Il pessimismo comico di Ermanno Cavazzoni / Storie vere e verissime

5 Febbraio 2020

Perché i marziani, quando sbarcano sulla terra, hanno sempre tanta fretta di ripartire? Siamo soli nell’universo? Cosa succede alle nostre cose quando iniziamo il viaggio per l’aldilà? Esistono i miracoli? A questi e a molti altri interrogativi cruciali per le nostre vite risponde Ermanno Cavazzoni nelle sue Storie vere e verissime, raccolta di trentacinque novelle comiche uscite di recente per “La nave di Teseo”, con una deroga ai consueti sistemi di ordinamento a cui Cavazzoni ci ha abituato nei suoi precedenti libri, dove segue la traccia di un tema-guida, di un genere o di una specie (Il poema dei lunatici, Vite brevi di idioti, Storia naturale dei giganti, Gli scrittori inutili, Guida agli animali fantastici, Gli eremiti del deserto, La galassia dei dementi) di cui redigere un bestiario o tracciare una genealogia. Le Storie vere e verissime non rispondono a un vincolo stretto nel criterio di catalogazione delle figure e delle vicende, accomunate piuttosto dall’aria di famiglia che si respira nelle pagine di questo scrittore innamorato di tutte le infinite forme di manifestazione della bêtise, che scova e insegue con il fiuto di un segugio e poi cataloga con la passione e lo scrupolo dell’entomologo. 

  

Non bisogna neppure prendersi la briga di inventare, – leggiamo fra le righe della premessa d’autore – tutto ciò che è raccontato è vero: basta guardarsi intorno, sbirciare nei ricordi della propria vita, sfogliare le pagine dei quotidiani o un repertorio delle segnalazioni di incontri con gli extraterrestri per cavarne delle storie verissime, perché qualcuno (forse) le ha vissute e qualcuno (certamente) le ha raccontate. In Gran fretta nella Galassia, lasciando da parte gli avvistamenti di luci e di oggetti che passano in cielo, troppo numerosi e generici per poterne parlare, si prendono in considerazione solo gli atterraggi veri e propri di extraterrestri in Italia, “cosa hanno detto e cosa hanno fatto”, i luoghi e le date: il 14 agosto 1947 a Villa Santina (Friuli) gli extraterrestri hanno rubato una picozza al professor Rapuzzi, poi sono ripartiti immediatamente; il 24 aprile 1950 nel varesotto un operaio sorprende due extraterrestri che  stanno saldando un pezzo dell’astronave, poi subito ripartono; il 1° novembre 1954 a Bucine in provincia di Arezzo “due extraterrestri in calzamaglia e giubbotto, rasati di fresco, escono da una specie di razzo e prendono alla contadina signora Dainelli un mazzo di garofani che teneva in mano e una calza, e dopo pochi minuti ripartono”. E così di seguito, con gli avvistamenti vicino a Siena, in un cortile a Milano, a Isola di Ortonovo, ad Avellino. Sì, ma il problema qual è? Vogliamo sapere quanti sono gli alieni, come sono vestiti, cosa dicono e cosa fanno? Non proprio, ci dice Cavazzoni. La vera questione intorno a cui dibattere è: come mai tanta fretta? Perché non si fermano, non scambiano due parole almeno per gentilezza, non vogliono visitare niente, nemmeno Arezzo, che tra l’altro è una città bellissima, o Varese, la Basilica di San Vittore con facciata neoclassica, i Musei Civici con reperti archeologici, la tomba del guerriero. Non interessa? Mai nessuno che voglia nemmeno sgranchirsi, guardarsi attorno, bere un caffè, fare due chiacchiere? C’è superficialità, c’è maleducazione, oltre che fretta, nella galassia.

  

 

È in questa vertiginosa fioritura di ipotesi paradossali, nell’arte del paralogismo e della callida iunctura (“turismo postmoderno”, “paradiso tenuto male”, “natura ecologicamente irreprensibile” “patente ereditaria” sono alcuni degli accostamenti a sorpresa che costituiscono una peculiare cifra di stile), che Cavazzoni dispiega le sue straordinarie doti d’invenzione. Basta una banale gita di fine settimana sui laghi di Mantova o una rapida ricognizione delle fotografie di famiglia  per avviare la catena delle supposizioni, rovistando nello sciocchezzaio delle nostre vite quotidiane, nella pattumiera della nostra cosiddetta civiltà: ci sono tutti i luoghi comuni, i tic, i diktat del mondo d’oggi: il turismo obbligato, la fiducia nell’intercessione dei santi (Miracoli a Medjugorje), l’arte contemporanea con le sue follie (La moderna arte potrebbe fare miracoli), l’attesa di un premio in un’altra vita (Il paradiso dei terroristi, Come si vive nell’aldilà), il miraggio della ricchezza (Lo squattrinato e il milionario).

  

La forza del riso dissacrante non risparmia nessuno, nemmeno la figura del narratore, che non si erge mai a giudice fustigatore dei costumi, ritagliandosi un posto nel teatrino di questa galassia dei dementi, in cui tutti siamo chiamati a recitare una parte. E non è forse un caso che il primo posto della raccolta sia riservato da Cavazzoni proprio a un’avventura della sua giovinezza, al tempo in cui si era messo in testa di fare politica e aveva partecipato a un comizio organizzato dal partito comunista a Bologna, dove era arrivato da Reggio Emilia, sua città d’origine, per frequentare l’università. Doveva parlare per tre minuti a nome degli studenti in lotta (era il 1968) a un comizio di Pietro Ingrao in campagna elettorale, da un palco fitto di autorità, di fronte a ventimila persone. Era l’ultimo a dover intervenire per introdurre il discorso del candidato, dopo il sindaco, il segretario provinciale e dopo un’operaia in lotta. Aveva 19 anni. Ha cominciato a parlare. Ha visto tutto bianco. È svenuto. Comizio rovinato, tutto si smonta, l’atmosfera non è più la stessa. Ha fatto perdere voti? “Non lo so, – risponde Cavazzoni – ma è da qui che è partita la crepa che poi è arrivata fino al muro di Berlino e lo ha fatto cadere”.

  

Cavazzoni scherza ma non troppo quando getta ponti impensati fra le microstorie e i grandi avvenimenti celebrati nei libri di scuola. Nei suoi racconti troviamo la fine dei dittatori, di Mussolini, di Hitler, di Stalin, ricostruita con la precisione documentaria che gli viene dall’assidua frequentazione dei saggi di  storia contemporanea, di cui sono pieni gli scaffali della biblioteca di casa sua; i ritratti di grandi scrittori in punto di morte (Voltaire conteso, Gogol’ nell’ultimo istante); figure di cui s’ignora l’esistenza (Il fratello segreto di Pascoli, I raccoglitori di cose, I solitari pittori del Po); istantanee degli amici (Avventure con Celati, La civiltà degli scarafaggi, dedicato a Ugo Cornia). Da ogni figura, da ogni racconto, come in un moderno lunario, possiamo trarre un suggerimento, una piccola ricetta, una massima, per quanto possa apparirci paradossale, di cui fare tesoro: “Io personalmente, dovessero chiedermi un parere, sconsiglio il paradiso”, ci dice Cavazzoni affacciandosi dalla quarta di copertina. Sorridiamo, anche se sull’assunto da cui tutto prende le mosse c’è ben poco da ridere: “non si può dispensare falso ottimismo, l’uomo sarà sempre una bestia maledetta”, si legge in un pezzo folgorante uscito sul “Sole 24 ore”, Perché si sorride in foto, che filtra i costumi del mondo contemporaneo attraverso la lente di un singolare pessimismo comico. Perché l’abitudine di mostrarci allegri nelle fotografie è relativamente recente e coincide con le grandi tragedie del secondo dopoguerra, la guerra in Vietnam, la guerra in Corea, le bombe in Medio Oriente, il crollo delle Torri Gemelle, la diffusione dell’AIDS, la sovrappopolazione, l’aumento del debito pubblico, la stagnazione. Noi continuiamo a sorridere. Bene, ci suggerisce Cavazzoni, “sarebbe opportuna in foto una decisa disapprovazione” o almeno “una posa leggermente guardinga, un occhio al cielo, l’altro in camera. I posteri capiranno”. E apprezzeranno.

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