Paolo Cognetti. Sofia si veste sempre di nero
Sofia Muratori ama farsi il bagno. Sofia è piena di piercing, mangia poco, non saluta né quando arriva né quando si congeda. Sofia vuole fare l’attrice ma non sa piangere a comando.
L’immagine della protagonista del romanzo di Paolo Cognetti Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax, 203 pp., 14€) si compone piano piano, capitolo dopo capitolo, ma in fondo non si delinea mai definitivamente; seppur di lei si ottengano numerose informazioni, la luce non si posa mai direttamente sul suo volto. La narrazione è strutturata appositamente per evitare l’incontro; ogni capitolo è narrato da una prospettiva che non coincide mai con quella di Sofia, ma con lo sguardo di uomini e donne che hanno avuto a che fare con lei: l’infermiera che assiste alla sua nascita, la ragazza conosciuta in ospedale quando, quindicenne, tenta il suicidio, i genitori, gli amici di Brooklyn.
L’unico momento in cui quasi è possibile sfiorarla, è nel capitolo “Quando l’anarchia verrà” in cui l’autore parla di Sofia come se parlasse a un tu: “prendi la metropolitana alle dieci, attraversi Milano nelle viscere, entri nel ruolo di figlia solo quando il treno esce in superficie e la città è svanita”: solo qui lo sguardo del lettore è quasi allineato a quello della ragazza, ma l’uso del tu gli permette, ancora una volta, di scartare di lato e sfuggire alla presa diretta. Sofia funziona così come una pellicola vuota su cui si proietta un mondo, quello che circonda la famiglia Muratori nella quale Sofia nasce, cresce e si ribella.
Intorno alla ragazza si intrecciano biografie non banali, che fanno di ogni capitolo un racconto quasi autonomo, tanto che in alcuni momenti sorge il dubbio che Sofia sia solo un pretesto narrativo: come le pagine dedicate a Leo, l’amante, che ama il teatro e il ferro della Bovisa e che introduce Sofia e il lettore alla sconcertante bellezza delle periferie delle città, che per opera della scrittura intensa dell’autore sembrano muoversi e palpitare nello spazio, come animate da una tecnica che ha acquisito vita autonoma.
Diverse forme di vita si offrono dunque al lettore in un collage di densi racconti; ma è soltanto con il sovrapporsi di questi sguardi che ci si avvicina al disagio di Sofia, che tuttavia non trova mai una spiegazione, ma, semplicemente, un contesto, quello che l’ha resa, come si definisce lei stessa, “un’artista della fuga”. Sofia impara infatti a peregrinare, a vivere da esule: da Milano va a Roma per poi finire a Brooklyn; comprende che non esiste luogo in cui stare, ma solo dove transitare, senza chiedersi mai se esista senso o direzione.
Con la storia di Sofia, Cognetti racconta il quarantennio che ci siamo lasciati alle spalle in un modo in cui è facilissimo riconoscersi: se chi legge ha l’età di Sofia non potrà fare a meno di crogiolarsi nel già vissuto, con l’aggiunta di una buona scrittura che sa esprimere bene ciò che spesso, nel pensiero, rimane involuto. Quello dell’identificazione è un modo facile di piacere e di scrivere, che però fa pensare alle parole di Emanuele Trevi che nel suo ultimo romanzo decretavano, a causa della tendenza sempre più diffusa degli autori contemporanei a suscitare nel lettore esclusivamente riconoscimento (e quindi piacere immediato), la fine della letteratura per effetto della sua trasformazione in narrativa (cfr E. Trevi, Qualcosa di scritto, pp. 20 e 21).
Sofia non è un modello a cui aderire, ma uno specchio in cui riflettersi: non sappiamo né che fine faccia, né se sia felice nei suoi panni di nomade: semplicemente si è testimoni del suo passare che rimane impigliato nei personaggi del romanzo, che assistono increduli a questa esistenza caparbiamente intenzionata a non cedere nulla della propria libertà di sparire.