Sulle liriche giovanili / Robert Walser: il poeta, la neve e il diavolo

11 Gennaio 2020

Poesie (Gedichte) si intitola il volumetto di Robert Walser ora riproposto dall’editore Casagrande di Bellinzona nella traduzione, con testo a fronte, di Antonio Rossi. Il volume, arricchito dalle bellissime incisioni di Karl Walser, raccoglie in tutto quaranta componimenti. Sono poesie giovanili, composte perlopiù tra il 1898 e il 1900, tra le prime cose in assoluto scritte da Walser (che era nato nel 1878). Ma nel 1909, anno in cui il libro viene pubblicato per la prima volta in un’edizione per bibliofili a tiratura limitata (300 copie in tutto), Walser è già «uno scrittore». Per diventarlo si era trasferito nel 1905 a Berlino forte del suo primo libro, Fritz Kocher’s Aufsätze, pubblicato presso l’editore Insel di Lipsia l’anno prima, quando a Zurigo faceva ancora «l’assistente». Le vicende berlinesi di Walser si lasciano ora ricostruire attraverso il carteggio riedito in tre tomi (1897-1920 e 1921-1956 più un volume di apparati) che ha inaugurato l’anno scorso la nuova edizione commentata di tutte le opere di Walser presso Suhrkamp (la cosiddetta “Berner Ausgabe”). Appena sbarcato nella metropoli tedesca, dunque, il 13 aprile del 1905 Walser, che vive in casa del fratello Karl (pittore, scenografo e illustratore già affermato e molto apprezzato negli ambienti intellettuali berlinesi), scrive al suo editore per riscuotere il resto della quota dell’onorario che gli sarebbe spettata una volta che le vendite del Fritz Kocher’s avessero coperto i costi di produzione. «Vi prego» – scrive dunque fiduciosamente Walser – «di sbrigare la faccenda a stretto giro di posta». E a stretto giro di posta arriva infatti la risposta dell’editore: «Gentile signore, […] ci consenta in tutto rispetto di comunicarle che delle 1300 copie stampate solo 47 sono state fino ad oggi vendute».

 

Il resto, solo pochi anni dopo, sarebbe finito al macero. In giugno Walser rientra a Zurigo. Alla sorella Fanny, che vive nei pressi di Berna, scrive: «A Berlino […] passavo delle ore a guardarmi in quattro specchi molto belli appesi nel salotto blu, eppure non riuscivo a cavarne nulla, anzi, mi istupidivo sempre più. Poi andavo a far delle visite e tornavo a casa sempre affamato. Bisognava prendere il treno ed era bellissimo. […] Portavo un cappotto elegante, lungo, nero, attillato, una veste blu argento, dei pantaloni non proprio giusti, un cappello alto e, in mano, un paio di guanti appallottolati. Avevo un aspetto magnifico, che un tale abbigliamento ti fa diventare una persona come si deve. Ma io mi ero ripromesso di rimanere una persona onesta e mi tirai di dosso quegli abiti eleganti. Presi in mano la mia misera valigia da falegname e issai le vele. Quando montai in carrozza caddi in terra inciampando nella valigia e mi dissi: “Ehi, brocco, dico a te: vai di fretta?” Adesso sto pigramente a Zurigo e comincio a rendermi conto quanto era bello stare a Berlino». In settembre Walser di fatti è di nuovo a Berlino. L’8 ottobre manda al suo editore un manoscritto contenente 34 liriche (un primo nucleo di quelle poi apparse nel 1909) chiedendo se sia possibile pubblicarle entro natale. L’editore rifiuta il manoscritto, «poiché non c’è speranza di venderne abbastanza copie». Fino a dicembre Walser lavora come inserviente presso il castello di Dambrau in Alta Slesia. Nel febbraio del 1906 ha pronto «un romanzo di circa 400 pagine». A Carl Seelig dirà di averlo scritto «in tre o quattro settimane» e, «per così dire, senza correzioni»: I fratelli Tanner esce così presso l’editore Bruno Cassirer nel gennaio del 1907. Il romanzo ebbe una buona eco nella stampa dell’epoca e procurò a Walser una certa notorietà.

 

A Christian Morgenstern, che aveva seguito l’editing del romanzo, Walser scrive: «mi sto preparando ad “intraprendere” presto qualcosa, una sorta di carriera». Sta già pensando al secondo romanzo, pensa di partire per un viaggio oltremare, ci ripensa: «Non ci si può dare alla fuga in paesi così lontani, poiché potrebbe facilmente accadere di perdere l’empatia (Fühlung) con tutto ciò che ancora ci lega all’arte e alla vita d’artista. E poi è così bello essere nulla, vi è un ardore superiore rispetto all’essere Qualcosa. La professione è un ostacolo ma è anche una cosa bella, conclusiva, ma chi vorrebbe concludere, e io poi, no, di andare in Africa per adesso non ho voglia e non ne posso avere. Riterrei un’esperienza più profonda il finire in carcere, ma questo è un parlar da stupidi». Sembra una frase di Beckett. Nello stesso 1907 Walser inizia a collaborare alla rinomata rivista internazionale Die Schaubühne. «Sono uno scrittore» – scrive alla redazione – «e sto cercando di capire se sono in grado di “rendere”». Entro la fine dell’anno vi pubblicherà più di venti pezzi in prosa.

 

 

A Praga Franz Kafka diventa un suo appassionato lettore. Hugo von Hofmannsthal lo invita a scrivere sulla sua rivista. Nel 1908 esce il secondo romanzo, Der Gehülfe (L’assistente) seguito, nel 1909 dal Jakob von Gunten e dalla sua prima raccolta di liriche, Gedichte, appunto. È l’inizio di una brillante carriera. Ma ancora una volta Walser ci ripensa e si ritira dalla scena. I salotti mondani non fanno per lui. Il 17 luglio del 1908 aveva scritto a sua sorella Fanny: «Di recente ho fatto un volo in mongolfiera. Per un pelo non siamo finiti nel Mar Baltico. […] Qui tutti sono convinti che io abbia dormito durante l’intero volo. Il chiacchiericcio della gente è inquietante. Le persone onorabili qui si contano sul palmo di una mano. Ma c’è assuefazione alla moda, e l’artista deve cercare di soddisfare tali bisogni». Ma non è ciò che cerca Walser, che ancora una volta smette gli abiti eleganti per impugnare la propria misera valigia da falegname. L’arte è una cosa seria. Si salva dalla depressione tornando a fare lo scrivano, il segretario, il Gehülfe; quasi fosse questa l’unica condizione possibile per fare lo scrittore. Rimasto senza lavoro, all’inizio del 1913 rientra in Svizzera. Nel ’14 scoppia la guerra. A Berlino, Walser, non sarebbe mai più tornato. Nel 1933 viene ricoverato, contro la sua volontà, in una clinica psichiatrica di Herisau, presso San Gallo. Da questo momento in poi Walser non avrebbe più scritto. In vita la sua opera fu molto apprezzata da una ristretta ed eletta cerchia di lettori, ma rimase sostanzialmente ignota al grande pubblico. Il 25 dicembre del 1956 il corpo esamine di Walser viene trovato riverso sulla neve. Il bastone lì accanto. Era uscito per fare la solita passeggiata.

 

La neve, i paesaggi innevati, gli alberi sono motivi ricorrenti nelle liriche giovanili di Walser. Un’illustrazione ritrae di spalle un uomo che passeggia sulla neve in collina. Qualche albero spoglio qua e là. Sul margine basso a destra una casetta in fondo alla valle. Al centro dell’immagine la sommità della collina verso la quale il personaggio, leggermente decentrato rispetto ad essa, si sta dirigendo. All’orizzonte la neve che scende copiosa come un sipario che impedisce di vedere oltre: «Nevica, nevica, la terra è coperta / da un bianco peso così esteso, esteso. // Sfarfalla così dolente giù dal cielo il brulichio dei fiocchi, la neve, la neve». I paesaggi, la neve. Ein Landschäftchen, “Un piccolo paesaggio”, si intitola un’altra poesia, posta al centro della raccolta: «C’è un alberello sul prato / e con lui molti alberelli graziosi. / Una fogliolina trema nel vento gelido / e con lei molte singole foglioline. / Un mucchietto di neve scintilla sul bordo del ruscello / e con lui molti mucchietti bianchi. / Una piccola cima di montagna ride sulla valle / e con lei molte basse cime. / E in tutto questo c’è il diavolo / e con lui molti poveri diavoli. / Un angioletto volge altrove il suo viso piangente / e con lui tutti gli angeli del cielo». Cosa ci dice questa coazione all’uso ripetuto del diminutivo? Cosa ci dice la presenza inquietante e ingombrante del diavolo? E cosa ci dice quell’angioletto che piangendo volge via il proprio sguardo?

 

Ci dicono che questo paesaggio, questa natura non sono natura: siamo in pieno manierismo, del manierismo inteso in quanto categoria metastorica. L’incisione che accompagna la poesia sottolinea ulteriormente questo aspetto: al centro, su un mucchietto di neve, si erge un albero spoglio il cui tronco si riflette nel ruscello antistante sul margine inferiore del disegno. A destra dell’albero, ritto anch’esso su un mucchietto di neve e riflesso fino al busto nel medesimo ruscello, il diavolo con la coda, le corna, gli zoccoli caprini. Dietro di lui, sul margine destro, la cima di una montagna innevata davanti alla quale si erge la punta di un campanile. Finalmente, nell’angolo in basso a sinistra, bianco come la neve, con la schiena girata verso l’albero e il diavolo, lo sguardo rivolto verso il basso, la mano sul volto, l’angelo piangente, la cui sagoma sembra una proiezione in miniatura dell’albero che al centro domina il disegno. Il quadro ci presenta una natura artificiale, abitata da figure demoniache, da apparizioni che generano stupore e inquietudine, in un mondo mostruosamente deformato che trova il proprio archetipo nel Sacro Bosco di Bomarzo, capolavoro manieristico del Cinquecento. Ma il principio che genera la distorsione del quadro in una sorta di realtà parallela e unheimlich, è lo sdoppiamento dell’io che è il vero tema di questa lirica. L’angelo e il diavolo sono una proiezione dell’io lirico, la cui presenza è rifratta nel paesaggio e si manifesta quindi nel difforme. Il difforme è dunque qualcosa che parla al di là dell’«io», un fantasma dell’oltre, uno scarto schizofrenico, un’emanazione dell’es. Di quell’«es» che si materializza verbalmente nella poesia intitolata Weiter come una forza ineluttabile alla quale l’io non può opporsi e che malgrado le sue resistenze («volevo fermarmi») lo trascina sempre oltre («weiter»), senza sapere dove.

 

O che ancora si manifesta come un subitaneo «accanto» (Beiseit), una fulminea scissione dell’io che d’un tratto, di rientro da una passeggiata, nel verso finale si trova accanto a un implicito Altro, con uno straordinario effetto straniante che lascia il lettore in preda a una sorta di stupore. Abitato da questa presenza latente che di tanto in tanto si manifesta, lo spazio del mondo lirico di Walser è tendenzialmente incolore come i paesaggi invernali (dominano il bianco e il nero, accanto a sprazzi di verde), immerso in un sostanziale silenzio in cui tuttavia risaltano con singolare nitidezza i pochi suoni che si palesano. È uno spazio surreale, come quando la luna diventa «la ferita della notte», trasformando il cielo notturno in un grembo sinistro («gocce di sangue sono le stelle»); o come quando la neve immerge tutto in una distanza siderale e il mondo sembra popolarsi di manichini: «com’è piccola qui la vita / e come grande è il nulla. / Il cielo, stanco della luce, / l’ha data tutta alla neve». 

Tutto questo discorso si trova in fondo riassunto nella poesia intitolata Zu philosophisch (“Troppo filosofico”), quasi un condensato del mondo lirico del giovane Walser: «Com’è spettrale la mia vita / nell’affondare e nel risalire. / Sempre mi vedo far cenni a me stesso / e a me stesso sfuggire. // Mi scopro risata, tristezza / profonda, selvatico / intrecciatore di discorsi / e tutto ciò affonda nell’abisso. // In nessun tempo forse / vi è stata giustizia. / Sono destinato a vagare / in spazi dimenticati». 

 

Nota

Di Robert Walser hanno parlato su Doppiozero:

Marco Belpoliti, Robert Walser, perso e ritrovato nei suoi microgrammi

Rinaldo Cennsi, Robert Walser. Ritratti di Pittori

Luigi Grazioli, Robert Walser, Jakob von Gunten

 

 

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