Lugano. Verso ovest

3 Maggio 2015

Per alcuni anni della mia vita, mentre ero un giovane apprendista regista radiofonico, ho frequentato il Ti­cino e in particolare Lugano. Lavoravo come assistente regista di Sergio Fer­rentino alla produzione di alcuni suoi radiodrammi, tra i quali, in particolare, uno sui novecento giorni dell’assedio di Leningrado, messo poi in scena come si faceva alla radio una volta, con gli attori in diretta e il pubblico in sala, dall’auditorium della Radio sviz­zera italiana, il 29 novembre 2006. Ma questa è un’al­tra storia.

 

ph. Giovanna Silva

 

A Lugano ho passato molti mesi quell’anno, il 2006, a lavorare con i tecnici, a fare le prove con gli attori, a registrare suoni di guerra sulle colline insie­me all’esercito svizzero. In primavera albergavo in un piccolo hotel a conduzione familiare, pieno di italiani immigrati dal Meridione. In autunno, nei giorni pri­ma della diretta, ci trasferimmo tutti di fronte al lago, in un hotel che portava il nome del famoso educatore, filosofo e riformatore svizzero Johann Heinrich Pe­stalozzi.

 

ph. Giovanna Silva

 

All’interno dell’albergo c’era una stanza comu­ne a lui dedicata e lì, mentre si ripassavano le pronun­ce dei nomi russi insieme a un professore della Sta­tale di Milano (Gian Piero Piretto), scoprii la storia di Johann Heinrich, nato a Zurigo da famiglia oriun­da italiana. Nei sistemi educativi primari c’è ancora molto del suo pensiero illuminista. Ma anche questa è un’altra storia.

 

Di quell’anno di lavoro a Lugano ricordo solo che entravo molto presto in studio e uscivo molto tar­di e che non sapevo mai cosa fare. I cinema erano po­chi, i negozi chiudevano alle sei e mezza, la città si spopolava dopo le sette di sera e nei bar trovavo solo operai turchi, portoghesi e italiani. Solo due giorni prima di andarmene scoprii un negozio di fumetti e dischi jazz introvabili proprio dietro l’hotel, in pie­no centro. Il tipo che lo gestiva sembrava un anarchi­co uscito da Addio Lugano bella. Diventammo subito amici e gli comprai un disco di John Lurie.

 

ph. Giovanna Silva

 

Lugano all’epoca mi sembrava soltanto una cit­tà affacciata su un lago con belle ville, un microclima mite, un gran Casinò, bravi gioiellieri e studi radio­fonici bellissimi. Mi ricordava Como, ma con i colori dei telefilm di Derrick. Tutto, nel panorama di Luga­no, era decolorato, virato al giallognolo-rosa-grigia­stro, anche nei giorni più felici dai cieli senza nuvole.

 

Tra me e la realtà oggettiva del mondo svizze­ro, si frapponeva il filtro catodico del telefilm tede­sco. O forse era la realtà di Lugano ad avere gli stessi colori del telefilm tedesco. Ma era il telefilm tedesco che aveva quei colori slavati proprio perché riprende­va una realtà “slavata” o il contrario? Non so rispon­dere. Forse ero io che non riuscivo a vedere la real­tà oltre lo stereotipo, però so che sarebbe bello se a Instagram aggiungessero un filtro “Derrick” per dare un tocco svizzero alle immagini che scattiamo.

 

ph. Giovanna Silva

 

I giorni prima della diretta trascorsero abba­stanza rapidi. Iniziò a nevicare all’inizio di novem­bre. La città si fece ancora più silenziosa. Luminosa fino alle sei e mezza e poi, all’improvviso, il copri­fuoco. Assistemmo a una partita di hockey del cam­pionato svizzero. Ricordo solo che i tifosi locali irri­devano i supporter ospiti urlandogli contro in coro «montanari», come se appartenere a un piccolo pae­se montano significasse essere figli di un dio minore. Nella Svizzera dei piccoli villaggi di montagna, i ses­santamila abitanti di Lugano rappresentano la massi­ma espressione dell’urbanità.

 

La neve non smetteva di cadere. Dal balcone dell’albergo la vedevo cadere tutte le sere, come face­vo da piccolo dalla finestra della mia camera, in un piccolo paese della provincia umbra, che assomigliava tanto a Lugano. Non aveva il lago ma un fiume, e le stesse sfumature grigiastre. Forse il filtro “Derrick” è il filtro della provincia e della malinconia che emana­no tutte le province del mondo. La neve non smette­va mai, quel novembre del 2006, veniva giù come ne I morti di James Joyce, che era un racconto contenu­to nel libro che tenevo sul comodino in quel periodo. «Qualche lieve fruscio sui vetri lo fece voltare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Guardò as­sonnato i fiocchi, argentei e scuri, che cadevano obli­qui contro la luce del lampione. Era venuto il momen­to di mettersi in viaggio verso l’ovest». Ma verso ovest cosa c’era? Non capivo il messaggio, o almeno, non lo sentivo diretto a me.

 

ph. Giovanna Silva

 

Poi una notte alla fine di novembre capii. Ne­vicava ancora. Stavo andando insieme a Ferrentino da Milano a Lugano, in macchina. Da Milano a Lu­gano in auto ci vuole un’ora, poco più, poco meno. Il confine c’è ma non lo senti. Milano è più simile a Lu­gano che a Palermo, o anche solo Bologna.

 

Solo che quella notte, con la neve battente e con i lavori in corso lungo la statale subito dopo il confine, il viaggio sembrò lunghissimo. Nevicava, dicevo, e c’erano i lavori in corso. Fummo costretti a uscire tra Mendrisio e Lugano. Non ricordo in che paesino finimmo, ma non avevamo il navigatore e ci perdemmo. Nevicava. Sotto la neve, alle nove di sera, il paese era vuoto e non c’era nessuno a cui chiedere.

 

ph. Giovanna Silva

 

Stavamo girando a vuoto quando all’improvvi­so, in mezzo alla strada, comparve un vecchio a piedi, con la barba bianca e lunga. Sembrava un clochard, ma quando si avvicinò al finestrino notammo che era vestito in maniera elegante, anche se fuori moda. Ci fermammo a chiedere indicazioni. Lui guardò den­tro l’abitacolo. Non avevamo chiesto ancora nulla. Guardò Ferrentino e senza sapere nulla di lui, gli dis­se: «Tu fai il regista, amico, vero? Perché secondo me sei un regista». Silenzio. Sorpresa. Chi era quest’uo­mo uscito dal nulla che veniva a scrutare nell’anima e nei sogni di due sventurati? Sembrava il vecchio ma­rinaio di Coleridge. Dopo pochi secondi di silenzio, aggiunse: «Comunque per andare a Lugano dovete andare verso ovest, laggiù». Disse proprio così, «ver­so ovest», come si indicavano le strade un tempo. E lì capii. Verso ovest, è la direzione per non perdersi.

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