L’uomo dalle orecchie a punta

28 Febbraio 2015

Risponde a uno di quei casi che paiono invece ubbidire a una sceneggiatura superiore, che Leonard Nimoy se ne sia andato (nella sua casa di Bel Air, oggi, per una malattia polmonare della quale soffriva da tempo) all’indomani della cerimonia degli Oscar che ha visto trionfare Birdman, cioè la storia – interpretata da Michael Keaton, a suo tempo star nella serie dei film di Batman diretti da Tim Burton – di un attore che, prigioniero di un personaggio memorabile che ha riscosso un inopinato successo, vede andare a vuoto i suoi tentativi di smarcarsene abbracciando una nuova persona di sé. Perché è esattamente quanto capitato a Nimoy, negli ultimi 46 anni d’una vita di 83, rispetto al personaggio del Signor Spock: il Primo ufficiale dell’Astronave Enterprise nelle mitiche prime tre serie televisive – le cosiddette “serie classiche” – di Star Trek, andate in onda sulla NBC dal settembre 1966 al giugno ’69.

 

 

Naturalmente ha fatto tante altre cose, Nimoy, prima e dopo Star Trek (basta rinviare alla relativa voce di Wikipedia), ma era perfettamente consapevole di essere e restare, per tutti, solo e sempre il Signor Spock. È palpabile il rassegnato divertimento col quale nel 2011, in una delle sue ultime apparizioni, si congeda dal pubblico coll’icastico saluto vulcaniano (una specie di «V» churchilliana rinforzata o doppia; una «W», allora, iniziale magari di «Warp»: la «curvatura» che permette all’Enterprise di affrontare i suoi viaggi interstellari). E pare che il suo ultimo tweet sia stato proprio Live long and prosper, «Lunga vita e prosperità»: il motto di saluto che quel gesto, sempre, accompagna.

 

 

Perché alla fine, proprio come il personaggio interpretato da Keaton nel film di Iñarritu, con quella maschera di ferro alla fine Nimoy ha avuto la saggezza di riconciliarsi. (Eloquenti i titoli dei due libri autobiografici, pubblicati a distanza di vent’anni l’uno dall’altro: I am not Spock nel ’75, I am Spock nel ’95.) Da ben presto, per la verità: se è vero che fu proprio lui – dopo essersi rifiutato di tornare a vestire i panni dell’ufficiale della Flotta Astrale in una seconda serie televisiva (che poi, negli anni Ottanta, verrà bensì realizzata ma con un cast del tutto rinnovato, quello capitanato da Patrick Stewart, collocato in una linea temporale 78 anni successivo al continuum narrato dalle “serie classiche” anni Sessanta) – a consentire che, nel ’79, Star Trek diventasse un lungometraggio cinematografico (primo d’una serie di dodici – i primi sei col cast delle “serie classiche”, poi quattro con la «Next Generation», infine gli ultimi due, del 2009 e del 2013, che – grazie a uno stratagemma di sceneggiatura – vedono i due equipaggi riuniti, con dunque il ritorno di un ottantenne Nimoy nel ruolo di Spock; del terzo e quarto film, Alla ricerca di Spock e Rotta verso la Terra, rispettivamente del 1984 e dell’86, Nimoy ha firmato anche la regia; del quarto e del sesto, Rotta verso l’ignoto del ’91, la sceneggiatura: a conferma d’una sua progressiva identificazione con la mitopoiesi trekker). 

 

Ma chi è Spock, e perché lo amiamo? A differenza di tante saghe fantascientifiche (ma per lo più afferenti piuttosto, come le snobbiamo noi puristi, al sotto-genere della Space Opera: dalle parti di Star Wars, per intendersi) offuscate da afrori identitari e più o meno sottilmente razzisti – più consoni in effetti al genere western o a quello “di guerra” – Star Trek incarna a meraviglia lo spirito più attraente degli anni in cui vennero concepite e realizzate le sue “serie classiche”. Lo slogan col quale iniziava ogni puntata – «Spazio, ultima frontiera» – se in effetti richiamava alla lontana l’immaginario western, riprendeva apertamente quello col quale John F. Kennedy – all’inaugurazione di quel decennio, alla convention democratica di Los Angeles, il 14 luglio 1960 – aveva fatto irruzione nell’immaginario collettivo, appunto riallacciandosi all’epos ottocentesco della «Frontiera» («Siamo sul bordo di una Nuova Frontiera, la frontiera delle speranze incompiute e dei sogni. Al di là di questa frontiera ci sono le zone inesplorate della scienza e dello spazio, problemi irrisolti di pace e di guerra, peggioramento dell’ignoranza e dei pregiudizi, nessuna risposta alle domande di povertà ed eccedenze»): non a caso proprio quello dell’esplorazione spaziale sarà il più affascinante dei punti in programma sull’agenda della Presidenza Kennedy.

 

 

In un altro celebre discorso, tenuto il 12 settembre 1962 al Rice Stadium di Houston – nel Texas che l’anno dopo gli sarà fatale (e con un parallelo che a posteriori suona in effetti un po’ menagramo) – Kennedy così aveva annunciato l’inizio della corsa che sette anni dopo si concluderà con l’allunaggio dell’Apollo 11 sul Mare della Tranquillità: «Tanti anni fa a un grande esploratore inglese, George Mallory, che sarebbe poi morto nel tentativo di conquistare l’Everest, chiesero perché ci tenesse tanto a scalare quella montagna. E lui rispose: “perché sta lì”. Ecco: lo spazio sta lì, e noi lo scaleremo; la luna e i pianeti stanno lì, nuove speranze di conoscenza e pace stanno lì. E allora nel cominciare il cammino chiediamo l’aiuto di Dio per l’avventura più arrischiata e pericolosa, la più grande avventura in cui l’umanità si sia imbarcata». (Vale la pena riascoltare, a questo punto, il resto del claim iniziale degli episodi di Star Trek – un vero e proprio manifesto ideologico, insomma –: Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all’esplorazione di strani nuovi mondi alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima).

 

Al di là della sorte individuale di JFK, e anche al di là del giudizio che si voglia dare sulla sua avventura politica (che oggi gli storici tendono a formulare in modo assai più chiaroscurato di quanto la vulgata contrabbandi), proprio lo spirito d’avventura di quella generazione, oggi, difficilmente si riesce a evitare di rimpiangere. Ed è proprio questo, credo, il vero motivo della fascinazione rétro di noi Trekkers. Che non a caso si sviluppa a partire dagli anni Settanta (la NBC chiude l’ultima delle tre “serie classiche”, nel ’69, proprio per il successo inferiore alle attese): quando presidente è l’anti-Kennedy, Richard Nixon; quando la Luna è stata ormai conquistata e non c’è modo di proseguire ancora oltre. E quando il ciclo economico e politico, dopo una fase euforicamente espansiva durata più d’un decennio, rientra nella stagnazione e nella depressione.

 

La stessa fase, cioè, in cui ci troviamo oggi. Il nucleo di Interstellar, l’irresistibile blockbuster di Christopher Nolan snobbato dagli Oscar, è il cortocircuito sul quale si regge la prima, stupefacente parte del film: quella, appunto più un western dai toni quasi faulkeriani che un film di fantascienza, ambientata su un pianeta Terra percorso da tempeste di polvere e che, ridotto alla fame da una non precisata «piaga» che ha fatto deperire tutte le coltivazioni tranne il mais, s’è ridotto a un unico immenso campo di granturco. Il protagonista Cooper, interpretato da Matthew McConaughey, è un ex pilota della NASA abitato da una lancinante nostalgia di quel futuro che la sua generazione ha fatto in tempo a intravedere ma che le circostanze gli hanno sottratto. I costi esorbitanti delle missioni spaziali le hanno rese impopolari, s’è diffusa una nuova vulgata la quale accredita come storica la nota leggenda metropolitana secondo la quale nessun americano avrebbe in effetti mai calpestato il suolo lunare. Lo spazio – e con esso quella prometeica tensione al futuro – è stato abbandonato da tempo.

 

Ogni narrativa d’anticipazione si nutre di una visione. E anche laddove tale visione sia cupa, apocalittica, distopica, questo suo tendere verso un altro orizzonte ha sempre qualcosa di liberatorio. Misteriosamente liberatorio. Per farsi una ragione di questo, si dovrà tenere conto del fatto che ogni storia fantascientifica, in effetti, è una storia di viaggio: anche laddove non siano odissee nello spazio, le narrazioni d’anticipazione sono, per definizione, odissee nel tempo: spostamenti anacronici nel futuro, nella grande maggioranza dei casi; altre volte nel passato; comunque in una dimensione temporale alternativa al presente. Per questo quintessenza dello spirito della fantascienza è il tema del viaggio nel tempo: che, guarda caso, troviamo tanto in Star Trek che in Interstellar. E in quanto costitutivamente appartenenti all’archetipo del viaggio, e malgrado ogni avversa fortuna, le storie-che-si-spostano-nel-tempo conservano un irriducibile quanto di vitalità. L’allegria di naufragi, magari, d’ungarettiana memoria; o quello che, capovolgendo Freud, Andrea Zanzotto chiamava il piacere del principio. Un piacere che si produce magari in forma negativa, introflessa e malinconica, quando a venire messa in scena sia, precisamente, l’interdizione al viaggio: come nel più bel film di fantascienza che sia stato realizzato dopo Alien e Blade Runner di Ridley Scott, Gattaca di Andrew Niccol. O, appunto, come nella prima parte di Interstellar.

 

 

In particolare, degli anni in cui è stata concepita, la “serie classica” di Star Trek mostra un’evidente matrice ideologica di stampo kennediano, multietnica e cosmopolita. Basta vedere la composizione dell’equipaggio dell’Enterprise: per la prima volta nella storia della televisione un giapponese, una donna di origine africana, diversi americani, uno scozzese, un alieno e un russo (nel momento in cui il mondo era spaccato in due dalla Guerra fredda) si trovavano a lavorare insieme per esplorare l’universo alla ricerca di nuove culture con cui dare vita a reciproci scambi in nome dell’uguaglianza e della pace. Eloquente a tal riguardo un aneddoto che riguarda la creazione del personaggio del navigatore Chekov, l’ufficiale addetto alle armi nell’equipaggio delle “serie classiche”. L’ideatore della serie, Gene Roddenberry, decise di aggiungere il ruolo di Chekov solo nella seconda stagione, in risposta a un presunto articolo pubblicato dalla Pravda, il quale avrebbe  protestato che, pur essendo l’Unione Sovietica leader nell’esplorazione spaziale, nessun membro dell’equipaggio multinazionale dell’Enterprise fosse russo. In realtà la Pravda non pubblicò mai un articolo del genere, e Roddenberry con ogni probabilità se lo inventò di sana pianta: appunto allo scopo di realizzare il suo ideale di unità dei popoli.

 

E fece epoca, nell’ultima delle tre “serie classiche”, l’episodio Plato’s Stepchildren (Umiliati per forza maggiore), trasmesso il 22 novembre 1968: in cui si vede il primo bacio interrazziale della storia della televisione. Se lo danno Uhura e, naturalmente, il sempre romantico e piacione capitano Kirk (interpretato da William Shatner). Anche se, con una certa ironia e insieme una certa cautela, a quel gesto così trasgressivo i due personaggi in realtà vengono costretti, nel plot dell’episodio, dai poteri telecinetici del crudele Re-filosofo del pianeta Platonius, Parmen (l’ironia goliardica dell’onomastica è perfettamente in sintonia collo spirito un po’ nerd che pure appartiene a noi Trekkers). Il personaggio di Uhura – prima persona di colore a ricoprire un ruolo di ufficiale comandante, nonché a mostrare l’ombelico in una fiction televisiva – divenne presto fra i più popolari beniamini del pubblico: tanto che una leggenda assai attestata vuole che dovette intervenire in persona Martin Luther King, a un certo punto, a dissuadere l’interprete, Michelle Nichols, intenzionata ad abbandonare la serie.

 

 

Ma il vero salto di Star Trek nell’iper-spazio inter-razziale è rappresentato appunto da Spock. Il quale, col suo aplomb vagamente confuciano e il suo «Lunga vita e prosperità», rappresenta una strizzata d’occhio al neo-orientalismo tanto in voga in quegli anni – fra Herman Hesse e i Beatles, diciamo. Ma soprattutto, con la sua inconfondibile fisicità, Spock incarna appieno e immediatamente, proprio, quell’utopia inter-razziale che a Kirk e Uhura, invece, tocca inscenare in modo così macchinoso. Spock infatti non è un alieno, bensì un mezzo alieno: mezzosangue figlio di una terrestre e d’un vulcaniano. E proprio a questa sua origine meticcia, forse, si deve che sia lui l’unico personaggio della “serie classica” a non indulgere a romanticismi più o meno languidi: i quali rischierebbero portarlo a mésalliances ancor più trasgressive di quella che gli ha dato i natali. Quando in una certa occasione proprio Uhura gli si accosta con fare sensuale e gli chiede «Dica un po’, che si fa sul suo pianeta Vulcano in una romantica sera di luna piena?», lui replica con quella che è in assoluto la mia preferita fra le innumerevoli battute della serie (devotamente raccolte dai fan in una quantità di appositi siti): «Vulcano non ha la luna, tenente Uhura».

 

Spock è la versione postmodernista, pop e kennediana, d’un archetipo high-modern decisamente tragico: l’Hans-Karl Bühl di Der Schwierige (L’uomo difficile), dramma pubblicato nel 1921 da Hugo Von Hofmannsthal. Reduce traumatizzato dalle trincee della Grande Guerra, il ricco scapolo viennese Bühl tace quasi in ogni circostanza, per evitare di dare giudizi affrettati o esprimere concetti superflui. E, così facendo, mette in crisi gli altri personaggi: specie le donne che, più lui tace e si sottrae, più lo desiderano. Spock non è un traumatizzato di guerra (anche se non dobbiamo trascurare che è un militare). È il suo sangue vulcaniano a proibirgli di esprimere emozioni, certo; ma in effetti un trauma, nella sua vita, c’è eccome. Solo che non si nasconde nel suo passato, bensì nel suo futuro: una lacerazione destinata a spezzare la sua esistenza così ordinata, e che egli teme più d’ogni altra cosa. Tutto il comportamento suo come degli altri vulcaniani, anzi, si può interpretare come un tentativo di tenere a bada la propria natura, di eludere quest’appuntamento catastrofico per mezzo di una sua censura preventiva.

 

In quello che è forse l’episodio più celebrato delle “serie classiche”, Amok Time (in Italia Il duello, episodio inaugurale della seconda stagione, in onda il 15 settembre 1967), scritto da un celebre autore di fantascienza, Theodore Sturgeon, Kirk finalmente costringe Spock, a denti stretti, a rivelare il suo segreto. Un suo improvviso, insistente quanto sorprendente nervosismo è dovuto, ammette, alla «biologia vulcaniana»: cioè al sistema riproduttivo della sua specie. I vulcaniani, spiega, contraggono il matrimonio in età infantile con la promessa che essi tengano fede all’impegno in età adulta. Spock è giunto a questo momento, il pon farr, e se non farà ritorno immediato su Vulcano per accoppiarsi con la sua sposa, T’Pring, morirà. La sua logica per solito impeccabile, nelle more del pon farr, viene messa a tacere dal sangue vulcaniano ch’entro gli rugge. Così Kirk disobbedisce agli ordini della Flotta, e dirige la nave, alla massima velocità, verso Vulcano. Insieme all’altro compare di sempre, il sardonico e insieme sentimentale dottor McCoy (che di Spock è la perfetta antitesi dialettica, e con lui in quasi ogni episodio s’intrattiene infatti in gustosi siparietti), viene invitato a presenziare al rituale di matrimonio – il koon-ut-kal-if-fee. Giunti al momento fatidico, però, T’Pring annuncia di non avere intenzione di sposare Spock, e chiede che venga celebrato un antico rito nel quale i pretendenti alla sposa devono battersi fra loro: indicando, come suo campione contro Spock, proprio Kirk. Nel frattempo lui e McCoy hanno mangiato la foglia; hanno capito che T’Pring, nella lunga assenza di Spock, ha imbastito una tresca con un baldo vulcaniano purosangue, Stonn: proprio lui, verosimilmente, sarebbe destinato a venir scelto in caso di forfait di Kirk. Il quale, temendo che Spock sia troppo debole per lottare contro Stonn, accetta. Solo a questo punto gli viene detto, però, che secondo le regole del rito il loro sarà un combattimento all’ultimo sangue.

 

 

Accecato dal ribollire del pon farr, Spock, gli occhi iniettati di sangue, si lancia contro l’amico; conosce le armi e gli stili di combattimento locali; inoltre Kirk soffre il clima torrido di Vulcano. McCoy ottiene di iniettargli, per rinvigorirlo, un composto di tri-ossido. A questo punto Spock sembra strangolare a morte Kirk, e McCoy riporta il corpo del capitano sull’Enterprise. Lo choc di aver ucciso il proprio migliore amico, d’incanto, fa sbollire la smania sessuale di Spock: il quale chiede ragione a T’Pring del suo comportamento. Lei allora gli spiega che non voleva essere la «sposa di una leggenda», quale è divenuto ormai Spock per il suo popolo. La scelta di Kirk come suo campione rispondeva, ci mancherebbe, alla logica: se avesse vinto lui, non avrebbe avuto motivo di sposarla; in caso contrario sarebbe stato Spock a lasciarla, proprio a causa della morte dell’amico. Di fronte a questo ragionamento inattaccabile, e così perfettamente vulcaniano, Spock lascia T’Pring a Stonn e torna sulla nave, in attesa di affrontare la corte marziale per omicidio. In infermeria però trova Kirk vivo e vegeto: su Vulcano McCoy aveva iniettato al capitano un neuroparalizzante che aveva solo simulato la morte. A quel punto, la gioia di incontrare Kirk vivo si dipinge sul volto di Spock, tradendo una volta di più la sua proverbiale corazza caratteriale.

 

La narrazione che, ogni volta diversa e ogni volta uguale, si trova alla base di tutte le storie di fantascienza rappresenta una lezione tanto più necessaria in tempi tristi come il nostro, dominati dallo spirito che gli anglosassoni chiamano T.I.N.A., «there is no alternative». Ci insegna che un altro mondo, invece, è possibile. E cioè che a essere possibile – qui e ora, non in una galassia lontana lontana – sia un altro tempo. Allora non si può che augurare al Signor Spock – che questo altro tempo ha saputo indicarci, nei tanti decenni che ha passato nel nostro, in forma larvale –: lunga vita e prosperità.

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