L’uomo Mosè. Un romanzo storico: un inedito di Freud

17 Dicembre 2022

È uscito da poco, prima in Francia e poi nella traduzione italiana – che ha in più l’introduzione di un grandissimo studioso di storia delle religioni, Giovanni Filoramo – la versione inedita del 1934 del libro di Freud che si intitolava L’uomo Mosè. Un romanzo storico, poi rimaneggiata e data finalmente alle stampe come L’uomo Mosè e il monoteismo nel 1939, l’anno della sua morte. Il libro riproduce il testo tedesco riportandone anche le correzioni, il commento è di Thomas Gindele – un libro nel libro per ampiezza e per impegno interpretativo (le traduzioni sono di Johanna Venneman dal tedesco e di Chiara Calcagno dal francese, l’editore è Castelvecchi). Do per esteso queste informazioni bibliografiche perché questo è un volume che “deve” stare insieme a quelli che raccolgono le opere di Freud, tanta è la sua importanza. 

Mi sembra astratto, ma anche difficile da sostenere un approccio al pensiero freudiano che cerchi di immunizzarlo – certo riprendendo anche un’aspirazione dello stesso autore – dal suo contesto storico-familiare per lasciarne intatta l’ambizione scientifica, perciò stesso neutralizzata rispetto a questi condizionamenti soggettivi. Siamo in uno dei gorghi dei gineprai freudiani e, molto spesso, delle diverse correnti della psicoanalisi e delle psicologie del profondo: il materiale più idiosincrasico possibile, disperatamente soggettivo, che si vorrebbe riportare all’oggettività imparziale del ricercatore, facendo astrazione dai suoi condizionamenti culturali, storici, familiari, personali (in una parola-concetto: dalla sua biografia), vuole elevarsi a scienza in base a un modello che rimane in gran parte derivato dalla fisica e dalle scienze naturali. 

Nelle due versioni di L’uomo Mosè questo conflitto epistemologico raggiunge il suo apice: far valere le ragioni della “scienza” psicoanalitica nel vortice del momento storico e della persecuzione nazista degli ebrei tedeschi che sta esondando nell’invasione dell’Austria e quindi tocca direttamente la stessa famiglia del medico viennese. Il Mosè di Freud è la testimonianza in presa diretta, per quanto ritradotta in ricerca, di questa temperie: scrivere di questo argomento è una sfida titanica. Inevitabile è l’implicazione politica che comporta anche il solo evocare la figura principe dell’ebraismo, il maestro per eccellenza, sullo sfondo dell’antisemitismo e del disegno della cancellazione del segno ebraico nella storia d’Europa. Infatti è proprio per questo che Freud rinuncia alla pubblicazione, la cambia e la consegna cinque anni dopo la prima stesura. E che anni, anche per lui e la sua famiglia: Rosa, Marie, Adolfine, Pauline – le sorelle che non incluse nella lista delle persone che avrebbe portato con sé nell’esilio londinese del 1938 – moriranno nei campi di concentramento tra il 1942 e il 1943. Non si sa perché non furono incluse nella lista: forse, nonostante tutto – ma questa è anche la supposizione di Ernest Jones, biografo-agiografo del maestro –, perché Freud non immaginava la smisurata ferocia dell’antisemitismo nazista. Di certo nel 1934, dopo aver terminato la prima versione, quella appunto intitolata L’uomo Mosè. Un romanzo storico, scrive all’amico Max Eitington che aveva deciso di non pubblicare il suo scritto perché “una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al sentimento cristiano: due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo”. La lettera è del 27 Ottobre 1934, il 6 Febbraio del 1938, dopo l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss – quando è ancora a Vienna, convinto che si debba sostenere il regime cattolico autoritario austriaco –, in un’altra lettera a Eitington dice: “Il nostro governo, a suo modo valoroso e coraggioso, è ora più forte che mai nella difesa contro i nazisti, anche se non si può essere certi, visti gli ultimi eventi in Germania, di come andranno a finire le cose”. 

mQuindi si può supporre che la decisione di pubblicare il libro su Mosè, rivisto e con un nuovo titolo che dichiara il suo contenuto ideale, cioè il tema-problema della religione monoteista (che è poi la concezione di Dio nell’ebraismo e nel cristianesimo), sia il frutto di una situazione disperata nella quale le “offese” ai sentimenti ebraici e a quelli cristiani debbano essere esposte per amore della scienza, ma anche per mostrare che il dramma ebraico affonda, in definitiva, nel dramma comune della “civiltà”. Implicitamente la perdita, agli occhi di Freud, del “narcisismo dell’elezione” rivela che l’attacco nazista all’ebraismo sostituisce un’altra, e ben più perniciosa, pretesa di unicità e superiorità razzista alle convinzioni fideistiche di ebrei e cristiani sulla individuazione della “vera” origine della salvezza. Il tentativo di Freud, malato da anni di cancro, esule, testimone della fine delle istituzioni psicoanalitiche in Germania e in Austria, è qualcosa di gigantesco – mi verrebbe da dire tra l’eroico e il superomistico.

Si tratta, in un libro che raccoglie il frutto del lavoro di una vita, di ricondurre ebraismo e cristianesimo all’origine comune delle costruzioni religiose e morali dell’umanità, delegittimare quindi le loro convinzioni di eccezionalità e di “superiorità” ma, insieme e proprio per questo, mostrare l’inconsistenza delle accuse antisemite e anche anticristiane del nazismo, visto, insieme a ogni nazionalismo e razzismo, come la pretesa, nascostamente “religiosa”, di essere l’avvento del Vero Regno Tedesco (senza nessuna delle alte mete spirituali e morali rappresentate comunque, per Freud, dall’ebraismo e dal cristianesimo). 

Freud scrive a Lou Andreas-Salomé il 6 Gennaio del 1935 sul tema dei “fondamenti storici della storia di Mosè”, che “Questo problema mi ha tormentato tutta la vita”. In questione è la genesi del monoteismo che, agli occhi di Freud è da un lato una grande conquista ideale e morale, dall’altro richiede, nella forma che ha preso nell’ebraismo e nel cristianesimo, una grande rinuncia pulsionale. Quello che gli sta cuore, per la sua scienza, la psicoanalisi, è la genesi del fenomeno culturale dal fenomeno psichico, insieme alla prospettiva, più volte evocata nei suoi scritti, di dare un nuovo fondamento – unitario e quindi, sotto nuove spoglie, “monoteistico”? – all’insieme dei saperi sull’umano ancora lontani da un solido statuto scientifico. Questo interesse si lega, come accennato sopra, alla difesa dall’antisemitismo cercando una spiegazione – che, ovviamente, non significa una “giustificazione”, tutt’altro – alla domanda: “Come mai l’ebreo sia diventato ciò che è e si sia tirato addosso un odio così inestinguibile” (così scrive in una lettera ad Arnold Zweig il 30 Settembre 1934, presentandogli L’uomo Mosè: un romanzo storico”). 

Ecco intanto una prima grande sorpresa: l’uso del termine “romanzo” da parte di Freud che per tutta la vita aveva cercato di allontanare da sé, e non solo esteriormente, l’immagine dello scrittore, considerandola un modo di inficiare l’esame puramente scientifico delle scoperte della psicoanalisi (anche se aveva chiamato “romanzo familiare” la storia, difficile da ricostruire e piena di vuoti, delle nevrosi individuale). Certo aveva già scritto qualcosa del genere, una specie di invenzione mitologico-scientifica sulle origini della cultura, a partire da un materiale antropologico che lasciava spazio a conclusioni non certo univoche. Era l’affresco di Totem e tabù, pubblicato nel 1913, un’opera che doveva ricostruire in base al complesso edipico, scoperto in se stesso e nei suoi pazienti, l’origine della religione, della moralità e del senso di colpa, del Super-Io: niente di meno che la cellula dell’intera cultura umana! E il romanzo storico di Mosè ne è in fondo la prosecuzione, lo scritto che dovrebbe collegare la teoria sulla genesi della cultura umana in generale agli sviluppi ebraici, cristiani e islamici che hanno forgiato la cultura euro-americana con la sua influenza sul mondo intero. Adesso sfidata dal nuovo “messianesimo all’incontrario”, dall’avvento della mitologia germanico-nazista. Freud sa di muoversi su un terreno ancor più insidioso – e provocatorio, almeno nei confronti di ebrei e cristiani – di quello di Totem e tabù. Qui è in gioco la proiezione elettiva e salvifica su Mosè e Gesù, inevitabilmente carica di affetti personali e di senso dell’appartenenza di milioni di seguaci. 

È per questo che cerca subito di schivare le prevedibili accuse con un incipit bizzarro: “Così come l’unione sessuale tra cavallo e asino dà origine a due ibridi diversi, al mulo e al bardotto, anche la mescolanza tra storia e invenzione libera fa nascere prodotti diversi, i quali, sotto la denominazione comune di ‘romanzo storico’, vogliono essere apprezzati sia come opere di storia che come romanzi.” Una excusatio in stile diminutivo, apparentemente umile, che non fa che indicare, al lettore un po’ smaliziato e non in soggezione di fronte ai “grandi maestri” (in fondo in questo più simile a Freud che ai suoi adulatori), quanto immensa fosse la sua ambizione e pretesa: salvare nella scienza la cultura mentre ne abbatte le “illusioni” più amate, assumersi il compito del continuatore dei programmi illuministici e positivistici portati alle loro più radicali conseguenze, proprio mentre una catastrofica infezione di oscurantismo minaccia ogni conquista della civiltà. 

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Dalla collezione di S. Freud - COURTESY THE LIBRARY OF CONGRESS.

Quale è il nocciolo atomico della “ricostruzione-distruzione” freudiana del mito mosaico? Anche gli ebrei, ripetendo il parricidio primordiale, hanno ucciso Mosè che tuttavia sarebbe stato (come il suo nome sembrerebbe indicare nella ricostruzione di Freud) un egiziano! Una doppia, rovente accusa: gli ebrei parricidi e discepoli del loro “primo maestro” che però ebreo non era, anzi proveniva dalla stirpe del nemico. Così abbandonarono il monoteismo mosaico per seguire la fede tribale in Yahweh, dio vulcanico, selvaggio e violento. Ma poi, per il ritorno dell’assassinio rimosso della loro guida, oppressi dal senso di colpa, tornarono alla fede monoteistica di Mosé. Secondo Freud si verifica qui una giustapposizione-trasformazione: l’antico Mosè egiziano viene fuso con un nuovo Mosè, un madianita sacerdote della stirpe di Abramo. Il rimosso ritorna con ancora più forza di prima per paura della punizione. Il Dio-Padre che premia e punisce è un’elaborazione della colpa dei figli, in una ripresa dell’immagine originaria totemica che si ripete per ciascuno nel dramma infantile edipico. La circoncisione rappresenterebbe perciò la simbolica della castrazione minacciata dal padre per i figli che si oppongono alla sua Legge (pp.10-11). 

Ma perché, liberatosi di Mosè, quel gruppo di ebrei ha mantenuto il rito della circoncisione? Nella “Conclusione” del saggio di commento all’opera – lungo 173 pagine – intitolato “L’elaborazione di L’uomo Mosè dal 1934 al 1939”, il curatore sostiene che delle tre modifiche importanti apportate al romanzo storico in vista della pubblicazione, ce n’è una che costituisce in qualche modo il filo conduttore dello sviluppo storico ed è “lo status dei leviti” (p. 367). Dunque uno sviluppo del culto del Dio unico da parte dei sacerdoti di Eliopoli, antenati dei leviti, che avevano diffuso il culto di Aton. Scrive Freud: “Quando l’Egitto divenne un impero mondiale durante la XVIII dinastia, il nuovo imperialismo trovò la sua espressione anche in un’influenza sulla religione.

Già sotto Amenofi III si dice che il dio del sole di On (Eliopoli) abbia assunto un ruolo dominante nel regno degli dèi. Ma fu solo sotto il figlio Amenofi IV che gli successe nel 1375 che questa preferenza per un dio assunse il carattere di un sublime monoteismo che proibiva e perseguitava il culto di altre divinità. Il nuovo dio Aton veniva rappresentato come un dio solare e i suoi raggi erano emanati dalle mani (pp. 36-7). Freud aggiunge in nota che “durante il regno di Akhenaton l’Egitto perse tutti i suoi possedimenti in Siria e Palestina”. Il re non mandò aiuti ai suoi sostenitori in Asia, oppressi dai loro nemici, perché, secondo alcuni storici “fare la guerra e spargere sangue gli ripugnava”. 

Tuttavia il ruolo chiave dei Leviti, la cui origine doveva essere egizia, nella seconda parte del testo consentirebbe di mantenere il rito della circoncisione, mentre però, nella prima parte, i Leviti erano ebrei. Anche Gindele, il curatore che peraltro sostiene la tesi del Mosè egizio, non può nascondere le contraddizioni interne allo scritto e così immagina che la strategia di stesura voglia mascherare questa confusione, almeno per “il lettore poco sospettoso” che “non tornerà indietro per costatare questa contraddizione” (p. 251). 

La costruzione traballa anche concettualmente: “L’ebraismo estremamente elaborato che viene istituito all’indomani dell’esilio babilonese non poteva essere il risultato di un ritorno del rimosso è […] L’imponente costruzione del Secondo Tempio […] e questo notevole ‘progresso della spiritualità’ che Freud descrive, non possono essere un sintomo nevrotico perché si è traumatizzati per aver subito un atto psichicamente intollerabile, e non per aver ricevuto un insegnamento (la parola ‘Torah’ può essere anche tradotta in questo modo) che porta invece un notevole progresso psichico”. 

Se il curatore non nasconde le difficoltà e le autocontraddizioni del testo – rivelatrici di un tormentato, irrisolto rapporto di Freud con l’ebraismo rispetto alla sua “fede” scientista – gli concede peraltro accordo sulla tesi dell’origine egiziana di Mosè. Senza alcun riferimento a posizioni opposte, Gindele intitola un paragrafo del suo scritto: “Conferma da parte del biblista Richard Friedman”. Ora, non essendo né egittologo né biblista, non saprei prendere partito, tuttavia non vedo come si possa, su un tema di tale portata, evitare di citare almeno qualche autore che si è preso la briga di criticare Richard Friedman: uno solo degli esempi possibili è David Gottlieb.

Peraltro lo stesso Freud accenna nel paragrafo “Mosè è esistito davvero?” a una visione ben più problematica, riducendola però subito all’opposizione “vita vera di una persona” oppure “ruolo e imprese significative” di qualcuno, al quale si è poi dato un certo nome. Vien da ricordare che proprio Thomas Mann, ammiratissimo da Freud e a sua volta grande estimatore dello psicoanalista viennese, in Le storie di Giacobbe del 1933, primo libro di Giuseppe e i suoi fratelli, aveva parlato di “personalità corporative”, intendendo con ciò che Giacobbe, o Giuseppe, non sono nomi attribuibili a una sola singola persona, ma che sono il condensato di un numero indefinito di persone e di situazioni che creano il personaggio di Giacobbe o di Giuseppe. 

Questo deficit della dimensione simbolica, ridotta a una sorta di letteralismo storico-evolutivo riguarda il filo teorico più importante di tutto il testo che, in sostanza, applica il romanzo mitologico di Totem e tabù del 1913 (nel quale peraltro Freud “aggiusta” il testo di Darwin sull’orda primitiva aggiungendo un padre che non c’è, come fa osservare Gindele a p. 242 del suo commento) alla genesi dell’ebraismo, confermando l’impianto generale, cioè il romanzo psicoanalitico dell’Edipo che da osservazione su casi singoli è stato elevato a storia universale. 

Si tratta sempre dell’omicidio del padre dell’orda, dell’omicidio in questo caso di Mosè, del susseguente senso di colpa e della nascita della legge e della morale dal timore e dalla regolazione della concorrenza tra i maschi. Le equazioni che attraversano le costruzioni psicostoriche sono quelle tra l’originario e l’inconscio, l’infantile e lo psicopatologico, quattro radici che mostrano all’analisi le stesse strutture. Ora, a parte le obiezioni logiche possibili al modo freudiano di usare l’abduzione, generalizzandola secondo passaggi inconsistenti, l’assunzione di fondo dalla quale tutto procede in Freud è che dai conflitti dinamici propri e interni al singolo individuo si possa, e si debba, procedere a generalizzazioni che riguardano l’umanità intera nell’insieme del suo sviluppo sociale-storico-culturale. 

Scrive infatti in Psicologia delle masse e analisi dell’io che “la pulsione sociale non può essere originaria e non ulteriormente analizzabile […] i primi inizi della sua formazione possono essere ritrovati in un ambito più ristretto, come per esempio quello della famiglia”. Qui la tesi di Freud si scontra con il fatto che una famiglia isolata, senza un gruppo più vasto, non avrebbe mai potuto sopravvivere: la rete di scambi necessaria alle diverse attività produttive e il mutuo aiuto in caso di pericolo non sono che due dei fattori decisivi. Un gruppo umano sotto una certa soglia numerica è minacciato di estinzione. Se poi, come è necessario fare, si affronta il tema dal punto di vista del mondo moderno, è difficile capire come si possa partire dalla famiglia per comprenderne le dinamiche, sembra più credibile il contrario: la forma della famiglia, i suoi modelli di formazione e di educazione della prole, il suo stile di relazione con l’esterno e altri innumerevoli aspetti del comportamento, del modo di sentire e di pensare saranno piuttosto, al contrario, determinati dall’ambiente sociale (cioè dalla dimensione storico-culturale). 

Freud riassume il suo pensiero nel Poscritto del 1935 allo scritto sulla Autobiografia: “Capii con sempre maggiore chiarezza che gli avvenimenti della storia dell’umanità, gli influssi reciproci tra la natura umana, lo sviluppo culturale e quei residui di eventi primordiali, dei quali la religione si considera la massima rappresentante, non sono che il riflesso dei conflitti dinamici tra l’Io, l’Es e il Super Io che la psicoanalisi studia nel singolo individuo. Sono gli stessi processi, riportati in un contesto più ampio”. Il debito nei confronti della teoria – oggi difficilmente sostenibile, per dirlo con garbo – della ricapitolazione nell’ontogenesi della filogenesi di Haeckel è chiaro. D’altra parte un grande “freudiano”, ma libero e creativo come Fachinelli, conclude così il suo saggio Su Freud (Adelphi, 2012, p. 59): “Nel momento in cui Freud si pone l’esigenza di riportare a un contesto generale ciò che ha trovato in sé e nei suoi malati – e questo avviene, in fondo, secondo un canone di valori assoluti ancora vigente in lui – insorgono difficoltà e oscillazioni caratteristiche. Come si passa da questo individuo, questo e nessun altro, alla generalità degli individui? E come si origina ciò che in questo individuo viene ritrovato?

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La risposta prima di Freud – la più ‘scientifica’, e quella che un lettore superficiale ritrova di continuo – si basa su un’analogia nel primo caso e su una trasmissione (ereditaria) nel secondo. Gli uomini sono l’uomo, il gruppo, l’individuo, senza inerzia né mediazioni che non siano rapportabili al singolo individuo. E ciò che si trova nel figlio fu nel padre e nel padre del padre, per passaggio di tracce che sono abbastanza inevitabilmente legate a eventi ‘traumatici’ […] la psicoanalisi della civiltà – il suo ultimo compito in cui sembra appagata la sua ‘originaria’ ambizione filosofica – può apparire semplicemente un’indagine ossessiva attorno a un fatto preistorico, che consenta l’eterno ritorno della storia come elemento rimosso”. 

Tuttavia, al di là della fallacia scientifico-teorica della sua impostazione che ripete lo stesso schema edipico per le origini dell’umanità e per le origini dell’ebraismo, possiamo vedere nell’ultimo Freud il tentativo di dare una forma a un’oscillazione tra le sue origini ebraiche e la sua professione di fede scientifica e atea. Si potrebbe dire: riportare il dramma ebraico al totemismo lo mette sullo stesso piano del cristianesimo, in più tenta di sottrarre queste due religioni, attaccate dal nazismo, alla “invidia dell’elezione” che cercava di delegittimare le origini semitiche di entrambe per promuovere l’elezione nazionalista e razzista del germanesimo puramente ariano. Tutto ciò Freud lo fa ribadendo la sua impassibilità scientifica che osa strappare Mosè, il primo grande maestro ebreo e il più “giusto” tra gli uomini, alle origini ebraiche. 

Un doppio e conflittuale movimento che lo ha accompagnato per tutta la vita. Sempre nello scritto autobiografico del 1935 c’è un’aggiunta, rispetto alla versione di dieci anni prima, nella quale Freud parla di un essersi precocemente immerso (“frühzeitige Vertiefung”) nella storia biblica appena aveva imparato a leggere. L’episodio che suo padre gli racconta – quando un cristiano a Freiberg gli ingiunse di scendere dal marciapiede buttandogli il berretto nel fango e lo dovette raccogliere – gli lascerà sempre una diffidenza tanto per i non-ebrei (cosa che dice a chiare lettere a Sabina Spielrein quando la giovane psicoanalista ebrea, che era stata paziente e amante di Jung, non vuole comunque rompere con il suo vecchio amore e primo maestro), quanto nei confronti di una identificazione con l’ebraismo (non casualmente la sua affezione per Jung erano anche motivate dal suo essere “ariano”).

Sigmund, a differenza del padre Jakob, non accetta di dover raccogliere il suo cappello buttatogli nel fango. Ma la lotta tra il sentimento di appartenenza al suo popolo e il superamento di ogni fede di parte per il superiore ideale scientifico, lo abitano fino alla fine della vita, come appunto si vede dal suo tormentato scritto su Mosè. Il padre, d’altra parte, cercò sempre di ricordargli la sua origine: nella Bibbia illustrata di Philippson che gli regala per il suo trentacinquesimo compleanno gli scrive: “Ricordo dell’amore di tuo padre che ti ama di un amore eterno”. E cosa è la Bibbia? “Il libro dei libri dove i saggi hanno attinto, dove i legislatori hanno imparato il sapere e il diritto”. Un libro che documenta il rapporto decisivo di Freud con le immagini, ricostruito anche rispetto al Mosè michelangiolesco, è quello di Gianluca Solla, Disegnare, la formula di Freud (si veda un estratto su Doppiozero).

Peraltro Freud fu un membro attivo dell’associazione umanitaria austriaco-israelitica “B’nai B’rith, cioè dei “figli del Patto”, per la quale, tra le altre cose, tenne la conferenza, inizialmente non inclusa nelle Opere Complete, su “Noi e la morte”, prima stesura del Febbraio del 1915 (con importanti varianti proprio sul tema della guerra che testimoniano l’iniziale atteggiamento di schieramento patriottico del fondatore della psicoanalisi, testo pubblicato per la prima volta in italiano dalle edizioni Palomar di Bari nel 1993) delle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte

L’ambivalenza di Freud nei confronti delle origini ebraiche raggiunge un acme di drammatica intensità nel suo rapporto con Jung: per un verso lo sceglie come suo “principe ereditario”, proprio in quanto il suo non essere ebreo può consentire alla psicoanalisi di uscire da una possibile ghettizzazione in un circolo di medici ebrei, per un altro è chiara l’aspettativa filiale e la proiezione sul più giovane collega dell’immagine del futuro continuatore e conquistatore vittorioso. In una lettera a Jung del 17 gennaio 1909 “Freud si era paragonato a Mosè in quanto anch’egli, come il profeta e legislatore ebraico, non avrebbe potuto vedere la Terra Promessa (della psicoanalisi riconosciuta internazionalmente) a differenza di Jung, novello Giosuè, destinato a conquistare questa terra” (così scrive a pagina 8 della sua bella prefazione Giovanni Filoramo). 

Interessante quanto ne dice lo stesso Jung nel suo Ricordi, sogni, riflessioni, ( pp. 198-199, curato da Aniela Jaffé) : “Anche un’altra volta […] Freud svenne in mia presenza. Accadde durante una conferenza di psicoanalisi, a Monaco, nel 1912. Qualcuno aveva portato il discorso su Amenofi IV (Echnaton). La questione era imperniata sul fatto che, come conseguenza del suo atteggiamento negativo verso il padre, questi aveva distrutto i cartigli di suo padre sulle stele, e che dietro la sua grande creazione di una religione monoteistica si nascondeva un complesso paterno. Irritato da queste affermazioni, tentai di stabilire che Amenofi era stato un uomo dotato di capacità creativa e profondamente religioso, le cui azioni non si potevano spiegare con un’opposizione personale al padre.

Al contrario, dicevo, aveva tenuto in onore la memoria del padre, e il suo zelo distruttore era solo diretto contro il dio Amon, che aveva cancellato dovunque, e perciò anche dai cartigli di suo padre. Inoltre anche altri faraoni avevano sostituito i nomi dei loro antenati effettivi o divini su monumenti e statue col loro proprio, ritenendo di avere il diritto di farlo dal momento che erano incarnazioni dello stesso dio. Ma essi non avevano inaugurato né un nuovo stile né una nuova religione. A questo punto Freud cadde dalla sua sedia privo di sensi. Tutti gli si affollarono intorno senza aiutarlo. Allora lo sollevai, lo trasportai in una stanza più vicina, e lo feci sdraiare su un sofà. Mentre lo portavo, ritornò alquanto in sé, e mi fissò con uno sguardo che non dimenticherò mai: nella sua impotenza mi aveva guardato come se fossi suo padre. Quali che fossero le altre cause che potevano aver contribuito a questo svenimento – l’atmosfera era molto tesa – […] era presente la fantasia del parricidio.” 

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