Lo sfacelo ecologico ha radici cristiane

29 Dicembre 2015

Si cita spesso, fra le riflessioni fondative dell’etica ambientale, un saggio apparso su “Science” nel 1967, The Historical Roots of Our Ecological Crisis, opera dello storico delle tecniche Lynn White jr. (1907-1987); il saggio venne tradotto da Silvia Laila in italiano nel numero di marzo/aprile (credo sia ormai introvabile) del 1973 della rivista “il Mulino”. L’idea centrale era che “le radici storiche della nostra crisi ecologica” andavano cercate nella tradizione ebraico-cristiana. La sacralizzazione esclusiva dell’uomo, immagine di quel Dio che affida ad Adamo il compito di dare un nome a vegetali e animali per divenirne padrone, prepara il terreno su cui può sorgere l’ideale della modernità: il sapere-potere della scienza, baconiana e cartesiana, invita al dominio umano di una natura ridotta a puro meccanismo, privato d’anima. Lynn White jr. terminava il saggio con le parole: “Forse dovremmo meditare sulla più grande figura del cristianesimo dopo quella di Cristo: san Francesco d’Assisi […]. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio”. Ma il tentativo di Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale dell’Occidente, è fallito. “Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti”.

 

Forse dovremmo ripartire dalle tesi di Lynn White per apprezzare la novità costituita dall’enciclica Laudato si’ di un altro Francesco. Certo, novità all’interno del mondo cattolico, che può apparirci in ritardo rispetto a quanto il dibattito ecologico ha promosso in questi decenni, ma che non deve lasciarci indifferenti. La Bibbia, sostiene papa Francesco, non dà adito ad un antropocentrismo dispotico; il mandato divino, dopo la cacciata dall’Eden, chiedeva di coltivare e custodire la Terra, ed i doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte integrante della fede cristiana. L’Enciclica muove dal Cantico del poverello d’Assisi, auspicio di una riconciliazione universale con tutte le creature, per invitarci ad ascoltare il grido di protesta che si leva dalla nostra “casa comune”, da “sora nostra matre Terra”. L’abuso irresponsabile dei beni che Dio ha posto in lei non corrisponde al dettato biblico, al dono che Dio ha fatto all’uomo perché ne prendesse cura. I viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio, l’uomo è chiamato a rispettare la bontà di ogni creatura, ed anche i ritmi inscritti nella natura dalla mano del Creatore. Del resto, anche Hans Jonas ricordava che la sostanza etico-religiosa della tradizione ebraico-cristiana è data dal motivo della creazione, con l’implicito postulato del rispetto per l’integrità della vita; l’appellativo liturgico di Dio, “colui che vuole la vita”, ha come corrispettivo la libertà e responsabilità della creatura verso la dignità della vita.

 

Se è vero che il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura, non attribuendole più carattere sacro (ma il grande Pan era morto e gli dei avevano abbandonato la terra ancor prima della diffusione del cristianesimo), non per questo diviene legittimo il dominio dispotico e irresponsabile dell’essere umano sulle altre creature. Tutta la natura è rivelazione del divino, luogo della sua presenza, linguaggio dell’amore di Dio: “suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio”, ricorda papa Francesco. E Dio si prende cura di tutti: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Mt. 6,26). Anzi, riprendendo Teilhard de Chardin, papa Francesco afferma che il traguardo del cammino dell’universo è la pienezza di Dio: tutte le creature avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso questa meta comune.

 

La novità rilevante dell’Enciclica mi appare l’adozione di una prospettiva ecologica in senso forte: nella “casa comune” tutto è intimamente connesso, le cose sono in dipendenza le une dalle altre e si completano vicendevolmente, gli organismi sono sistemi aperti in costante comunicazione. Il che porta a ridiscutere la visione di una natura retta da una gerarchia, visto che anche la più piccola creatura ha valore per sé ed insieme contribuisce all’equilibrio del sistema cui appartiene. Questo non significa intaccare il privilegio di specie (lo specismo o sciovinismo umano, per dirla con Bryan Norton) che ci vorrebbe unici degni di considerazione morale. E nemmeno accogliere una prospettiva ecocentrica, come quella di Aldo Leopold, il fondatore dell’Etica della Terra: l’appartenenza a una comunità più ampia di quella sociale, a un oikos i cui abitanti includono il suolo, le acque, le piante e gli animali, la terra intera, impone un criterio morale più ampio, per cui giusto è “ciò che tende a mantenere l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica”.

 

La prospettiva di Francesco è, e non può che essere, quella di un umanesimo cristiano. Non può esserci sentimento di intima unione con gli altri viventi, se non c’è al tempo stesso compassione per gli esseri umani; certo, ogni maltrattamento nei confronti degli animali è contrario alla dignità umana, ma, come ha spiegato Callicot, il pensiero ecologico non chiede di per sé di farsi vegani, di abolire la caccia, di aderire al principio dei diritti degli animali di Tom Regan o di accogliere una morale sensiocentrica, che pone gli umani allo stesso livello delle specie che provano dolore. I facili sentimentalismi di quanti sacrificano la ricerca sanitaria sull’altare della dignità verso le cavie non sempre si coniugano con l’assistenza ai derelitti e disperati della Terra.

 

Nell’Enciclica, sull’esempio di san Francesco, restano inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri e la pace interiore. L’asse portante dell’Enciclica è l’intima relazione tra la miseria degli umani e la fragilità del pianeta; un vero approccio ecologico diventa sempre anche un approccio sociale, dobbiamo imparare ad “ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Solo entrando in comunicazione con tutto il creato, potranno scaturire la sobrietà e la cura verso quel che è debole; e oggi lo è la natura stessa, anch’essa entrata nel regno della finitudine, che credevamo attributo esclusivo dell’umano. Accenti analoghi si trovano in Michel Serres, teorico del “contratto naturale” di simbiosi e reciprocità fra la terra e l’uomo. L’enciclica ribadisce quel che il filosofo francese ha scritto in Tempo di crisi: non esistono due crisi, una sociale ed una ambientale, ambiente naturale ed umano si degradano insieme. Esiste una sola crisi e per affrontarla si richiede un’ecologia integrale che combatta la povertà, restituisca dignità agli esclusi e si prenda cura della natura. La terra ci precede e ci è stata data; i testi biblici non assecondano lo sfruttamento selvaggio della natura, ci invitano a coltivare il giardino, in una relazione di reciprocità responsabile fra uomo e natura. Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv). La natura ci è stata data in eredità comune, dobbiamo dunque fare in modo di lasciarla come l’abbiamo trovata, anzi meglio, ai nostri figli e nipoti. 

 

Mario Porro

 

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Non di rado una conversazione con Aldous Huxley si trasformava in un indimenticabile monologo. Circa un anno prima della sua morte, Huxley stava parlando di un argomento che aveva molto a cuore, il fatto cioè che l’uomo trattava la natura in modo per così dire “innaturale”. Per chiarire il proprio punto di vista raccontò che l’estate precedente era tornato in una piccola valle dell’Inghilterra dove aveva passato lunghi periodi felici durante l’infanzia. La valle, un tempo ricca di declivi erbosi, era invasa da una squallida boscaglia perché i conigli selvatici che ne controllavano la crescita erano stati decimati dalla mixomatosi, malattia che gli agricoltori avevano intenzionalmente diffuso per evitare che i roditori danneggiassero raccolti. Con una punta di saccenteria lo interruppi, non riuscendo a tacere nemmeno di fronte a un’eloquenza di così alto livello, e gli ricordai che anche i conigli erano stati introdotti in Inghilterra come animali domestici nel 1176, probabilmente allo scopo di integrare la dieta proteica dei contadini.

 

Tutte le forme di vita modificano l’ambiente in cui si sviluppano. L’esempio più spettacolare in positivo è quello del polipo corallino che, perseguendo il proprio interesse, ha creato un habitat sottomarino favorevole a migliaia di altre specie animali e vegetali. Con il suo intervento l’uomo, almeno dai tempi in cui è diventato una specie numerosa, ha sempre alterato l’ambiente in cui vive. Alcuni esempi. È un’ipotesi plausibile, anche se non provata, che il metodo di caccia per mezzo del fuoco abbia dato origine alle grandi praterie e abbia contribuito allo sterminio dei giganteschi mammiferi del pleistocene. Da almeno sei millenni i terreni lungo le sponde del basso Nilo sono opera dell’uomo e non della natura, che avrebbe piuttosto dato luogo alla giungla umida africana. La diga di Assuan, che ha sommerso 8000 chilometri quadrati di territorio, non è che l’ultimo stadio di un lungo processo. In molte regioni la coltivazione a terrazze, l’irrigazione, i pascoli intensivi, i disboscamenti operati dai romani per costruire navi durante le guerre contro i cartaginesi o dai crociati per risolvere i problemi logistici durante le spedizioni in Medio Oriente, hanno apportato profonde modificazioni in numerosi ecosistemi. L’osservazione che il paesaggio francese è caratterizzato a nord da distese erbose e a sud e a occidente dal bocage, convinse Marc Bloch ad approfondire lo studio dei metodi medievali di coltivazione. Le variazioni nelle abitudini di vita dell’uomo hanno avuto effetti certamente non previsti anche su altre specie viventi. Si è osservato, per esempio, che l’avvento dell’automobile ha determinato la scomparsa degli stormi di passeri che si cibavano degli escrementi di cavallo un tempo disseminati su tutte le strade.

 

Lo studio della storia delle variazioni ambientali è ancora ai primi passi e poco sappiamo di ciò che è realmente accaduto e quali sono state le conseguenze. A quanto sembra, l’estinzione dell’uro europeo, avvenuta nel 1627, fu semplicemente la conseguenza dell’accanimento dei cacciatori, ma in molti casi è impossibile avere notizie sicure in relazione a questioni più complesse. Per circa mille anni frisoni e olandesi hanno perseverato nel tentativo di ricacciare indietro il mare del Nord e, ai nostri giorni, i loro sforzi sono culminati nel recupero dello Zuiderzee. È possibile ipotizzare che alcune specie di animali, uccelli, pesci e altre forme di vita siano nel frattempo scomparse? E che nella loro epica lotta contro Nettuno, gli abitanti dei Paesi Bassi abbiano trascurato di valutare alcuni aspetti ambientali a scapito della qualità della loro vita? Per quanto è a mia conoscenza, nessuno ha mai posto queste domande e tantomeno ha dato risposte. La specie umana ha spesso rappresentato un elemento dinamico nell’ecosistema che lo ospitava, ma le conoscenze storiche fin qui acquisite non ci permettono di conoscere esattamente quando, dove e con quali effetti sono avvenute le modificazioni apportate dall’uomo anche se, in questo scorcio del ventesimo secolo, il problema di quali possano essere le ripercussioni ambientali è diventato sempre più sentito e pressante. Le scienze naturali, concepite come il tentativo di comprendere la natura delle cose, si sono sviluppate nel corso dei secoli in varie parti del mondo e contemporaneamente si è sviluppato, in modo più o meno rapido, il progresso tecnologico. Ma è solo da circa quattro generazioni che, nell’Europa occidentale e nel Nord America, si è stabilito il collegamento fra scienza e tecnica, vale a dire fra l’approccio teorico all’ambiente naturale e l’approccio empirico. La dottrina baconiana, che al sapere scientifico corrisponde il potere tecnologico sulla natura, si è affermata nella pratica solo intorno alla metà del XIX secolo, con l’eccezione dell’industria chimica che si era diffusa già nel XVIII. Nella storia dell’umanità, e non solo dell’umanità, l’accettazione di questo principio nella pratica comune rappresenta l’evento più importante dopo l’invenzione dell’agricoltura. Il nuovo stato di cose ha portato con sé l’affermazione del concetto di ecologia, termine che nella lingua inglese è apparso per la prima volta nel 1873. Oggi, a quasi un secolo di distanza, l’impatto esercitato dalla specie umana sull’ambiente si è intensificato al punto da cambiare nella sostanza. All’inizio del XIV secolo, epoca in cui entrarono nell’uso i primi cannoni, l’impatto ambientale era rappresentato dagli uomini che, alla ricerca di potassio, zolfo, minerali di ferro e carbone, invadevano foreste e montagne provocandone, in un caso la scomparsa, nell’altro l’erosione. Con le bombe all’idrogeno siamo in un ordine completamente diverso poiché, in caso di guerra, il loro uso provocherebbe alterazioni genetiche in tutte le forme di vita del nostro pianeta. Se, già nel 1285, Londra aveva il problema dello smog causato dall’impiego di carbone bituminoso, ai giorni nostri l’uso di combustibili fossili minaccia di modificare la composizione dell’atmosfera con conseguenze che solo ora cominciamo a intravedere. Con l’esplosione demografica, l’urbanizzazione selvaggia, i depositi ormai geologici di rifiuti e scoli fognari, l’uomo è riuscito in breve tempo a insozzare il suo nido come nessun’altra creatura ha mai fatto. Numerose sono le grida di allarme, ma le proposte, seppure in sé meritevoli, appaiono troppo parziali, semplici palliativi, quindi in realtà negative: per esempio, mettere al bando le bombe, eliminare i cartelloni stradali, distribuire contraccettivi agli indiani e convincerli a mangiare le vacche sacre. La soluzione più semplice per evitare qualunque modificazione ambientale è, ovviamente, quella di porvi fine oppure, meglio ancora, di tornare a un passato mitizzato: trasformare quelle orrende stazioni di servizio in altrettanti cottage di Anne Hathaway oppure, nel Far West, in saloon dei pionieri. Questa mentalità, ispirata al concetto di ‘natura incontaminata’, pretende invariabilmente che un ecosistema (non importa se San Gimignano o la Grande Sierra) sia per così dire ‘surgelato’ nelle condizioni in cui si trovava quando fu gettato in terra il primo kleenex. Ma né la regressione al buon tempo antico, né l’abbellimento fine a se stesso possono risolvere la crisi ecologica dei nostri tempi.

 

Che cosa possiamo fare? Nessuno è ancora in grado di dirlo. Se non affrontiamo il problema alla radice, corriamo il rischio che provvedimenti circoscritti abbiano ripercussioni più gravi di quello a cui dovrebbero porre rimedio.

 

Come prima cosa dovremmo tentare di chiarire le nostre idee esaminando da un punto di vista storico quali sono i fondamenti alla base della tecnologia e della scienza moderna. La scienza è sempre stata tradizionalmente aristocratica, speculativa e intellettuale; la tecnologia, popolare, empirica in pratica. La loro fusione, avvenuta intorno alla metà del XIX secolo, è sicuramente da collegarsi alle rivoluzioni democratiche di poco precedenti e contemporanee che, rendendo meno rigide le barriere sociali, tendevano ad affermare l’unità funzionale del lavoro intellettuale e di quello manuale. La crisi ecologica attuale è la conseguenza di una cultura democratica emergente e completamente nuova. La questione è se un mondo democraticizzato sia in grado di sopravvivere alle proprie implicazioni. Probabilmente no, a meno che non si proceda alla revisione dei principi alla base della nostra cultura.

 

 

Tecnologia e scienza nella tradizione occidentale

 

Un fatto è certo e può apparire superfluo ribadirlo in questa sede: sia la moderna tecnologia, sia la scienza moderna sono peculiarmente occidentali. Anche se la nostra tecnologia ha assorbito elementi da tutte le parti del mondo, in particolare dalla Cina, attualmente, non importa se in Giappone o in Nigeria, a trionfare è la tecnologia occidentale. La nostra scienza è l’erede di tutte le scienze del passato e deve molto specialmente alle opere di grandi scienziati islamici che spesso superavano gli antichi greci in capacità e dottrina: per esempio, Abu Bakr al-Razi nel campo della medicina, Ibn-al-Haythan in quello dell’ottica, o Omar Khayyam nella matematica. Gran parte delle loro opere di genio non esistono più nella lingua originale, ma sopravvivo nelle traduzioni in latino medievale che contribuirono a gettare le basi della ricerca scientifica nel mondo occidentale. Ai nostri giorni, in tutto il globo, tutta la scienza di un certo livello è occidentale nel metodo e nello stile, qualunque sia la pigmentazione della pelle o la lingua madre degli scienziati.

 

Esistono poi altri aspetti meno conosciuti in quanto acquisizioni di studi storici recenti. La posizione guida dell’Occidente nel campo della tecnica e della scienza è molto più antica della cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’ del XVII secolo e della cosiddetta rivoluzione industriale del XVIII, espressioni superate che mettono in ombra la vera natura di ciò che intendono esprimere, vale a dire due fasi significative di due diversi processi evolutivi di lunga durata. Almeno fin dall’XI secolo d.C., e in qualche caso anche dal IX, in Occidente, l’acqua era utilizzata per produrre energia a uso industriale, non solo per macinare granaglie, e negli ultimi anni del XII secolo si iniziò a sfruttare anche l’energia del vento. Da questi primi tentativi i progressi sono stati costanti e hanno portato alla realizzazione dei congegni meccanici, degli utensili per risparmiare lavoro e all’automazione. Gli scettici dovrebbero ricordare l’opera più grandiosa di tutta la storia dell’automazione, quella dell’orologio meccanico a pesi, realizzata in due versioni nei primi anni del XIV secolo. Nel tardo Medioevo l’Occidente latino superò di gran lunga le raffinate ed esteticamente mirabili culture sorelle di Bisanzio e dell’Islam, non in abilità manuale ma in maestria tecnica. Nel 1444, durante un viaggio in Italia, un ecclesiastico greco, Bessarione, scrisse una lettera a un principe della sua terra in cui si diceva stupefatto della superiorità delle navi, delle armi, dei tessuti e dei vetri occidentali. Ma più di tutto, così affermava, lo aveva sbalordito lo spettacolo di ruote azionate ad acqua che segavano tronchi d’albero e mettevano in funzione i mantici delle fornaci. Evidentemente, Bessarione non aveva mai visto niente del genere nel Medio Oriente.

 

Alla fine del XV secolo la superiorità tecnologica occidentale era tale che le nazioni europee, piccole e sempre in lotta fra loro, furono in grado di invadere il resto del mondo per conquistare, saccheggiare e colonizzare nuove terre. Simbolo di questa superiorità tecnologica è il Portogallo, una delle nazioni occidentali più deboli, che riuscì a diventare, e rimanere per un secolo, padrone incontrastato delle Indie orientali. Dobbiamo anche ricordare che la tecnologia di Vasco de Gama e di Alfonso de Albuquerque era assolutamente di tipo empirico e non si basava su cognizioni scientifiche.

 

È opinione diffusa che la scienza moderna nasca nel 1543, anno in cui Copernico e Vesalio pubblicarono i loro scritti. Senza voler in alcun modo sminuire il loro lavoro, è bene ricordare che opere come Fabrica e De rivolutionibus non nascono certo in una notte. La tradizione scientifica occidentale aveva avuto inizio alla fine dell’XI secolo come conseguenza del massiccio lavoro di traduzione in lingua latina di opere scientifiche arabe e greche. Solo pochi libri importanti, per esempio Teofrasto, sfuggirono alla vorace fame scientifica dell’Occidente, ma non erano trascorsi duecento anni che l’intero corpus della scienza greca e islamica era disponibile in latino, avidamente letto e chiosato in tutte le università europee. Lo studio di queste opere dette vita a nuove osservazioni e a nuove ricerche che ebbero come conseguenza una crescente sfiducia negli antichi maestri. Alla fine del XIII secolo l’Europa si era ormai impadronita di tutto il sapere scientifico strappandolo dalle ormai deboli mani dell’Islam. Sarebbe assurdo negare l’originalità del pensiero di Newton, Galileo o Copernico, come lo sarebbe negare quella degli scienziati scolastici del XIV secolo, per esempio Buridano o Oresme, sulle cui opere i primi basarono i loro studi. Si può dire che, prima dell’XI secolo e perfino al tempo dei romani, l’Occidente latino ignorava la scienza, che dall’XI secolo in poi, si è sviluppata in un crescendo inarrestabile.

 

Poiché in Occidente il progresso tecnologico e quello scientifico ebbero inizio, si caratterizzarono e divennero predominanti durante il Medioevo, è evidente che non possiamo comprenderne l’impatto ambientale se non prendiamo in considerazione quali erano i concetti alla base della cultura del tempo.

 

 

La concezione medievale dell’uomo e della natura

 

Fino a tempi recenti, l’agricoltura è stato il settore produttivo di maggiore importanza anche in società cosiddette “avanzate”, quindi qualsiasi mutamento avvenuto nei metodi di coltivazione assume grande rilevanza. I primi aratri trainati da una coppia di buoi non dissodavano il terreno, ma semplicemente lo smuovevano in superficie, era perciò necessario praticare arature incrociate che determinavano la formazione di campi squadrati. Nei terreni piuttosto leggeri e nei climi semi aridi del Medioriente e del Mediterraneo, il metodo funzionava egregiamente, ma risultava inadeguato nel clima umido e nei territori pesanti dell’Europa settentrionale. Già alla fine del settimo secolo d.C., non sappiamo esattamente quando, alcuni contadini del Nord usavano un nuovo tipo di aratro dotato di una lama verticale che praticava il solco, di un vomero orizzontale che tagliava la zolla e di un versoio che la rovesciava. L’attrito sul terreno era tale che l’aratro doveva essere trainato non da due ma otto buoi e il terreno era aggredito così a fondo che l’aratura incrociata non era necessaria, tanto che i campi presero una forma allungata.

 

 Al tempo in cui era praticata l’aratura superficiale, i campi avevano in genere dimensioni unitarie tali da poter provvedere al sostentamento di una sola famiglia, si trattava cioè di un’agricoltura di sopravvivenza. Ma nessuno possedeva otto buoi, quindi, per usare il nuovo tipo di aratro, i contadini erano costretti a mettere insieme i loro buoi e ciascuno di loro aveva probabilmente diritto a strisce di terreno arato in proporzione al contributo dato. In tal modo, la distribuzione della terra non era più determinata dalle necessità della famiglia, ma piuttosto dalla capacità della macchina. Di conseguenza, il rapporto dell’uomo con la terra si modificò radicalmente: se in precedenza l’uomo faceva parte della natura, ora la sfruttava. In nessun’altra parte del mondo gli agricoltori hanno realizzato un attrezzo di lavoro analogo, è dunque solo una coincidenza che la tecnologia moderna, con la sua spietata indifferenza verso la natura, sia in larga misura opera di discendenti di quei contadini dell’Europa del nord?

 

Verso l’830 d.C., questo atteggiamento fa la sua comparsa anche nelle illustrazioni dei calendari occidentali. Nei vecchi calendari i mesi erano raffigurati come personificazioni inattive, mentre nei nuovi calendari franchi, che ispirarono l’iconografia medievale, l’uomo si impone sulla natura: ara, miete, abbatte alberi, macella maiali. Uomo e natura sono due cose diverse e l’uomo è il padrone. Queste novità appaiono in armonia con l’atteggiamento culturale dell’epoca. Quello che l’uomo fa al proprio ambiente dipende da quello che pensa di se stesso in rapporto a ciò che lo circonda. L’ecologia umana è profondamente condizionata dalle convinzioni che l’uomo ha della propria natura e del proprio destino, in altre parole dalla religione. A occhi occidentali questo è evidente per quel che riguarda l’India o Ceylon, ma è ugualmente vero nel caso nostro e dei nostri antenati.

 

La vittoria del cristianesimo sul paganesimo rappresenta la più grande rivoluzione psicologica nella storia della nostra cultura. Attualmente è di moda affermare che, nel bene e nel male, viviamo nell’“era postcristiana”. Se è indubbio che, nella forma, pensiero e linguaggio hanno cessato di essere cristiani, è mia convinzione che la sostanza non sia mai cambiata. Il nostro modo di agire quotidiano, per esempio, è dominato dalla fede implicita nel progresso perenne, concetto sconosciuto sia al mondo greco-romano sia al mondo orientale, ma che ha le sue radici nella teleologia giudaico-cristiana ed è insostenibile al di fuori di quel contesto. Il fatto che i comunisti condividano questo concetto non fa che confermare quanto si può anche altrimenti dimostrare: il marxismo, come l’Islam, è una eresia giudaico-cristiana. Oggi continuiamo a vivere come abbiamo vissuto per circa 1700 anni, in un contesto in larga misura improntato ad assiomi cristiani.

 

Che cosa insegnava il cristianesimo alla gente sul rapporto dell’uomo con l’ambiente?

La maggior parte delle mitologie hanno storie sulla creazione, ma la mitologia greco-romana ne è singolarmente priva. Come Aristotele, gli intellettuali dell’Occidente antico negavano che il mondo visibile avesse avuto un principio. In realtà, l’idea di principio era inconcepibile nel quadro della loro concezione ciclica del tempo. In netto contrasto, il cristianesimo ereditò dall’ebraismo non solo il concetto di tempo non ripetitivo e lineare, ma anche una stupefacente storia della creazione. In varie fasi un Dio amorevole e onnipotente aveva creato la luce e il buio, i corpi celesti, la terra, le piante, gli animali, gli uccelli e i pesci. Infine Dio aveva creato Adamo e, quindi, Eva, perché Adamo non fosse solo. L’uomo dette un nome a tutte le cose, stabilendo così il proprio predominio su di loro e Dio dispose che tutto fosse a suo esclusivo beneficio: il creato non aveva altro scopo che quello di essere al suo servizio. Inoltre, seppur il suo corpo fosse d’argilla, l’uomo fu fatto a immagine di Dio.

 

Il cristianesimo, in particolare quello occidentale, è la religione antropocentrica per eccellenza. Nel II secolo d.C. Tertulliano e Sant’Ireneo di Lione affermarono che, nel plasmare Adamo, Dio aveva prefigurato l’immagine del Cristo incarnato, il secondo Adamo. A somiglianza di Dio, l’uomo trascende la natura. Il cristianesimo, in contrasto con l’antico paganesimo e le religioni orientali (fatta forse eccezione del zoroastrismo) non solo stabilì il dualismo uomo-natura, ma affermò essere volontà di Dio che l’uomo sfrutti la natura a proprio beneficio.

 

Nella pratica tutto questo non fu senza conseguenze. Nell’antichità ogni albero, ogni sorgente, ogni corso d’acqua, ogni collina avevano il proprio genius loci, lo spirito custode. L’uomo poteva entrare in contatto con questi spiriti che erano, tuttavia, diversi da lui nell’aspetto; centauri, fauni e sirene sono l’esempio di tale ambivalenza. Prima di tagliare un albero, scavare una montagna o sbarrare un ruscello, era necessario placare lo spirito custode di quel luogo e fare sì che restasse pacifico. La distruzione dell’animismo pagano, operata dal cristianesimo, rese possibile lo sfruttamento della natura senza tenere conto dei sentimenti degli elementi naturali.

 

È stato detto che la Chiesa sostituì l’animismo con il culto dei santi. Questo è vero, ma il culto dei santi è funzionalmente diverso dall’animismo. Il santo non risiede negli elementi naturali, può avere propri santuari particolari, ma la sua sede è nei cieli. Un santo, inoltre, è un uomo e a lui ci si può rivolgere secondo modalità umane. Oltre ai santi, il cristianesimo aveva angeli e demoni ereditati dall’ebraismo e forse, in parte, dallo zoroastrismo, ma angeli e demoni avevano le stesse caratteristiche dei santi. Gli spiriti che vivevano negli elementi naturali e che avevano protetto la natura dell’uomo, scomparvero. Si confermò in tal modo il monopolio dell’uomo sul mondo e le antiche proibizioni sullo sfruttamento della natura si sgretolarono.

 

Quando, come in questa sede, si parla in termini generali, è opportuno fare alcune precisazioni. Il cristianesimo è una fede religiosa complessa che ha conseguenze diverse in contesti diversi. Quanto ho detto si riferisce all’Occidente medievale dove la tecnologia fece passi da gigante; nell’Oriente greco, di grande civiltà e profondamente cristiano, dopo la fine del VII secolo, epoca in cui fu inventato il ‘fuoco greco’, non si è più verificato alcun progresso tecnologico. La chiave per comprendere le ragioni di tale contrasto va ricercata nel diverso tipo di devozione e di pensiero delle Chiese greche e latine, come è riscontrato negli studi di teologia comparata. I greci credevano che il peccato era un male morale e la salvezza era assicurata dalla buona condotta. La teologia orientale era di tipo razionale, la teologia occidentale volontaristica. Il santo greco è un contemplativo, il santo occidentale un uomo d’azione. È indubbio, quindi, che l’Occidente fosse terreno fertile per un cristianesimo che implicava la conquista della natura.

 

C’è un altro aspetto del dogma della creazione, fondamento della fede cristiana, che aiuta a comprendere la crisi ecologia attuale. Secondo la rivelazione, Dio fece dono all’uomo della Bibbia, il Libro delle Scritture. Ma poiché Dio ha creato la natura, anche la natura rivela il pensiero di Dio. Gli studi religiosi sulla natura per una migliore conoscenza di Dio vanno sotto il nome di teologia naturale. Nella Chiesa primitiva orientale, la natura era concepita essenzialmente come un sistema simbolico attraverso il quale Dio parlava agli uomini: la formica era un sermone diretto agli oziosi, le fiamme ardenti simboleggiavano l’aspirazione dell’anima. La visione della natura era di tipo artistico più che scientifico e, nonostante che a Bisanzio fossero conservati e copiati numerosi antichi testi scientifici greci, l’ambiente non era idoneo allo sviluppo scientifico come noi lo concepiamo.

 

Nell’Occidente latino, nei primi anni del XIII secolo, la teologia naturale prese una diversa strada. Cessò di rappresentare la spiegazione dei simboli fisici della parola di Dio per trasformarsi nel tentativo di comprendere la Sua mente scoprendo il modo in cui la Sua creazione opera: l’arcobaleno non era più semplice il simbolo di speranza inviato a Noé dopo il diluvio. Ruggero Grossatesta, Ruggero Bacone e Teodorico di Freiberg produssero raffinati studi ottici sull’arcobaleno, ma sempre con intendimenti di tipo religioso. Dal XIII secolo in poi, fino a comprendere Leibniz e Newton, tutti i maggiori scienziati spiegarono le ragioni dei propri studi in termini religiosi. E se Galileo non fosse stato così esperto in questioni teologiche sarebbe sicuramente andato incontro a guai minori, perché nel suo caso i teologi professionisti si risentirono per la sua ingerenza nel loro campo. Sembra che Newton si considerasse più un teologo che uno scienziato e solo alla fine del XVIII secolo fu possibile agli scienziati approfondire i loro studi prescindendo dall’ipotesi dell’esistenza di Dio.

 

Quando gli uomini spiegano perché stanno facendo ciò che intendono fare, lo storico ha spesso difficoltà a giudicare se le ragioni da loro date siano reali oppure siano ragioni considerate culturalmente accettabili. Tuttavia, il fatto che durante i secoli in cui si andò affermando la scienza occidentale, tutti gli scienziati affermarono che loro compito e premio era “pensare i pensieri di Dio in conseguenza di Lui” ci induce a credere che queste fossero le motivazioni reali. Se così è, allora la moderna scienza occidentale è nata dalla matrice teologica cristiana e ha ricevuto impulso dalla devozione religiosa, modellata dal dogma giudaico-cristiano della creazione.

 

 

Una diversa visione cristiana

 

A quanto sembra ci stiamo avviando verso conclusioni sgradite a molti cristiani. Poiché scienza e tecnologia sono parole del nostro vocabolario molto apprezzate, è probabile che siano in molti a rallegrarsi nel sapere che, primo, dal punto di vista storico la scienza moderna è un’estrapolazione della teologia naturale e, secondo, che la moderna tecnologia può essere spiegata, almeno in parte, come la realizzazione occidentale e volontaristica del dogma cristiano della trascendenza dell’uomo sulla natura e del suo diritto a dominarla. Ma, come abbiamo detto, circa un secolo fa scienza e tecnica, fino ad allora separate, si sono unite per offrire all’umanità un potere che, a giudicare dalle conseguenze, è ormai fuori controllo. Se le cose stanno così, il cristianesimo deve assumersi il peso di questa responsabilità.

 

Personalmente dubito che le ripercussioni ambientali possano essere evitate semplicemente ricorrendo in maggiore misura a scienza e tecnica. La scienza e la tecnologia si sono sviluppate sulla base della concezione cristiana del rapporto uomo-natura, concezione condivisa non solo dai cristiani e dai neocristiani, ma anche da coloro che si considerano post cristiani. Nonostante Copernico, tutto il cosmo ruota ancora intorno al nostro minuscolo globo e, nonostante Darwin, gli uomini non si sentono parte della natura. Siamo superiori, la disprezziamo e vogliamo usarla a nostra discrezione. Il nuovo governatore della California, come me uomo credente ma meno turbato di quanto io sia, si è espresso secondo la tradizione religiosa affermando, a quanto si dice, che “se uno ha visto una sequoia, le ha viste tutte”. Per un cristiano un albero non è che un accidente fisico, il concetto di bosco sacro è estraneo al cristianesimo e all’etica occidentale. Per quasi due millenni i missionari cristiani hanno distrutto i boschi sacri considerati pagani perché presuppongono uno spirito della natura.

 

Il modo in cui ci comportiamo nei confronti dell’ambiente è conseguente alla nostra concezione del rapporto uomo-natura. Un ricorso maggiore alla scienza e alla tecnologia non ci salverà dell’attuale crisi ecologica se non troviamo una nuova religione o non ripensiamo l’antica. I beatniks, i rivoluzionari dei nostri gironi, dimostrano di aver compreso il problema quando si dicono vicini al buddismo zen che concepisce il rapporto uomo-natura in modo opposto al cristianesimo. La religione zen, tuttavia, è profondamente condizionata dalla storia orientale, come il cristianesimo lo è da quella occidentale, e io dubito che possa rappresentare una strada per noi percorribile.

 

Forse dovremmo meditare sulla più grande figura radicale del cristianesimo dopo quella di Cristo: San Francesco d’Assisi. Il miracolo più straordinario di san Francesco è di non essere finito sul rogo, come accadde a tanti dopo di lui. Francesco era un eretico e lo era al punto che un ministro generale dell’ordine francescano, san Bonaventura, eminente cristiano di grande perspicacia, tentò di occultare le prime testimonianze del movimento francescano. La chiave per comprendere Francesco è la sua fede nella virtù dell’umiltà, non la semplice umiltà individuale, ma l’umiltà dell’uomo come specie. Francesco tentò di spodestare l’uomo dal suo ruolo di monarca del creato e di instaurare la democrazia di tutte le creature di Dio. Con lui la formica non rappresenta più un’omelia per l’ozioso, e il fuoco non è più un simbolo dell’anima che aspira all’unione con Dio. Con Francesco essi sono sorella formica e fratello fuoco che, a loro modo, lodano il Signore, come nel suo lo loda fratello uomo.

 

È stato detto che Francesco predicava agli uccelli per biasimare gli uomini che non gli prestavano ascolto. Ma le testimonianze non dicono questo: egli esortava gli uccelli a lodare Dio e quelli presi da un’estasi spirituale battevano le ali e cinguettavano.

 

Spesso le leggende dei santi, in particolare santi irlandesi, parlano della loro dimestichezza con animali ma sempre, mi sembra, per dimostrare il loro dominio su quelle creature. Nel caso di Francesco non è così. La terra intorno a Gubbio era devastata da un lupo feroce e, come racconta la leggenda, san Francesco parlò al lupo e lo dissuase. Il lupo si pentì, morì in odore di santità e fu sepolto in terra consacrata. Quella che Steven Runciman chiama “la dottrina francescana dell’anima animale” venne in breve tempo cancellata. È possibile che la dottrina si ispirasse, consciamente o meno, alla teoria della reincarnazione, originaria dell’India e sostenuta dai catari, all’epoca molto numerosi in Italia e nel sud della Francia. È significativo che proprio in quel periodo, 1200 circa, accenni alla metempsicosi si ritrovino anche nell’ebraismo occidentale, in particolare nella Cabbala provenzale. Ma Francesco non credeva nella trasmigrazione delle anime o nel panteismo, la sua visione della natura e dell’uomo si basava su una sorta di panpsichismo di tutte le cose animate e inanimate, concepite a gloria del loro Creatore trascendente il quale, con un gesto di assoluta umiltà cosmica, si fece carne, giacque in una mangiatoia e morì sul patibolo.

 

Non è certo mia intenzione suggerire ai tanti americani preoccupati dell’attuale crisi ecologica di provare ad ammonire i lupi o a esortare gli uccelli. Intendo affermare che l’attuale e progressivo sfacelo ambientale è il prodotto di una tecnologia e di una scienza dinamiche che hanno avuto origine nell’Occidente medievale, contro le quali san Francesco si ribellò nel suo personalissimo modo. Da un punto di vista storico non possiamo comprendere quale sia stato il loro sviluppo, se prescindiamo dal peculiare atteggiamento nei confronti della natura che ha le sue radici nel dogma cristiano. Non ha alcuna importanza se la maggior parte delle persone non ritiene che tale atteggiamento sia da considerarsi cristiano, la nostra società è comunque improntata ai valori del cristianesimo che mai nessun altro principio è riuscito a sostituire. Ne consegue che la crisi ecologica continuerà ad aggravarsi se non respingeremo l’assioma cristiano che la natura esiste solo in funzione dell’uomo.

 

San Francesco, il più grande rivoluzionario spirituale nella storia dell’Occidente, suggerì una nuova visione cristiana del rapporto uomo-natura: sostituire il dominio illimitato dell’uomo con il concetto di uguaglianza di tutte le creature, uomo compreso. Il tentativo di Francesco è fallito. Ai nostri giorni scienza e tecnica sono sempre più caratterizzate dalla proterva ortodossia cristiana nei confronti della natura e non è da loro che ci possiamo attendere una soluzione alla crisi ecologica. Poiché le radici dei nostri problemi sono essenzialmente religiose, il rimedio deve essere religioso, qualunque definizione attribuiamo a tale termine. In altre parole dobbiamo giungere a un diverso modo di intendere la nostra natura e il nostro destino. Il sentimento profondamente religioso, ma eretico, dell’autonomia spirituale di tutte le creature espresso dai primi francescani, può indicarci una direzione. Propongo che Francesco sia considerato il patrono degli ecologisti.

 

 

[traduzione italiana di Silvia Lalia]

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