Massimo Gardella. Chi muore prima

14 Dicembre 2013

“Alla fine stai facendo il conto alla rovescia”: queste le parole che un contadino pronuncia fra sé e sé mentre si avvia verso i campi, all’alba, abbozzando un bilancio sulla propria vita e su quell’inevitabile epilogo che, passo passo, si avvicina . Ma ecco penzolare, dal noce che si erge nella sua campagna pavese, il corpo di un ragazzo, un adolescente appeso al ramo, che ha deciso di non attendere il consumarsi dei giorni, ma di anticipare la morte con un gesto volontario.

 

Così comincia il romanzo di Massimo Gardella, Chi muore prima, come a imporre un’atmosfera, l’orizzonte entro cui si muoveranno i personaggi di questa storia complessa in cui, a una lucida fotografia della provincia pavese, tutta appiattita su un quotidiano fatto di consumi e crisi economica, fa da contraltare un mistero che sembra invocare il soprannaturale, via di fuga estrema da un mondo meccanico, asfittico.

 

 

Pare di vederlo l’orizzonte piatto e circolare della pianura padana, che nell’assenza di rimandi alla verticalità, da apertura totale si trasforma nel proprio contrario, dissipando la possibilità di qualsiasi, seppur minima prospettiva. I giovani dell’Istituto de Finis che hanno deciso di togliersi la vita sembrano aver accolto, spingendola alle sue estreme conseguenze, la constatazione fredda e cinica che decreta questa vita un ridicolo passaggio, senza significato, in cui l’indugiare rappresenta un’inutile perdita di tempo. L’uomo che si trova, suo malgrado, a dover tracciare il filo che lega cinque inspiegabili suicidi, è l’ispettore Remo Jacobi, già protagonista de Il male quotidiano - menzione speciale della giuria del premio Scerbanenco 2012.

 

Gli adulti, nel romanzo, si affacciano in maniera maldestra sulla realtà degli adolescenti, come stranieri che calcano i primi passi in un paese ignoto: manca un alfabeto comune, o meglio, se esiste un’intersezione fra i due mondi, è solo la lingua della malavita a avvicinarli, come se fra un giovane spacciatore e un poliziotto ci fosse molto più in comune che fra un uomo e suo figlio. Ma non è l’incomprensione fra giovani e adulti il tema centrale quanto piuttosto la totale assenza di comunicazione, generalizzata, fatta paradigma di ogni rapporto. I personaggi si incontrano, parlano, interagiscono: ma ciò che accade è un mero scambio di informazioni, che non trovano mai quella successione coerente che un ispettore, tradizionalmente maestro della tecnica logico-deduttiva, deve fare emergere.

 

Jacobi non è quel tipo di ispettore, in lui non resta nulla dell’eroe tenebroso, se non una spietata capacità di resistere alla palude della propria psiche devastata da antichi traumi, riattivati dalle morti che la sua professione lo costringe a indagare. Per Jacobi, sempre a un passo dalle dimissioni, fare l’ispettore non significa altro che rilevare “una mappatura senza tempo di bassi istinti solo sopiti dai costumi della società cosiddetta civile” (p. 173), calarsi nel magma in cui egli è pericolosamente immerso, forse per poterlo finalmente guardare, riflesso nelle vite degli altri.

 

Nell’esistenza di Jacobi non c’è speranza, fine, respiro, e la scrittura non dà tregua a questa consapevolezza, ribadita dalle metafore che attingono a immagini meccaniche, oggetti spinti da cause esclusivamente efficienti: “si sentì solo come un asteroide che vaga nel cosmo, quasi speranzoso di impattare contro un pianeta rigoglioso di vita” (p. 92): Remo si immagina come un carro lanciato in piena velocità lungo un pendio, il suo movimento è solo quello della gravità, non vi è altra direzione, senso.

 

Perché i ragazzi si suicidano? Non c’è bisogno di scovare un colpevole, basta salire sulla macchina di Jacobi e vagare con lui, fra un pub e la bocciofila: la domanda trova gradualmente una risposta, inconfessabile, ma l’unica coerente.  

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