Un ricordo e una storia / L'omissis di Alessandro Leogrande

5 Dicembre 2017

Ci sono la vita e la morte, e non c’è nient’altro. Questa è l’unica verità, ma è una verità inutile, è impossibile aggrapparsi a lei perché non è vera: ci sono l’amore e l’odio, l’amicizia e i fallimenti, la contentezza e la disperazione, scrivere e cadere, sfiorarsi e perdersi o il contrario di tutto questo. Siamo niente più che una parola in un aforisma di Gesualdo Bufalino: “Biografia: nacque, omissis, morì”; ecco, per raccontare l’omissis di Alessandro Leogrande non basteranno mille scrittori e cento vite. Dal giorno dopo la sua morte parenti, colleghi, amici hanno cominciato a parlare di lui, di quel modo preciso, gentile, forte e integro che aveva di stare al mondo. Alessandro Leogrande era un intellettuale, lui l’avrebbe messo tra virgolette, come Sciascia, per schermirsi, ma noi possiamo fare a meno dell’ironia: il suo nome discende da Gaetano Salvemini, Alexander Langer, Carlo Levi. Loro riempivano le giornate di Alessandro, che intanto si dava da fare per buttare giù le frontiere e i naufragi, il caporalato e l’ignoranza, la malafede e le ingiustizie.

 

Alessandro Leogrande aveva quarant’anni, li aveva compiuti a maggio al Salone del libro di Torino dove era consulente e li aveva trascorsi lavorando, come sempre; aveva maestri e allievi, aveva imparato a contatto coi grandi (Goffredo Fofi e Luigi Manconi sopra tutti, e poi: Mario Dondero, Luciano Canfora, Luis Sepulveda, Serena Vitale, Doug Solstad). Con loro parlava alla pari – raro e forse unico caso nella nostra generazione – e come fosse lui stesso un filo conduttore ne trasmetteva le idee e il linguaggio durante i continui appuntamenti con i ragazzi nelle scuole o nei laboratori. I maestri lo cercavano, gli allievi lo amavano. Continuavano a scrivergli e a chiedergli consigli anche settimane e mesi dopo gli incontri, diventava subito il loro modello, senza che lui indossasse abiti cattedratici; accadeva perché era bravissimo nell’eloquio come nei contenuti, ma anche perché dentro gli istituti superiori Alessandro si sentiva a casa.

 

Aveva cominciato a fare politica e a scrivere quando era uno studente dell’Archita, il liceo classico di Taranto dove aveva studiato anche Aldo Moro, e per lui entrare in una scuola era un momento rituale; quando si metteva dietro o davanti alla cattedra, per farsi più vicino ai banchi, col microfono in mano per rispondere alle domande che gli facevano sui suoi libri o sui temi etici e sociali di cui si era occupato, aveva l’aria di essersi appena alzato dalla terza fila (la prima no perché non era un secchione, l’ultima neppure perché era tutto tranne che svogliato), ecco: aveva l’aria di essere uno di loro a cui semplicemente erano capitate più cose, che aveva elaborato più idee. Era un uomo, ma anche un ragazzo, e non lo dimenticava neppure nelle occasioni più importanti e ufficiali. Dopo il liceo si era iscritto alla facoltà di filosofia a Roma e poi aveva continuato a portare sé stesso – studio, linguaggio critico, voracità cognitiva – nelle redazioni dei giornali, soprattutto Lo straniero di cui a lungo era stato vicedirettore. Aveva scritto molti e preziosi libri, da subito, da giovanissimo, in ognuno aveva lasciato un urlo, una denuncia prima che quel male diventasse “di moda”.

 

Appena si affacciava l’ombra dello sciacallaggio, dell’abuso del tema, Alessandro era già altrove, e intanto seminava, prima e con più esattezza di altri: Le male vite sul contrabbando, Fumo sulla città su Taranto dall’Ilva a Giancarlo Cito, Il naufragio sulla motovedetta albanese Kater i Rades speronata da un’imbarcazione della marina militare italiana, La frontiera sui migranti, Uomini e caporali sul caporalato pugliese. Il libro che non scriverà, quello intorno a cui da tempo studiava e meditava, sarebbe stato sull’Argentina e sulle vittime della dittatura, aveva cominciato scrivendone in un articolo e poi in un racconto per un’antologia collettiva: stava, come spesso accade agli scrittori, prendendo le misure per trovare il suo incipit, e di nuovo avrebbe scritto per far rivivere i morti. I morti per cancro della sua città natale, i morti affogati nel Mediterraneo, gli schiavi del traffico di vite umane, i desaparecidos erano tutti presenti accanto a lui, sempre, erano la sua ossessione, i suoi fantasmi. Nelle pagine finali di Uomini e caporali li chiama a sé:

 

 

“I morti per la fatica e per le sofferenze patite. I morti di tutte le lotte, utili e inutili, di questa terra. I morti ammazzati per esersi ribellati. I morti ammazzati prima ancora di essersi ribellati. I morti che nessun libro di storia, nessun articolo di cronaca ha mai menzionato. Coloro che nessuno ricorda”

Alessandro Leogrande vive anche nelle curatele dei libri degli altri, che prendeva alla lettera: avendo cura delle parole di altri scrittori. Nell’ultimo anno si era occupato di Rodolfo Walsh e di Carlo Pisacane, per il secondo aveva scritto una postfazione a L’altro Risorgimento, dove il suo nome figura accanto a quello di Nello Rosselli. La scelta di riscoprire un punto di vista su Pisacane dice molto del modo con cui dialogava dentro di sé con i nomi più nobili del passato. Il violento mestiere di scrivere è invece il titolo del libro che raccoglie gli scritti di Walsh, ed è anche un’espressione adatta a raccontare il mestiere di Walsh come quello di Leogrande: attenzione composta e accusa violenta. A un lettore che si accingesse ad accostarsi ai suoi scritti per la prima volta bisognerebbe proporre anche Ogni maledetta domenica, fra i suoi libri un apparente intruso, un alieno: un’antologia di racconti sul calcio, in realtà un libro ponte tra lo scrittore Leogrande e il ragazzo Alessandro. Fra questo libro e gli altri c’è Alessandro Leogrande, lì in mezzo, tra un’erudita grandezza e la propensione al sorriso, alla battuta, al sole del Sud che rischiara la giornata. È lì che lo troviamo anche in questi giorni straziati.

 

Di Alessandro Leogrande bisogna leggere tutto, anche i pezzi teatrali come quello andato in scena a settembre al Teatro Argentina in cui sul palco riviveva Giuseppe Di Vittorio, e poi la splendida opera lirica, Haye, di cui è stato librettista, in scena pochi mesi fa a Reggio Emilia. In questo libretto, che si trova in ebook, viene fuori una voce sicura, altissima. Leogrande era un narratore dei fatti del mondo, e chissà dove nascondeva tutta quella poesia. Gli dicevo spesso che l’opera era la cosa più bella che avesse mai scritto, lo rimproveravo perché doveva dedicarsi alla lirica, trovare il tempo per scriverne un’altra. Rispondeva sorridendo: può mai essere un mestiere il librettista? 

(Dispiace non leggerlo nelle biografie, e questa è una preghiera amica: Alessandro Leogrande scrittore e giornalista, ma anche librettista).

 

Alessandro scriveva articoli tutte le settimane, ma bisogna dire: purtroppo, e non per volontà sua, di recente sempre meno, come se l’Italia potesse fare a meno di quella voce limpida, di quel rimboccarsi le mani – quanta miopia, o incuria e sbadataggine. In un mondo più umano Alessandro avrebbe avuto uno spazio suo ogni giorno, perché ogni giorno, ora che non c’è più, io leggo una notizia e penso: chissà cosa ne avrebbe scritto. Qualche anno fa aveva creato Fuoribordo, un inserto settimanale del quotidiano pagina99 dove invitava gli scrittori a scrivere reportage narrativi. L’inserto era stato chiuso, poi aveva chiuso anche il giornale, eppure quelle pagine che tutti noi chiamati da lui scrivevamo con l’ansia di volergli dare il meglio, la scrittura più alta che potevamo, ecco: quelle pagine io le ho collezionate tutte. Perché con lui diventavamo tutti più bravi. E basterebbe solo questo a struggerci, ora: la mancanza di una persona che rendeva le persone migliori.

 

Il giorno prima che morisse avevamo parlato di nuovo di Vittorini, di quella conversazione in Sicilia che ossessionava entrambi, quella prosa indemoniata del nostos in cui noi meridionali caschiamo sempre, vogliamo cascare con consapevolezza. Riapro la prima pagina:

“Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacro su manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete”. 

Oggi Vittorini parla a me, parla di questa prima settimana che abbiamo attraversato sconvolti e immobili senza di lui, non pare vero. Il dolore è ancora così acceso che posso solo stare seduta a guardare il tempo che passa. “Quante ore mi restano da far passare?” si chiede Mathias Enard in un lungo racconto intitolato L’alcol e la nostalgia, in cui accompagna verso la sepoltura il cadavere del suo amico Vladimir, in un lungo viaggio in treno verso la Siberia: siamo noi adesso in quel viaggio, accanto ad Alessandro, siamo noi a sentire il rumore di ferrovia. Ma presto o tardi dovrò alzarmi, scendere dalla vettura, e insieme a tanti mettermi al servizio della sua opera, farla camminare in ogni dove, sulle nostre gambe e nelle nostre teste. Ora mi sembra impossibile, ma è l’obbligo che abbiamo tutti. Non guarirà dalla sua assenza, ma è l’unico modo in cui la si può vivere.

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