lavorate con rabbia e passione, di lotta per la vita e di morte per contrapposizione quasi inevitabile tra servi e padroni, tra chi ha e chi lavora. Una contrapposizione che Ulisse incarna ma che in parte già mette in dubbio, dando ospitalità a renitenti, evitando noie ai mezzadri comunisti. Una contrapposizione oggi finita, che il nipote, Massimo, può finalmente archiviare. Ben sapendo a chi deve la sua stessa libertà, eppure con evidente empatia verso la sua famiglia fascista, verso quei commercianti “ricchi sfondati”, disposti a manganellare, a perseguitare e poi anche a collaborare coi nazisti, pur di difendere il proprio potere acquisito.

 

Zamboni racconta con una scrittura creativa, spezzata ma non nervosa, anzi rilassata, accogliente, uno stile che ti accompagna nelle storie, te le mostra da dentro. Racconta le persone per quello che sono, individui immersi nelle loro ideologie ma anche in una quotidianità fatta di terra, animali da macellare, parole dialettali che sono le stesse per tutti, fratelli e assassini, amici e nemici. Il nemico è anche il titolo del pezzo creato per l’occasione insieme ai post-CSI, riuniti su iniziativa di Massimo Zamboni intorno a questo nuovo progetto. Un progetto che include anche un reading del libro, un nuovo CD, un film documentario e un tour tuttora in corso: Breviario partigiano. Tutto da non perdere.

 

[E.G.]

 

Massimo Zamboni

 

 

È una scrittura impervia eppure mai ostica quella che dalla tastiera di Zamboni chiama il lettore a sporcarsi le mani con la terra intrisa di storia, con la sua terra, a scendere tra le trame più oscure del suo passato familiare, e a risalirne più saldo e più vivo. Sempre solidissimo nei suoi riferimenti agli eventi e ai processi storici, questo libro, pur uscendo in una collana di narrativa e con un sottotitolo (non dichiarato in copertina) che nulla ha di saggistico – Cantico delle creature emiliane –, regala uno scarto in avanti alla scrittura storiografica. Fornendola di un nuovo vocabolario mai scontato, affidato ai cinque sensi – e non è un caso che il titolo del libro di un musicista parli al nostro udito –, un vocabolario “che possiede – come ha scritto Marco Belpoliti – il ritmo delle sue canzoni: sincopato, paratattico, e al tempo stesso disteso, una prosa che fa a meno di verbi e connettivi sintattici, e procede per slanci, accelerazioni e improvvise illuminazioni”.

 

Zamboni ci mostra un modo alternativo in cui si può scrivere di storia – in questo caso della propria storia, locale e familiare –, proseguendo quella che oramai può essere definita una vera e propria vague europea: dalla Scandinavia, dall'affresco storico-letterario di Peter Englund La bellezza e l'orrore. La Grande Guerra raccontata in diciannove destini (Einaudi 2012) ai nostri confini, raccontati nel “romanzo documentario” di Daša Drndić Trieste (Bompiani 2015), alla vicina Francia che ha visto due tra i libri recenti di maggior successo in cui l'“io narrante” appare e scompare dalla biografia che sta ricostruendo: HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich di Laurent Binet (Einaudi 2011) e Limonov di Emmanuel Carrère (Adelphi 2011). Quest'ultimo, in occasione della sua uscita in traduzione inglese, è stato definito una "pseudobiografia" ed è stato messo radicalmente in discussione il suo rapporto con la realtà fattuale. "How much do facts matter?", si chiede Masha Gessen nel corso delle sue considerazioni sul libro di Carrère.

 

I fatti contano eccome, in ricerche indiziarie come quella che ha condotto con grande umiltà, immerso nei documenti, Massimo Zamboni, conducendo il suo sguardo tra le domande più scomode sul biennio 1943-1945 e sul lunghissimo dopoguerra. Ed è proprio per questa ragione che in questo libro, oltre ai fatti, contano le corde delle emozioni del lettore, che vengono accompagnate con delicatezza dagli interrogativi dell'autore. E dalle sue scoperte, come una delle più terribili che troviamo ne L'eco di uno sparo, una di quelle pagine che ti lasciano con il libro aperto in mano, a guardare le ultime parole di quella pagina, senza volerla più girare.

 

È una sorta di parentesi narrativa, niente di necessario, in senso stretto, alla ricerca che Zamboni sta conducendo, nella quale – uno dopo l'altro – sta incontrando i suoi antenati e sta scoprendo, di tutti e ciascuno, che stavano dalla parte dei padroni, dalla parte dei fascisti. Questo episodio – questa parentesi, questa scoperta – è un grido di dolore sulla guerra il cui sangue ancora non si è del tutto rappreso nella nostra terra, un grido di dolore sulla guerra civile:

La notte sta girando tra il 23 e il 24 giugno, sul Basso Appennino. È la notte di San Giovanni, il solstizio d'estate, notte di rugiada benefica, quella che porta le noci a maturazione perfetta per i liquori casalinghi, la notte dove si decide il destino dei cereali. Proprio al cambio della data in quella notte tra il 23 e il 24 giugno si compie l'eccidio di Bettola. Per rappresaglia contro un attentato e un successivo scontro a fuoco con un gruppo partigiano della montagna dove molti tedeschi perdonoa la vita, dalla gendarmeria nazista di Casina parte un gruppo di soldati tedeschi decisi a vendicarsi. È terribile la coincidenza in quella notte tra segni magici e orrore umano: la notte delle streghe e dei lupi da una parte, l'ossessione germanica – che sempre è fatta di luna, di foresta e di eserciti – dall'altra. Il solstizio estivo è la notte ribollente, propiziata nelle tradizioni di tutti i popoli da fuochi accesi, da falò sulle alture, nei deserti, dove mondo naturale e soprannaturale si sovrappongono a copulare. Un allineamento per saldarsi nella pace. Ma i militari che calano alla Bettola di Vezzano non sono già più uomini. Trentadue "persone umane bruciate in piazza", un "dolore grande, che offende la vita": così li sa racchiudere Cervi [Alcide Cervi, padre dei sette fratelli] nel suo libro. Li fanno uscire tutti dalla locanda dove erano, gli avventori. Sono malcapitati di passaggio, sfollati, carrettieri, bambini, donne, del tutto estranei all'attentato. Sentono voci italiane, lì fuori: ci sono degli italiani tra quelli che li radunano. Dei reggiani. Si saranno forse appellati a loro, nella loro lingua in comune. È in dialetto, forse, che avrebbero chiesto grazia, ci fosse stato la forza di chiederla; ma non l'avrebbero ricevuta.

 

"Rastrellamento" si chiama questo radunare le vittime. Andarle a scovare, a stanare, stringendo le maglie di ciò che sarà. "Rastrellatore" si chiama la qualifica. La trovo attestata, quella qualifica, sulla scheda di un cognome a me troppo vicino. Un familiare, iscritto al PFR [Partito Fascista Repubblicano]. Tra le sue qualifiche risalta: "Rastrellatore Bettola". Così è scritto. Aveva diciannove anni quella notte quel mio parente, prossimo per sangue e lontanissimo. Diciotto più del bambino che ha visto strappare via dalla madre e buttare vivo e scalciante delntro al rogo con gli altri. Crediate o non crediate, pregate per lui. Per la sua anima esausta, che ogni giorno da settant'anni chiama inascoltata per quanto sa di dover celare.

 

 

[C.G.]

 

 

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