Speciale
Lugano. Verso ovest
Per alcuni anni della mia vita, mentre ero un giovane apprendista regista radiofonico, ho frequentato il Ticino e in particolare Lugano. Lavoravo come assistente regista di Sergio Ferrentino alla produzione di alcuni suoi radiodrammi, tra i quali, in particolare, uno sui novecento giorni dell’assedio di Leningrado, messo poi in scena come si faceva alla radio una volta, con gli attori in diretta e il pubblico in sala, dall’auditorium della Radio svizzera italiana, il 29 novembre 2006. Ma questa è un’altra storia.
ph. Giovanna Silva
A Lugano ho passato molti mesi quell’anno, il 2006, a lavorare con i tecnici, a fare le prove con gli attori, a registrare suoni di guerra sulle colline insieme all’esercito svizzero. In primavera albergavo in un piccolo hotel a conduzione familiare, pieno di italiani immigrati dal Meridione. In autunno, nei giorni prima della diretta, ci trasferimmo tutti di fronte al lago, in un hotel che portava il nome del famoso educatore, filosofo e riformatore svizzero Johann Heinrich Pestalozzi.
ph. Giovanna Silva
All’interno dell’albergo c’era una stanza comune a lui dedicata e lì, mentre si ripassavano le pronunce dei nomi russi insieme a un professore della Statale di Milano (Gian Piero Piretto), scoprii la storia di Johann Heinrich, nato a Zurigo da famiglia oriunda italiana. Nei sistemi educativi primari c’è ancora molto del suo pensiero illuminista. Ma anche questa è un’altra storia.
Di quell’anno di lavoro a Lugano ricordo solo che entravo molto presto in studio e uscivo molto tardi e che non sapevo mai cosa fare. I cinema erano pochi, i negozi chiudevano alle sei e mezza, la città si spopolava dopo le sette di sera e nei bar trovavo solo operai turchi, portoghesi e italiani. Solo due giorni prima di andarmene scoprii un negozio di fumetti e dischi jazz introvabili proprio dietro l’hotel, in pieno centro. Il tipo che lo gestiva sembrava un anarchico uscito da Addio Lugano bella. Diventammo subito amici e gli comprai un disco di John Lurie.
ph. Giovanna Silva
Lugano all’epoca mi sembrava soltanto una città affacciata su un lago con belle ville, un microclima mite, un gran Casinò, bravi gioiellieri e studi radiofonici bellissimi. Mi ricordava Como, ma con i colori dei telefilm di Derrick. Tutto, nel panorama di Lugano, era decolorato, virato al giallognolo-rosa-grigiastro, anche nei giorni più felici dai cieli senza nuvole.
Tra me e la realtà oggettiva del mondo svizzero, si frapponeva il filtro catodico del telefilm tedesco. O forse era la realtà di Lugano ad avere gli stessi colori del telefilm tedesco. Ma era il telefilm tedesco che aveva quei colori slavati proprio perché riprendeva una realtà “slavata” o il contrario? Non so rispondere. Forse ero io che non riuscivo a vedere la realtà oltre lo stereotipo, però so che sarebbe bello se a Instagram aggiungessero un filtro “Derrick” per dare un tocco svizzero alle immagini che scattiamo.
ph. Giovanna Silva
I giorni prima della diretta trascorsero abbastanza rapidi. Iniziò a nevicare all’inizio di novembre. La città si fece ancora più silenziosa. Luminosa fino alle sei e mezza e poi, all’improvviso, il coprifuoco. Assistemmo a una partita di hockey del campionato svizzero. Ricordo solo che i tifosi locali irridevano i supporter ospiti urlandogli contro in coro «montanari», come se appartenere a un piccolo paese montano significasse essere figli di un dio minore. Nella Svizzera dei piccoli villaggi di montagna, i sessantamila abitanti di Lugano rappresentano la massima espressione dell’urbanità.
La neve non smetteva di cadere. Dal balcone dell’albergo la vedevo cadere tutte le sere, come facevo da piccolo dalla finestra della mia camera, in un piccolo paese della provincia umbra, che assomigliava tanto a Lugano. Non aveva il lago ma un fiume, e le stesse sfumature grigiastre. Forse il filtro “Derrick” è il filtro della provincia e della malinconia che emanano tutte le province del mondo. La neve non smetteva mai, quel novembre del 2006, veniva giù come ne I morti di James Joyce, che era un racconto contenuto nel libro che tenevo sul comodino in quel periodo. «Qualche lieve fruscio sui vetri lo fece voltare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Guardò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, che cadevano obliqui contro la luce del lampione. Era venuto il momento di mettersi in viaggio verso l’ovest». Ma verso ovest cosa c’era? Non capivo il messaggio, o almeno, non lo sentivo diretto a me.
ph. Giovanna Silva
Poi una notte alla fine di novembre capii. Nevicava ancora. Stavo andando insieme a Ferrentino da Milano a Lugano, in macchina. Da Milano a Lugano in auto ci vuole un’ora, poco più, poco meno. Il confine c’è ma non lo senti. Milano è più simile a Lugano che a Palermo, o anche solo Bologna.
Solo che quella notte, con la neve battente e con i lavori in corso lungo la statale subito dopo il confine, il viaggio sembrò lunghissimo. Nevicava, dicevo, e c’erano i lavori in corso. Fummo costretti a uscire tra Mendrisio e Lugano. Non ricordo in che paesino finimmo, ma non avevamo il navigatore e ci perdemmo. Nevicava. Sotto la neve, alle nove di sera, il paese era vuoto e non c’era nessuno a cui chiedere.
ph. Giovanna Silva
Stavamo girando a vuoto quando all’improvviso, in mezzo alla strada, comparve un vecchio a piedi, con la barba bianca e lunga. Sembrava un clochard, ma quando si avvicinò al finestrino notammo che era vestito in maniera elegante, anche se fuori moda. Ci fermammo a chiedere indicazioni. Lui guardò dentro l’abitacolo. Non avevamo chiesto ancora nulla. Guardò Ferrentino e senza sapere nulla di lui, gli disse: «Tu fai il regista, amico, vero? Perché secondo me sei un regista». Silenzio. Sorpresa. Chi era quest’uomo uscito dal nulla che veniva a scrutare nell’anima e nei sogni di due sventurati? Sembrava il vecchio marinaio di Coleridge. Dopo pochi secondi di silenzio, aggiunse: «Comunque per andare a Lugano dovete andare verso ovest, laggiù». Disse proprio così, «verso ovest», come si indicavano le strade un tempo. E lì capii. Verso ovest, è la direzione per non perdersi.