Don Milani / Timidi, disubbidienti, disuguali

11 Ottobre 2017

Questa mattina a scuola ho spiegato cos’è la Costituzione. Combattendo il torpore dell’ultima ora e il malumore causato dalla notizia che l’ultimo collegio docenti li ha derubati di un intervallo, i miei alunni di terza si sono rassegnati ad ascoltare e a prendere appunti. È una buona classe e non è difficile interessarli a qualcosa purché mi vedano coinvolta dall’argomento. La mia idea di scuola. Un buon compromesso. 

Così abbiamo parlato della nascita della Repubblica, di sovranità popolare e di legge, o meglio, dei principi fondamentali su cui uno Stato dichiara di fondarsi.  

“Non è giusto” è l’espressione più usata dai tredicenni in questione. Della legge hanno un’idea vaga: sanno che viene loro inferta dall’alto e che può tutelarli o danneggiarli. Hanno dei doveri un’opinione contraddittoria (ci vogliono ma possono essere aggirati) e una definizione personale del concetto di diritto, per cui ad esempio il loro cellulare sembra essere previsto da una Magna Charta che noi adulti dobbiamo aver firmato a un certo punto. Sono bravi ragazzi. 

 

Hanno quindi trascritto sul quaderno i primi articoli della nostra Costituzione, scoperto che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e sull’uguaglianza senza distinzione di sesso, cultura, religione, lingua, condizione economica o sociale. Ahmed ha alzato gli occhi dal quaderno. 

– È vero? – mi ha chiesto. 

– Certo – gli ho detto, subito.    

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Tutto molto difficile. Mi hanno guardato persi. 

– Facciamo un gioco – ho detto. 

 

Cinquant’anni fa Don Milani scriveva uno dei testi più interessanti mai pubblicati sulla scuola italiana. La Lettera a una professoressa, che pure era una sferzata al sistema scolastico dell’epoca, rappresenta una ferita ancora aperta: nei libri recenti che raccontano, spiegano e a volte celebrano la figura del prete di Barbiana, non manca mai il riconoscimento dell’attualità del suo messaggio. 

Non si tratta certo di ignorare il contesto storico in cui il documento deve necessariamente essere calato. Al contrario, proprio in questi anni si torna a rileggere Don Milani alla luce delle contraddizioni e dei problemi che affliggono ancora la scuola italiana, nonostante le riforme, i dibattiti, le rivoluzioni pedagogiche intervenute nel frattempo. 

 

Terreno di battaglia tra una visione che si considera tradizionalista ed è di fatto classista e una pluralità di voci che, in modo variegato, sostengono la necessità di un cambiamento effettivo nel nostro sistema educativo, la scuola continua il suo percorso a colpi di leggi passate con voto di fiducia, dichiarazioni sui giornali del ministro del momento, sperimentazioni estemporanee calate dall’alto su un impianto che fatica a innovarsi e che è nel concreto poco permeabile. Soprattutto, in un Paese in cui la dispersione scolastica è a livelli preoccupanti, mi sembra che manchi una volontà effettiva di applicare all’idea di scuola due concetti fondamentali a Barbiana: l’uguaglianza e la ricerca di senso. 

 

Il primo motivo per cui la critica di Don Milani alla professoressa viene accolta con ostilità sta proprio nel rifiuto di abbracciare la necessità di una scuola che garantisca agli alunni le stesse opportunità. Tutto pare usato a questo ignobile scopo: i voti, l’orientamento, la meritocrazia, l’idea di individuo da formare e collocare in un preciso settore economico. La scuola continua ad essere grande selezionatrice e l’Italia, come dimostra lo studio condotto da Raimo nel suo recente Tutti i banchi sono uguali, “un paese di figli di papà e identico da un decennio all’altro”.  

 

 

Un assunto che potrebbe sembrare un mero dato se non prendesse vita negli studenti che affollano le nostre aule. A questo proposito, non solo originale ma anche interessante mi è parso il libro di Andrea Schiavon, Don Milani – parole per timidi e disobbedienti (Add editore): Schiavon, che è giornalista e appassionato conoscitore dell’opera di Don Milani, ha deciso di andare a cercare nelle scuole l’opinione degli studenti sui contenuti della Lettera. Il campione di riferimento è vario sia dal punto di vista geografico (si va da Torre del greco ad Atripalda, provincia di Avellino, fino a Padova) che per la scelta delle scuole (dal liceo fino a un’agenzia formativa professionale). In questo modo non solo nel corso del libro si mettono in luce i diversi percorsi che questi ragazzi si trovano ad affrontare, ma, tramite lo scrittore, le loro riflessioni vengono trasmesse da una classe all’altra in un dialogo virtuale che diventa un’occasione di vedersi da fuori e raccontarsi.

 

Si passa ad esempio da Ciro che crede di aver capito che o si è portati per la scuola o si è fatalmente negati, a Imma che chiede attenzione alla sua professoressa perché, anche se non avrà mai un lavoro prestigioso, le piacerebbe essere una persona che sa pensare. I ragazzi di Atripalda chiedono alla scuola “sicurezza, incoraggiamento, possibilità di credere in se stessi”. Da Padova qualcuno con la tuta da lavoro addosso e numerose bocciature sulle spalle risponde che di tutte queste belle parole dalla scuola ha avuto solo la virgola. 

Un libro che dia così tanto spazio alla riflessione di un gruppo di adolescenti potrebbe sembrare riduttivo rispetto alla complessità del messaggio di Don Milani. Non è così. La figura del parroco di Barbiana ne esce rinnovata in primo luogo perché Schiavon ha dimostrato una grande abilità nel dialogare con i suoi giovani interlocutori grazie a una scelta accurata dei contenuti e delle modalità del confronto, poi perché la vicenda biografica raccontata nel corso del libro risulta intrecciata ai loro interventi in modo  molto naturale: la figura di don Milani emerge tra le pagine quasi evocata da ragazzi che avrebbero bisogno di qualcuno che si batta per loro.  

 

Uguaglianza, dunque. Una necessità, un diritto, che Schiavon bene identifica con la capacità descritta nella Lettera di “intendere la prima pagina del giornale”. La questione della lingua tanto importante per don Milani (non a caso ribadita come centrale anche nell’affascinante saggio di Vanessa Roghi, La lettera sovversiva, in uscita per Laterza) prende vita in modo molto, troppo reale in queste classi di adolescenti che sentono di non potersi esprimere da pari a pari con alcuni dei loro coetanei e con la maggior parte degli adulti con cui interagiscono. La lingua è strumento di colonialismo culturale, è il mezzo con cui gli oppressori ottengono che gli oppressi acconsentano a tutto. Ancora, la lingua ci identifica, ci colloca nel mondo che si esprime come noi, che ci capisce e che a nostra volta comprendiamo. Possedere una lingua che sa parlare di cose difficili significa, in parte, possedere quegli argomenti difficili, quella stessa complessità nel leggere il mondo. 

Parlare bene il linguaggio scolastico, però, quella è una fortuna. A farla, una concomitanza fortuita di predisposizione intellettiva, tenore di vita familiare, ambiente affettivo. La grammatica ci viene naturale, facciamo i compiti, prendiamo voti alti, veniamo promossi, vinciamo i concorsi, ereditiamo l’azienda. Intorno, chi cade non si rimette in piedi da solo e la scuola alza le spalle e lo lascia lì: di più non riesce a fare. Da don Milani a Starnone riecheggia la maledizione che la vuole efficace solo per quelli che ne potrebbero fare a meno. 

 

Non perdere tempo a scuola, questo il primo comandamento a Barbiana. “Agli svogliati basta dargli uno scopo” scriveva don Milani e forse è questa la cosa più difficile. Slegare la scuola dalla schiavitù delle ore in successione, dal terreno inaridito dal binomio lezione-valutazione offrendo un senso profondo alle attività proposte. Le diverse esperienze delle scuole del Nord Europa, pur con le loro peculiarità, suggeriscono che non sia impossibile e il dibattito attorno alla scuola ha il merito di sfidare le voci che si alzano da più fronti a trovare una strada percorribile. È la risposta a una chiamata che ha compiuto cinquant’anni: la Lettera chiede alla professoressa di rendere conto del suo modo di fare scuola e adesso la professoressa deve rispondere. Tirarsi indietro, attaccare don Milani, barricarsi sull’altare del merito e sull’idea che esistano dei migliori da mandare avanti e dei negati da bocciare, non è più possibile. La scuola deve adoperarsi per eliminare le disuguaglianze generate dalle condizioni economiche e sociali di uno studente, soprattutto da quelle che lei stessa in quanto sistema imperfetto tende a creare. O riesce o non è scuola, non è Stato. Non serve, anzi danneggia. Quanto al senso, Schiavon ricorda la fine precoce di don Milani morto a 44 anni per un tumore. “Se sapessi che la tua vita durerà così poco quanti mesi saresti disposto a buttar via, facendo cose in cui non credi?”  Un monito, per gli studenti. E per i professori.  

 

Hanno accartocciato il foglio con perizia: le palline di carta sono materia scolastica fin dalle elementari. 

– Che cos’è il successo per una persona? – ho chiesto.

I soldi, tanti, hanno detto ma io li ho ignorati. La possibilità di mantenersi certo, ho detto, di avere una casa e un lavoro. Di capire e godersi le cose belle. Di essere un poco felici. 

Sono stati d’accordo che la scuola poteva aiutare: la formazione giusta, professionale, o una laurea a pieni voti, magari un master all’estero, un tirocinio. 

Ho appoggiato il cestino della carta sulla cattedra proprio difronte al primo banco. Mi sono tolta dalla linea del fuoco.

Tutti stringevano in mano la possibilità di farcela: bastava centrare il cestino. Qualcuno nei banchi più lontani dalla cattedra mi ha chiesto di potersi avvicinare poi ha capito. Condizioni economiche e sociali svantaggiate: doveva restare al suo posto, lontano dal cesto. 

Uno per volta, dunque, ci hanno provato tutti. Qualcuno ci è riuscito. 

 

Dal terzo banco Ahmed ha preso la mira. Non è andata. 

Intanto chi in prima fila ha fatto centro non ha percepito la distanza, la difficoltà degli altri. Si è sentito bravo, senza sforzo. Dietro, qualche compagno ha lanciato la carta e quando l’ha vista cadere a terra non è rimasto sorpreso: se l’aspettava.  

Alla fine sul pavimento le pallottole bianche erano più di quelle entrate nel cesto. Mi hanno chiesto un’altra possibilità e io l’ho concessa.

– Ma perché sia giusto stavolta, io cosa potrei fare? 

Ahmed ha guardato il cestino. 

– Lo deve portare in giro così è abbastanza vicino a tutti.  

È vero, dovevo. Ma poi è suonata la campana, quindi non l’ho più fatto. 

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