Luoghi comuni: Padani
“Quel pidocchio lì, che tra l'altro poi ho pensato non era neanche un pidocchio non era, che infatti mia sorella m'ha detto sarà mica una bacca che la Giovanna ha preso su in bicicletta a Cavezzo. Il fatto è che se lo sapevo che non era un pidocchio neanche stavo lì a ripensare a quel racconto russo pieno di pidocchi e pensavo magari alla Giovanna, un po' m'innamoravo anche. Perché te a volte pensi delle robe che non sono neanche quelle che dovevi pensare e perdi solo un gran tempo. Oh, non è che io c'ho un gran daffare, che intanto m'era venuta una depressione ma una depressione che non rispondevo neanche più ai miei amici giù a Novellara e stavo lì chiuso in casa a saltellare in cucina sulle piastrelle come un pidocchio.”
Un quiz per il lettore: si tratta di una facile eco prodotta dallo scrivente, o di un pezzo di Benati, di Nori, di Cornia, o ancora un patchwork montato da Cornia Nori Benati; forse addirittura viene per li rami da Cavazzoni o Celati? Certo il “gusto delle fole”, del parlare per parlare è del maestro primo, ma in fondo il gioco diventa ozioso perché non pare importante sceverare un autore. Anzi è il luogo comune della bassa padana a far sentire la sua voce sentimentale. Oralità, comico tendente al buffo, malinconico anticonformismo e antimodernismo, zavattinismo blandamente surreale e pascolismo stralunato, naïveté più o meno vera, flânerie del piccolo pensiero, malattia sghemba alla Raffaello Baldini.
Una voce collettiva simpatetica, così lontana da quell'altra, vicinissima dal punto di vista geografico, dei Wu Ming; paese contro città, solipsismo contro grandi orizzonti spazio-temporali. Un'opposizione volontaria e umbratile a fronte di un'altra che ha teorizzato la guerriglia mediatica e poi la svolta al grande romanzo Q, e però replicata di seguito nell'Einaudi berlusconiana e in formula (New Italian Epic). Da una parte Delfini, dall'altra Eco passato per il '77 bolognese e i movimenti no global, combattente per la conquista dell'immaginario.
Se la lingua del Collettivo è pronta a sciogliersi nella corrente internazionale-internazionalista, Cornia o Nori scrivono come parlano; ma pure, ascoltando le loro presentazioni, parlano come scrivono. Questo un poco incrina la spontanea simpatia del lettore, creando una specie di effetto rispecchiamento distorto, simile a quando ci s'imbatte nella natura del Mulino Bianco. Tanto più che l'ormai copiosa produzione dà l'impressione di una macchinetta che si autoalimenta, potenzialmente in eterno. Uno dei narratori di Cornia ironizzava una volta su un personaggio femminile, che pretendeva di capirne pensieri e sentimenti dalla posizione fisica di chiusura; eppure la postura della voce lascia un sospetto di tensione e di sforzo. Confrontare Quasi amore (2001) dello stesso Cornia con la svolta di Le pratiche del disgusto (2007), ormai inglobato nella koiné padana culminante nell'ultimo Animali (2014). Oppure, ma in senso inverso secondo le piegature biografiche, il Celati della trilogia di Guizzardi e quello degli anni ottanta; la ricchezza fantastica di Cavazzoni (Il poema dei lunatici, Cirenaica), capace anche d'un confronto brillantissimo con la tradizione letteraria (Storie di giganti). Il lettore non vorrebbe rischiare, durante una gita a Cavezzo o Novellara, di entrare in un bar, rivolgendosi al gestore o agli altri clienti con l'andamento di Nori, Cornia e Benati, e sentirsi rispondere: “Ma questo che lingua parla?”.