L'onta del significato

19 Maggio 2014

La pubblicazione presso L’orma – come numero 2 della nuova serie della collana fuoriformato (pubblicata per 31 volumi da Le Lettere, fra il 2006 e il 2012) – di Una profonda invidia per la musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni, di Giorgio Manganelli, rappresenta un adempimento lungamente atteso. Sin dall’inizio del progetto di fuoriformato, infatti, volevo pubblicare nella loro originale forma fonografica le bellissime conversazioni a tema musicale che Manganelli ebbe con Terni a Radio Tre Rai nel luglio del 1980, e che già erano conosciute – solo in forma trascritta, però – nel libro di Terni, Giorgio Manganelli ascoltatore maniacale, pubblicato da Sellerio nel 2001. Complesse questioni di diritti hanno reso possibile solo ora questa pubblicazione. Solo ascoltandolo materialmente (Manganelli direbbe forse “matericamente”), questo intreccio di voci, viene a giorno in effetti la qualità di «improvviso» (Improvvisi per macchina da scrivere è il titolo “musicale” scelto per il proprio libro da Manganelli più amato, forse: la raccolta dei corsivi giornalistici uscita presso Leonardo nel 1989) di questo che è anche un affondo decisivo – tanto più rivelatorio quanto meno programmato e “ideologicamente” protetto – nella sua poetica. La tenzone col “contenuto”, che nello strategico saggio beckettiano contenuto nella Letteratura come menzogna veniva enunciata in forma, appunto, ideologicamente perentoria («Beckett è dominato dal tema agonistico del rapporto col significato.

 

 

Un materiale singolarmente significativo, anzi clamorosamente didattico e sentimentale, preme sulla sua opera; Beckett aveva “qualcosa da dire”: per uno scrittore, inizio rovinoso. Il problema è, sempre, di trasformare quel “qualcosa da dire” in struttura, in linguaggio; prendere la propria “verità” per i capelli e trascinarla in una regione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso; trattarla come la convenzione propria di un genere, o uno schema metrico, o un’arguzia allitterativa»), rivela qui una sua natura dialettica non meno che “angosciosa” (la stessa angoscia, la stessa continua febbrile interrogazione che darà vita, nel 1987, a uno dei capolavori del Manga: il suo libro “musicale” per antonomasia da allora purtroppo mai ripubblicato, Rumori o voci): «l’onta del significato», che neppure la musica – nei confronti della quale lo scrittore non può comunque che confessare la propria «profonda invidia» – riesce del tutto a emendare, si presenta in letteratura (dice qualche pagina prima Manganelli) quale «ferita» d’origine e, addirittura, «contrassegno nobiliare». Solo in casi estremi (la poesia mistica iranica di Rūmī, per esempio; o la musica rituale giapponese del Gakaku, col cui ascolto significativamente si conclude il ciclo di conversazioni) viene davvero conseguita l’agognata estasi dell’astrazione: per il resto, ogni volta, quel maledetto qualcosa da dire si riaffaccia, invadente revênant, a riportare il volo della mente alla terra della prosa.


Il volume è completato, oltre che da saggi di Paolo Terni e del sottoscritto, da cinque articoli dispersi a tema musicale, «cinque pezzi facili» che Manganelli pubblicò fra il ’76 e l’89 sui diversi quotidiani cui collaborava. Ma il centro della pubblicazione, ripeto, è rappresentato dal cd audio allegato al libro nel quale si possono ascoltare le cinque puntate del ciclo del 1980 e, come bonus track, un estratto dalla suite musicale composta nel 1988 da Paolo Terni, per la voce recitante di Marisa Fabbri, sul testo di Rumori o voci. Qui si propone un frammento della quinta puntata, nella trascrizione e nell’audio originale.


Andrea Cortellessa

 




GIORGIO MANGANELLI: Questa capacità del discorso musicale di non dovere neanche – almeno apparentemente (perché in realtà sappiamo che non è vero, e questo possiamo anche esaminarlo) – di non dovere affrontare l’onta del significato: questo è un privilegio che il letterato non può non invidiare continuamente.

PAOLO TERNI: Sì. È vero. Ma se, come asserisci, si può identificare la musica con il luogo della pura forma, come omologare quanto sappiamo benissimo – e lo sai anche tu – circa il concreto narrativo che entra a far parte della musica in uno dei suoi momenti fondamentali che è l’opera lirica?

M. Già. Non è un caso che in un discorso che è ormai abbastanza lungo non abbiamo mai parlato di opera lirica.

T. Ecco. Sarebbe il momento di farlo.

M. Se mi si chiede una confessione, io devo dire effettivamente che io ho dei rapporti estremamente burrascosi ed estremamente discontinui con l’opera lirica. Certo è facile amare l’opera lirica di Wagner o di Mozart, perché in fondo non sono esattamente l’opera lirica come noi sentiamo la portatrice dei problemi del concreto, la portatrice dei problemi del discorso. Il problema ce l’abbiamo veramente di fronte a Verdi, ad esempio. E Verdi è un musicista con cui io passo continuamente da un estremo entusiasmo a un disorientamento. Lo amo profondamente, lo disamo altrettanto profondamente, e forse è una figura coniugale. È per l’appunto una figura di qualcosa da cui non ci possiamo separare e con cui, in fondo, non è neanche possibile totalmente vivere.

T. A questo punto sarei curioso di conoscere la tua opinione sul volgare in Giuseppe Verdi.

M. Dico subito che non ho l’impressione che il problema del volgare sia pertinente all’opera di Verdi. Direi semplicemente che Verdi non ha scritto delle colonne sonore per i libretti di Piave o di Boito. E la musica nell’idea del melodramma in Verdi è fondamentalmente fiabesca, a mio avviso, e vi è addirittura… Se devo pensare ad un esempio letterario non esiterei a citare Le mille e una notte. Non c’è niente del volgare nel senso schubertiano o mahleriano nel mondo di Verdi. Direi che è un mondo totalmente fantastico. E in questa fantasia, in questa invenzione totale, Verdi adopera, di volta in volta, degli strumenti che sembrano agevoli insieme a degli strumenti estremamente preziosi. Ma l’agevole di Verdi non ha nulla a che fare con quello che abbiamo chiamato il volgare.

T. Bene. Quanto dici mi pare un chiarimento molto importante perché, come ben sai, una lettura “forte” di Verdi è stata quella che lo ha considerato compositore di grande volgarità, da mondare attraverso letture più colte (ma sempre viste con qualche sospetto) come quella, per esempio; di Gabriele Baldini (in Abitare la battaglia). Credi che sia il caso di passare all’ascolto di un brano di Verdi?

M. Sì. Direi un brano di Verdi che credo può rappresentare felicemente l’ambiguità della sua…

T. … sotto il profilo del concreto…

M. … sotto il profilo del concreto e dell’astratto insieme, direi… Spieghiamo un po’ di cosa si tratta.

T. Manganelli vorrebbe che ascoltassimo la scena terza dell’atto secondo del Rigoletto: quella che ha inizio con le parole «Povero Rigoletto… ». La ascolteremo con l’orchestra del Teatro alla Scala di Milano diretta da Rafael Kubelik e con i cantanti Dietrich Fischer-Dieskau nella parte di Rigoletto e Virgilio Carbonari in quella di Marullo.

(Ascolto)

M. Eh… devo dire che sono molto colpito dal fascino di questa cantilena, di questo «la-là» che ripete Rigoletto; e che è una sovrapposizione rispetto al libretto. Il libretto porta le sue povere parole, ma Verdi raggiunge, direi, un’intensità particolarmente sconvolgente proprio adoperando una cantilena estranea al testo del libretto. È una cantilena che ridicolizza completamente non solo il libretto, ma la presenza della parola pronunciabile. È infinitamente più pregnante il momento della… della parola-non-parola…

T. .. della sillaba…

M. … della pura sillaba, della pura modulazione… è infinitamente più centrale quello che non qualsiasi altro momento in cui la storia proceda per le sue tragiche e amorose ambagi come è nel libretto verdiano. Mi piace quindi questa cantilena. Ma la parola cantilena ha in sé una duplice allusione che io non vorrei lasciare cadere: da un lato la cantilena è… è proprio una… diciamo una effusione elementare, è il momento più concreto del linguaggio. E talmente concreto che non ha ancora raggiunto il livello del significato. Quindi, direi, ci troviamo di fronte a un momento materico del linguaggio. Nello stesso tempo la cantilena è il momento già astratto del linguaggio, in cui la parola ha perso tutti i suoi contenuti e si è ridotta ad una pura e perfetta modulazione in cui tutti i significati possibili sono consumati. E redo che non sia illegittimo, per lo meno comunque mi è molto congeniale, vedere in questo punto del Rigoletto di Verdi una delle più affascinanti controprove della sua capacità di abitare il momento dell’astrazione e il momento non già del concreto ma del pre-concreto, di quello che ho chiamato del materico, del materiale direi. Cioè del pre-parlato. Il momento della parola in Verdi è sempre rinnegato o in avanti o addietro. E questo direi che lo tocchiamo proprio in questo punto con una straordinaria felicità.

T. E noi che credevamo di citare Verdi quale esempio di concretezza, vero?…

M. Maria Vergine!

T. E quindi, grazie a questa tua lettura sapientissima, il discorso sull’astratto passa integralmente attraverso tutta l’opera lirica, vero?

M. Certo. Noi possiamo prendere l’opera lirica che per l’appunto, apparentemente, è il deposito dell’inastratto e di qui procedere direttamente verso l’astratto, cioè verso il reame puro e specifico della sola musica, e forse degli archi trionfali come dicevamo prima, cioè della cosa necessaria ed inutile… e che possiamo vedere in alcuni esempi più alti della storia della musica, e non solo della musica europea. Ad esempio non è un caso che le ultime generazioni abbiano scoperto il fascino di certe musiche non-europee proprio nella loro dimensione più violentemente liturgica, più furiosamente astratta. C’è un furore dell’astrazione che la letteratura brama: penso a Hölderlin, ecco, penso a certe cose di Shakespeare in certi momenti…

T. E quel mistico iraniano di cui una volta abbiamo parlato?

M. Rūmī! Ecco. Certamente Rūmī è un caso straordinariamente affascinante e sconvolgente. Ecco, non tutti possono essere Rūmī però tutti devono avere coscienza di qual è la segnaletica dell’astratto. E la segnaletica dell’astratto è, in primo luogo, musicale.



Oggi alle 20.30  Una profonda invidia per la musica verrà presentato all’Auditorium della Rai di Via Asiago, a Roma, da Marino Sinibaldi in dialogo con Paolo Terni e Andrea Cortellessa. I quali subito prima, alle 20, saranno ospiti in diretta della trasmissione Radio Tre Suite.

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