Mandela e Gandhi

20 Dicembre 2013

Nei giorni in cui i giornali e le televisioni di tutto il mondo accompagnavano Mandela e il suo corteo di capi di stato, mi colpiva un costante riferimento alla figura di Gandhi. Si diceva, nella sostanza, che ambedue erano uomini buoni, che avevano espunto la vendetta dalle loro vittorie, uomini pacifici e sorridenti, icone di un modello di convivenza civile tra nemici, tra avversari, che per quanto riguarda Gandhi ci ha accompagnato per decenni, e ora, immagino, così sarà per Madiba.


 

Mi domando però se sia questo il modo giusto di raccontarlo. Se sia giusto, quando un uomo di stato ci lascia, costruire attorno a lui una leggenda che dimentica pezzi importanti della realtà del mondo come è davvero. Ghandi non come un leader e, a tutti gli effetti, un condottiero, ma come una particolare personalità positiva: l'uomo buono. Racconterei questa favola ai miei figli (se ancora fossero nell'età in cui sono io nella condizione di insegnare qualcosa a loro, e non piuttosto il contrario)?
 No, non la racconterei così. Racconterei che Gandhi, e Mandela, erano grandi uomini di stato, e quindi dei combattenti. Che lo erano perché forti, e non perché buoni, perché capaci di vedere la realtà per quel che è e non per quel che vorremmo (o facciamo finta di volere) che fosse. Che hanno vinto le loro battaglie, quella per l'indipendenza Gandhi e quella per la democrazia Mandela (cioè per l'abbattimento del potere reale dei bianchi dopo il crollo dell'apartheid) con l'intelligenza di chi sceglie le armi migliori, nelle condizioni date.


 

Un giorno di qualche anno fa, al Festival Letterario di Jaipur, in India, un giornalista di una certa fama, partecipando a un dibattito sulla violenza nel suo paese (violenza di stato, di casta, di genere, di appartenenza religiosa e di ceto sociale, una endemica violenza che sembra parte integrante del corpo sociale indiano) disse: io non credo che Gandhi scelse e propugnò una via di pacifismo e non violenza perché quello fosse un suo credo individuale. Gandhi scelse quella via perché se un progetto di lotta armata si fosse imposto, avrebbe portato a uno scontro fratricida tra fazioni diverse, allo smembramento del movimento indipendentista: a questo Gandhi scelse di mettere un freno. E la domanda che aleggiava sul dibattito (come può essere così violento il paese che è nato con Gandhi e grazie a Ghandi) aveva avuto una sua risposta.


 

Conosco il Sudafrica, ne conosco in parte la Letteratura, e so che per Mandela vale la stessa considerazione. Mandela come Gandhi non era un buono, un uomo che sorride: era un grande statista. E per questo se dovessi ricordarlo non sceglierei tra le sue foto un sorriso. Mandela, dalla sua prigionia, dirigeva un movimento di resistenza che aveva un suo braccio armato: l'Umkonto we Sizwe, la cui attività purtroppo non si limitava alla guerra di guerriglia contro il regime dell'Apartheid, ma ebbe un ruolo fondamentale nell'imporre l'egemonia dell'ANC sul movimento di liberazione, a danno del partito concorrente, il PAC. Gli scontri armati tra ANC e PAC erano all'ordine del giorno, nelle baraccopoli e nei bantustan.


 

Saggia, e da statista, fu la scelta di non celebrare vendette nei confronti dei bianchi che si erano macchiati di crimini atroci. Saggia la decisione di chiuderla subito, quella guerra vinta contro l'apartheid: di metterci una pietra sopra. E saggio vuol dire intelligente, non buono! Saggia fu la decisione di collaborare con l'establishment economico, boero e anglofono. Intelligente lo strumento scelto per la pacificazione, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, di cui non sta a me parlare.
 Io parlo di Gandhi, celebrato in ogni città indiana con un sacrario o un monumento o un giardino o anche solo una pianta, il cui modello, come ricordava il giornalista in questione, non ha seguito alcuno nella politica, nella cultura, nella società indiana: e qui il limite è proprio nel racconto che se ne è fatto.

 

Sto sempre citando il giornalista di cui sopra: Gandhi era uno statista che con intelligenza cercava di mettere argine a una violenza, endemica nel suo paese come nei nostri e come in qualsiasi mondo possibile. Allora, diceva, questo si tramandi ai figli e ai nipoti, e non la favola gentile, e l'uomo buono per la sua natura. Facendo altrimenti, li rendiamo più deboli, i nostri figli, e magari più inclini alla violenza di quanto già non sia la loro umana natura: perché non li aiutiamo a riconoscerla. 
Quel che colpisce, delle considerazioni intelligenti del giornalista indiano intelligente, è che hanno un post scriptum. Il suo nome è Tarun Tejpal, fondatore e anima di Tehelka, il settimanale della intellighenzia di sinistra indiana, romanziere tradotto in tutto il mondo: un'icona per la società civile indiana: un mito positivo, appunto. E rilanciato recentemente dai media di tutto il mondo perché accusato di stupro.

 

C'è un processo da celebrare, e per quel che ne leggo non sarà semplice determinare una verità esatta dei fatti. Ma se Tejpal è colpevole, questa è la prova del nove del suo proprio ragionamento su Gandhi. E se invece è innocente, a dispetto di orde di commentatori morali, che del bene si fanno portatori e in questo caso non seguono che la via più comoda, questa è la prova del nove al quadrato.
 Meglio sarebbe, allora, insegnare che buone sono le idee, e le pratiche, ma non necessariamente gli uomini e le donne che le propugnano.

 

Almeno, non facciamone mai dei santi: i santi non esistono, e questa scoperta, se tardiva, mina le società degli uomini nelle loro fondamenta, porta dalla delusione all'indifferenza, alla notte in cui tutte le vacche sono nere.
 Del resto: così non ci insegnano i migliori noir? Non ci raccontano che anche nella personalità del nostro protagonista c'è un conflitto etico, che va risolto ogni volta? 
(Lo aspettiamo, dall'India o dalla Cina, un noir così. Ma non c'è ancora. In Italia, al contrario, il noir sembra impazzare, poi invece sui media, ecco Silvio, Umberto, Walter, Giorgio, Beppegrillo, e finalmente Matteo. Ahimè.

 

Viene da pensare: questo non è un tempo per le idee, ma per i personaggi: e i plot, beh, di quelli ne abbiamo a iosa da riciclare, no? Facce nuove per storie troppo vecchie: ma solo per storie cattive, nei secoli dei secoli, le storie dell'uomo buono. Ma non arrendiamoci: continuiamo a argomentare, a raccontare la realtà nella sua complessità, a cercare buone storie.)

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