Mauro Covacich. L'esperimento

25 Giugno 2013

“A scacchi si perde e si vince sempre in modo diverso. Ogni volta che finisci un incontro hai la certezza che non si ripeterà. Miliardi e miliardi di storie, ma nessuna esposta ai capricci del destino, tutte sviluppatesi nelle ferree combinazioni della logica”: quando Gioia pronuncia queste parole si avverte che Mauro Covacich, autore de L’esperimento, sta forse indicando il suo modo di intendere il prodursi delle storie, delle “storie senza narratore”. Nel gioco degli scacchi dopo la prima mossa si virtualizzano quattrocento posizioni possibili, settantaduemila alla seconda, fino a arrivare alla sublime cifra di dieci alla centoventi possibilità di posizioni, movimenti, eventi; allo stesso modo, attraverso la sapiente ars combinatoria della scrittura, accade la storia di Gioia, a partire da una manciata di elementi, costanti e variabili: una ragazza affetta da spina bifida, bloccata sulla propria sedia a rotelle e costretta sin da bambina a estenuanti esercizi nel gioco degli scacchi. E la variabile di un intervistatore, l’elemento perturbante che avvicinando la ragazza altera l’esperimento, e con un cenno all’innamoramento, la invita a uscire dal setting che le era stato assegnato.

 

La narrazione è condotta a partire dalla mente di Gioia, dalla sua particolare situazione in cui le possibilità di sperimentare la vita sono depotenziate e limitate dall’handicap; ma da questo angusto laboratorio esperienziale fiorisce un altro mondo, quello delle “visioni” della ragazza che, sotto l’effetto delle dopamine prodotte dal continuo gioco a scacchi, esplodono in una cascata di immagini allucinate che danno vita a un racconto nel racconto. E così il mondo degli scacchi si anima diventando una piattaforma, ben disegnata nelle prime pagine del libro, sulla quale un re annichilito pedina la moglie-regina, incontra pastori, zingari, rospi, una sfrontata donna dal ventre gravido e una ragazza dell’est che fa la questua declamando poesie della letteratura ottocentesca italiana.

 

  

 

Covacich si sposta così su un piano di realtà parallelo, altrettanto abitato e interessante, e lo descrive in modo così nitido, lucido e preciso da riproporre proprio la logica dell’allucinazione in cui a un’immagine se ne giustappone un’altra, senza che la serie delle esperienze dei personaggi dia luogo a un qualche senso preordinato. Ma forse neanche la realtà di Gioia, in definitiva, ci offre alcun orizzonte di comprensione: la realtà da cui si è prodotta la visione ha la stessa struttura allucinatoria del mondo degli scacchi, insinuando così un sottile dubbio rispetto all’esistenza di un piano di realtà “più vero” da cui si produca una finzione. Il libro si legge tutto d’un fiato, protesi nella ricerca di un filo che colleghi le due serie di immagini, che permetta di collocare il re e la regina nell’immaginario di Gioia e di fare in modo che una storia dia senso all’altra o viceversa. Ma questo non accade: Covacich fa accadere due mondi che sembrano lambirsi e intersecarsi, ma senza che questo contatto conferisca alcun orientamento, quanto piuttosto un rimando speculare.

 

Lo stile è terribilmente crudo, spietato: oggetti e sensazioni sono esibiti nella loro pesante nudità e muta insensatezza provocando a volte una nausea sartriana, senza possibilità di riscatto. La lettura di questo romanzo costringe a un’esperienza di spaesamento continuo che spiazza innanzitutto le aspettative che automaticamente si attivano rispetto alla narrazione e ai suoi sviluppi; al contempo sorprende per la crudezza quasi pornografica dello sguardo sulle situazioni, generando sensazioni che se non possono certamente cadere sotto il concetto di piacevole, sicuramente appartengono alla sfera dell’interessante e dell’originale.       

 

Qui un'intervista a Mauro Covacich di Mariagiovanna Italia da Arabeschi.it

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