Tutte le donne sono Lilit

10 Luglio 2024

Lilìt è una creatura demoniaca femminile, seduttrice, abitante dei terreni aridi, devastati: è ciò che resta dopo la distruzione. Lilìt distrugge, divora i bambini appena nati, rende infertili, seduce gli uomini durante la notte per disperderne il seme. È donna e animale, uccello rapace, civetta, gufo, agisce di notte, quando può rendersi invisibile. Il mito, presente in area mesopotamica nella civiltà sumera e babilonese subisce numerose interpolazioni: rimosso, ripreso e reinterpretato ritorna ciclicamente in varie vesti. Una di queste, presente nel Faust di Goethe e in Lilit e altri racconti di Primo Levi, recupera la tradizione post-biblica medievale dell’Alfabeto di Ben Sira, per la quale Lilit era la prima moglie di Adamo. In Genesi, infatti, si assiste a una curiosa scomparsa: nel primo capitolo è scritto “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”; nel secondo invece la solitudine di Adamo preoccupa il creatore, e durante la notte estrae dal primo uomo una costola da cui plasmare una donna obbediente, “carne della sua carne”. Che cosa è successo alla prima donna “creata a immagine e somiglianza di Dio”? Tale vuoto narrativo viene riempito dal mito di Lilit, per il quale si immagina una donna assolutamente paritetica a Adamo che rifiuta, nei rapporti sessuali, di “sottostare” all’uomo pretendendo di assumere la posizione che più la soddisfi. Il primo litigio della storia si compie, non c’è possibilità di ricomposizione; Lilit decide così di andarsene, preferisce vivere nel deserto del Mar Rosso e accoppiarsi con altri demoni vagando come spirito dell’indomita potenza femminile. 

La ritroviamo in questa veste anche in alcuni dipinti di Kiefer, in cui Lilit aleggia sulle rovine delle metropoli contemporanee; la ritroviamo anche in Le invisibili (Neri Pozza Editore, 2024, 267 pagine) di Elena Rausa, nelle sembianze di una donna, di tante donne, invisibili appunto.

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In questo romanzo Dio, come nelle terre abitate da Lilit, sta in silenzio, si è ritirato. Nelle prime pagine la devastazione del fuoco e il sangue sono i protagonisti: siamo in Etiopia, nel 1937, nel mese di Yekatit, quando la furia delle truppe italiane si abbatte sulla popolazione etiope dopo l’attentato al viceré Graziani. Vittorio, che era partito giovanissimo come tappezziere per Asmara, si trova coinvolto nel massacro e, come mosso da altro, agisce, uccide senza sapere il perché: è il suo corpo che si muove, come l’increspatura di un’onda più grande, che parte da lontano ma arriva e devasta. 

Nei capitoli successivi vediamo come gli effetti dell’onda lunga della storia si propagano sulle generazioni successive, su Arturo, il figlio di Vittorio, sul fratellastro Dawit, il figlio di Ekelé, una “perla nera” – come erano chiamate le donne-bambine etiopi – di cui Vittorio aveva deciso di prendersi cura, e su Tobia, giovane ragazzo milanese che negli anni dieci del Duemila si trova a dover scontare una pena riabilitativa prendendosi cura di un Arturo ormai anziano che racconta dell’Africa lontana, mischiando realtà e sogno. 

Tramite Tobia conosciamo anche Agata, sua madre, e la sua storia personale, legata a doppio filo con l’Africa, che incomincia a naufragare proprio il 3 ottobre del 2013, quando il mare, nei pressi di Lampedusa, fa scomparire poco meno di quattrocento donne e uomini che tentavano di raggiungere l’Europa. Il 3 ottobre del 1935 è anche la data di inizio della campagna d’Etiopia in cui l’esercito italiano occupa la terra africana con un ingente numero di militari e lavoratori, che intrecciano le proprie storie con quelle invisibili degli uomini e delle donne etiopi. Siamo dunque in un’immagine ricorsiva del tempo in cui l’orrore dell’inizio non può estinguersi, ma come un’onda, appunto, torna ciclicamente a investire i corpi dei singoli, a manifestarsi come sintomo di un abuso originario. 

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Le invisibili è un mosaico fatto di storie singolari che compongono la Storia del nostro paese; ma se in un mosaico vediamo la forma dell’insieme proprio perché non percepiamo i particolari delle singole tessere che devono in qualche modo rendersi invisibili, nella narrazione recuperiamo questi dettagli, le storie tralasciate, dimenticate e rimosse; storie al femminile, voci che non hanno mai potuto raccontarsi. 

La storia minuscola recupera spazio nelle visioni di Arturo che, affetto da una malattia più neurologica che oculare, tende a vedere ciò che non c’è, tende a riempire quegli spazi narrativi che il discorso storico ha lasciato vuoti; ed ecco che egli “vede” Lilit, una ragazza etiope, un amore mancato, che gli racconta quello che è accaduto in Africa, come aveva fatto il padre Vittorio poco prima di morire. 

Con il romanzo di Elena Rausa “le Lilit” dimenticate dalla storia e dagli italiani possono riprendere a parlare con un linguaggio allusivo, fatto di visioni, chimere, sguardi deformati e deformanti: dicono la verità? Rausa attinge a una memoria fatta anche di storie possibili, forse non accadute, rivoli immaginari dell’onda lunga della violenza e dei massacri della Storia che ora vengono finalmente raccontati. 

“Ora, la storia di Eva è scritta, e la sanno tutti; la storia di Lilít invece si racconta soltanto, e così la sanno in pochi; anzi, le storie, perché sono tante. Te ne racconterò qualcuna, perché è il nostro compleanno e piove, e perché oggi la mia parte è di raccontare e di credere: l’incredulo oggi sei tu”. Queste le parole del protagonista del racconto di Levi, prima di presentare Lilit al compagno di campo. Rausa raccoglie questo intento e ne fa un romanzo molto complesso e ricco, di cui a tratti si perdono i contorni, come quando al mito si lega la storia e in questo connubio si tenta di dire la verità.

In copertina, Lady Lilith, Dante Gabriel Rossetti, Henry Treffry Dunn, 1867.

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