Social media come imprese coloniali
Questa non è una recensione di un libro sui media digitali, ma una riflessione sui modi in cui in Italia si fa divulgazione intorno ai media digitali. Sostengo che spesso, in Italia, giornali e saggisti si fermano ad una critica dei media digitali che è reazionaria, conservatrice e moralista, perdendo di vista le questioni economiche, politiche e ambientali che sono il vero problema generato dalla diffusione di questi strumenti.
Lo spunto parte dall’uscita di un libro della giornalista Lisa Lotti, 8 Secondi – viaggio nell’era della distrazione (Il Saggiatore), dove l’autrice accusa i social media di averci resi dipendenti. Il libro insiste molto sulle ricerche di tipo psicologico che dimostrerebbero che i like di Facebook stimolano le stesse aree attivate dall’assunzione di stupefacenti e che i social stanno modificando la struttura del nostro cervello.
Il libro è solo l’ultimo di una lunga lista di titoli, documentari e articoli di giornale che patologizzano i media digitali, come in passato era accaduto con la televisione e i videogiochi.
In questo articolo proverò a dimostrare cosa c’è di sbagliato e preoccupante in questa narrazione e perché non ci aiuta a capire i veri problemi connessi con l’uso dei social media.
Partiamo dalla teoria della dipendenza. Questa teoria sostiene che i social media attivano le stesse aree del cervello che vengono stimolate dal consumo di droghe pesanti. È vero, molti studi lo dimostrano, ma ci sono anche molti altri studi che dimostrano come il sesso, l’ascolto di musica, il cibo attivano le stesse aree cerebrali. Daniel Levitin, un neuroscienziato dell’università McGill di Montreal, autore di molti libri di divulgazione tradotti anche in italiano da Codice Edizioni, ha pubblicato insieme al suo team di ricerca, già nel 2017, uno studio simile. Quindi? Dovremmo dedurre che ascoltare musica ci rende dipendenti come assumere cocaina? No, affatto. Esperienze religiose, cibo, sesso, musica, videogiochi e social media possono stimolare nel nostro cervello delle reazioni chimiche simili a quelle generate dall’assunzione di sostanze psicotrope. Questo è un fatto. Ma questo fatto basta per dimostrare che la musica, il sesso, il cibo o i social media possono provocare “dipendenza”? È vero, una piccola percentuale della popolazione sviluppa comportamenti di dipendenza verso l’attività sessuale, il cibo, e anche i social media. Ma non diremmo mai che il sesso fa male perché in alcune persone provoca dipendenza.
Alcuni ricercatori in psicologia hanno provato a dimostrare che i social media provocano dipendenza e sono andati a cercare l’esistenza di “bias attenzionali” tra gli utenti che passano molte ore sui social media. I “bias attenzionali”, secondo questi ricercatori, sono una caratteristica chiave del comportamento di dipendenza ad esempio, da droghe, tabacco, alcol o gioco d’azzardo: chi ne è dipendente non riesce a concentrarsi su nient’altro che sul proprio oggetto del desiderio, da cui è diventato dipendente. Questo gruppo di ricercatori ha fatto un esperimento per capire se esistessero delle differenze di comportamento tra utenti che passavano molto tempo sui social media e utenti che li frequentavano pochissimo. Il risultato, che potete leggere in questo articolo scientifico pubblicato nel 2021, è che non esistevano differenze: nessuno degli utenti con un alto consumo di social media sviluppava un bias attenzionale nei confronti di essi.
Naturalmente la comunità scientifica non ha un’opinione univoca su questo tema e molti studi sono in corso, ma la mia sensazione è che stiamo perdendo tempo e che il nostro pensiero critico nei confronti dei social media rischi di essere “sequestrato” da preoccupazioni sbagliate, che avallano un sentimento reazionario, conservatore e moralista, quando invece potremmo spendere meglio il nostro tempo costruendo critiche più utili contro l’industria dei social media.
Essere preoccupati dalla distrazione che i social media provocherebbero, o addirittura dalla dipendenza che ci creerebbero, significa essere dei conservatori moralisti. Perché?
Primo, perché le stesse identiche critiche in passato sono state rivolte alla televisione e ai videogiochi. Io sono cresciuto consumando ore di televisione spazzatura e videogiochi durante la mia infanzia e adolescenza, eppure non sono mai finito in una clinica di riabilitazione per questo.
Gli effetti dei media elettronici su di noi sono molto più complessi di così, non possiamo ridurli a una mera questione di “esposizione”, di tempi di consumo. E non possiamo ridurre gli individui a una tabula rasa che accoglie passivamente gli stimoli ricevuti dai media. Da decenni, la sociologia della comunicazione, anche se fa meno notizia degli studi psicologici o economici sugli effetti neuronali dei social media, ha ormai acclarato che i media non agiscono in un vuoto sperimentale, non hanno effetti diretti sulla nostra psiche, ma sono inseriti in un contesto sociale che media la nostra relazione con essi.
Il nostro capitale culturale, il contesto familiare e relazionale, il nostro capitale sociale, sono tutti fattori che intervengono (le cosiddette “variabili intervenienti”) nella nostra relazione con i media. Qualche individuo incline a problemi psicologici, abbandonato dalla famiglia e molto isolato socialmente, potrebbe certamente sviluppare dipendenza da Internet o dai social media, o dai videogiochi, ma il problema è l’isolamento sociale e la mancanza di un ambiente familiare ricco di affetti, non la tecnologia che fa brillare questi problemi.
Secondo, insistere sul pericolo patologico dei social media significa essere moralisti e conservatori, perché presuppone che questi strumenti non servano a niente, se non a “distrarsi”. Innanzitutto, se anche servissero a distrarsi, non ci sarebbe, di per sé, niente di male. In una società che ci spinge ad essere sempre produttivi ed efficienti, l’ozio, la distrazione improduttiva, assume una connotazione negativa, ma non ci farebbe male prenderci una pausa, ogni tanto. Ed è quello che fanno molti miei studenti, quando staccano dallo studio e passano 15, ma anche 30 minuti su Instagram.
A volte ci “cadono dentro”, e sentono di aver perso tempo, proprio come le casalinghe studiate dai sociologi britannici negli anni Ottanta dicevano di sentirsi dopo aver visto troppa televisione, invece di aver finito di stirare. In generale però, quel tempo di distrazione pura, è un tempo che prima veniva speso in altre forme di distrazione, altrettanto “inutili”, come la televisione, la riproduzione di musica domestica, o il bighellonare senza meta per le vie della città, da adolescenti, in preda alla noia.
Non solo, ma nella maggior parte dei casi, non possiamo parlare nemmeno di distrazione, o “era della distrazione”: più semplicemente, le persone fanno, con i social media, molte cose “reali”, tipo organizzare appuntamenti, socializzare il proprio gusto personale, informarsi, litigare, scambiarsi affetto, tutte cose molto umane. È conservatore e reazionario pensare che le persone “perdano tempo” sui social e che esistano modi più nobili di impiegare il proprio tempo. Allo stesso tempo, è vero che alcuni di noi ricavano molto poco dai social, ma il problema, anche qui, è sociale, non tecnologico: di nuovo, quello che insegniamo noi sociologi della comunicazione è che le persone, a seconda delle intersezioni tra i loro retroterra sociali, culturali, politici, economici, di genere usano i media, tutti i media, in modi molto differenti tra loro. C’è chi li usa per arricchire le proprie conoscenze e chi solo come passatempo contro la noia, chi li usa solo per parlare con gli amici e chi per spammare odio contro sconosciuti. Da cosa dipendono questi divari nell’uso dei media? Di nuovo, da questioni sociali e culturali, non da questioni tecnologiche.
E allora? Va tutto bene? Teniamoci questi splendidi social media, che non ci rendono dipendenti né sono fonte di maggiore distrazione rispetto ai media del passato? No, affatto.
In un momento storico in cui Twitter sta cadendo a pezzi sotto i colpi di un padre padrone umorale e autoritario, in cui Facebook non è amato da nessuno e solo alcuni social media come Tik Tok e Twitch sembrano godere di buona salute, non abbiamo molti motivi per difendere i social media commerciali.
Ma trovo che libri e articoli che insistono sul potere distrattivo e patologico dei prodotti delle aziende della Silicon Valley costituiscano un’occasione mancata per avanzare una critica affilata e progressista nei confronti di questi giganti. Ci sono molte questioni molto più importanti della dipendenza e della distrazione, per le quali dovremmo preoccuparci della pervasività di questi media. E ci sono molti bellissimi libri, alcuni anche tradotti in italiano, che ne parlano. Invece di perdere tempo con libri di divulgazione che seguono la moda del momento, dovremmo fare uno sforzo di ricerca in più e dedicare maggiore attenzione a libri apparentemente meno divulgativi, perché scritti da ricercatori e non da giornalisti, ma molto più originali.
Uno di questi è sicuramente il volume appena tradotto e pubblicato da Il Mulino, Il prezzo della connessione, di due accademici studiosi di media, Nick Couldry e Ulises Mejias, che si concentrano su aspetti molto più preoccupanti dell’esistenza dei social media. Questi ultimi hanno messo in piedi una infrastruttura tecnologica simile a quella degli imperi coloniali del passato, sostengono i due autori, che permette loro di estrarre gratuitamente dati dai nostri comportamenti per trasformarli in valore economico e hanno acquisito un potere così vasto da diventare, proprio come le compagnie delle Indie orientali del passato, un pericolo per le democrazie e per la società.
È questo che dovrebbe preoccuparci, non la dipendenza da social. La dipendenza da social scarica tutte le responsabilità sul singolo individuo, che allora deve apprendere a “disconnettersi”, oppure scaricare le responsabilità sui singoli designer delle piattaforme, che, pentiti di aver lavorato per Facebook e Google, iniziano a professare la necessità di un design etico. Ma questi approcci al problema scaricano le responsabilità sui singoli consumatori e sui singoli produttori, perdendo di vista il contesto economico generale in cui prendono forma i colossi della tecnologia digitale.
Se il modello di business di Twitter, Facebook, Instagram, You Tube e Tik Tok rimane quello della radio e della televisione commerciale, l’obiettivo sarà sempre lo stesso: mantenere le persone più tempo possibile connesse. Se questo modello non viene regolato, né gli viene opposta resistenza, né vengono sviluppate alternative più democratiche, i risultati saranno sempre gli stessi, e nessun designer che lavora per una società del genere potrà mai essere etico. Tutti questi giganti lottano per la nostra attenzione, che diventa sempre più analizzata, ispezionata, trasformata in dati e confrontata tramite algoritmi con quella degli altri, alla ricerca di schemi di comportamento simili.
Il primo problema di questi social media è quindi di tipo economico-politico, non psicologico o neuronale.
Il modello economico dei social media ha un impatto devastante anche per tutte le industrie culturali, che stanno venendo trasformate dai social media. Chi crea contenuti, i cosiddetti “lavoratori culturali” un tempo lavorava per giornali, televisione, radio, cinema. Oggi sopravvive a fatica facendo gli stessi contenuti per You Tube, Instagram, Tik Tok, o creando musica o podcast distribuiti su Spotify.
Questa nuova industria culturale mediata da piattaforme produce enormi diseguaglianze, amplificando le vecchie diseguaglianze strutturali (ricordate questo articolo che avevo scritto sulla questione di classe nel lavoro culturale?) e precarizzando sempre più il lavoro culturale.
Come funziona questa industria, il ruolo degli algoritmi nella visibilità del proprio lavoro, la precarietà a cui è sottoposto il lavoro culturale, è il tema di questo bellissimo libro di tre professori e ricercatori in media studies, Thomas Poell, Brooke Erin Duffy e David Nieborg, appena tradotto da Minimum Fax: Piattaforme digitali e produzione culturale. Sempre su questo tema, se volete approfondire, c’è un altro libro pubblicato da Minimum Fax (grazie al lavoro di cura di Luca Barra e Fabio Guarnaccia), sempre di due ricercatori di media studies, Stuart Cunningham e David Craig: Social Media Entertainment. Quando Hollywood incontra la Silicon Valley. E se vogliamo, potremmo aggiungere anche questo libro su Netflix, sempre di un altro ricercatore, Ramon Lobato: Netflix Nations, sulla geografia politica di Netflix.
Il secondo problema che ci pongono i social media è invece di tipo ambientale. E su questo tema è recentemente uscito un bel libro, questa volta a cura di un giornalista (non italiano, ma francese), Guillaume Pitron, Inferno digitale. Perché internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta.
Il libro è un lungo reportage, accurato e documentato, dell’impatto ambientale, estremamente materiale, generato dall’infrastruttura tecnologica che tiene in piedi internet, gli smartphone e i social media. Innanzitutto, è importante perché riafferma la materialità di uno strumento, Internet, troppo a lungo considerato immateriale: data center, smart city, miniere di grafite hanno un impatto ambientale devastante. Il secondo punto di forza del libro è l’impiego di un approccio geopolitico alle tecnologie digitali.
Leggerlo ci apre gli occhi sui costi ecologici, insostenibili al momento, dell’infrastruttura che utilizziamo per mandarci bacini su WhatsApp. Ogni volta che parte un bacino, stiamo distruggendo un pezzetto di pianeta. E Pitron lo spiega con chiarezza e dovizia di dati, un libro che dovrebbe diventare materia di studio obbligatoria nelle scuole superiori, per forgiare la coscienza ecologica delle future generazioni di adulti, già comunque molto più avanti dei boomer come Sgarbi che si oppongono alle pale eoliche e ai pannelli solari.
Queste due questioni, economico-politica e ambientale, sono argomenti di un’agenda progressista nei confronti dei media digitale. Un’agenda che ne comprenda i potenziali benefici ma anche le criticità, senza stupidi moralismi. Tutto il resto, sono argomenti da bar tra reazionari, conservatori e nostalgici del novecento.