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Le condizioni in cui viviamo sono ancora da raccontare / Toma Muteba Luntumbue e la 5 Biennale di Lubumbashi

18 Novembre 2017

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La quinta edizione della Biennale di Lubumbashi ha aperto al pubblico il 7 Ottobre 2017 a Lubumbashi, Repubblica Democratica del Congo, una delle maggiori città del paese e capitale del Katanga, la regione sulla quale venne costruito l’enorme potere economico del Belgio del primo Novecento. 

Questa edizione segna dieci anni di attività di Picha, lo spazio indipendente e piattaforma di produzione messo in piedi da un collettivo di artisti e professionisti della cultura di Lubumbashi. Éblouissements segna anche una ricostruzione interna di Picha, che ora ha un nuovo quartier generale (per mostre, presentazioni e residenze), che si colloca in un quartiere popolare ai margini del centro della città, oltre a una galleria ed un lab di produzione.
Rencontres Picha Biennale de Lubumbashi (come si chiamava originariamente) era nato come visione collettiva di un gruppo di giovani che voleva che la città avesse una istituzione indipendente che lavorasse sia come piattaforma di produzione per artisti locali che come hub internazionale, per ripensare l’arte da una prospettiva locale.

 

Dopo la direzione di Simon Njami ed Elvira Dyangani Ose, il direttore artistico della Biennale è Toma Muteba Lutumbue, artista, storico dell’arte, educatore e curatore. Toma è alla sua seconda direzione: ha diretto anche l’edizione del 2015, dopo aver fortemente sostenuto Picha in un momento in cui l’organizzazione stava vivendo una trasformazione profonda.

Questa seconda esperienza in Lubumbashi segna un momento di consolidamento non solo di Picha come organizzazione, ma anche della ricerca sul territorio condotta da Toma in quattro anni.

 

Il titolo della Biennale, Éblouissements, segna anche un radicamento profondo di questo evento internazionale nella città che lo ospita. Un obiettivo raggiunto grazie a una lunga presenza di Toma sul territorio e l’impegno di Picha come attore chiave nella vita culturale della città, e non solo come organizzazione a capo di un evento internazionale dell’arte globale.

Ho incontrato Toma durante l’apertura della Biennale: nel momento in cui gli artisti locali e gli ospiti internazionali arrivano e si incontrano, installano i propri lavori e confrontano le loro prospettive. Ed anche nel momento in cui la struttura li accoglie, si misura con le proprie capacità organizzative ed osserva le difficoltà con le quali un evento del genere si deve confrontare in una città africana, spingendo necessariamente a un ripensamento dell’intero processo di produzione, display, mediazione e comunicazione. Non si tratta di ospitare un evento periodico internazionale, ma di tradurre pratiche di creazione, scambio ed esposizione in uno spazio che ha necessità, confini, possibilità, storie, sentimenti e visioni molto specifiche.

 

Iniziamo con il concept della Biennale e il suo titolo, che mi sembrano una scelta intellettuale molto deliberata. Éblouissements, è un concetto centrale del pensiero del sociologo di origini congolesi e gabonesi Joseph Tonda, che non è certo uno dei pensatori contemporanei più citati dal mondo dell’arte globale. Tonda ci parla del presente, della globalizzazione, dei suoi immaginari e dell’“imperialismo coloniale”, il vero motore del nostro presente. Mettendo in relazione economia, potere e immaginari contemporanei, parla anche all’arte e dell’arte. Come hai tradotto éblouissements in una proposta curatoriale?

 

Ho cercato di lavorare usando un metodo quasi artigianale, per evitare metodologie che già avessi sperimentato o che avessi pronte per applicarle in ogni contesto. C’è un lato di costruzione contestuale in questo lavoro. La situazione politica locale, il contesto della città di Lubumbashi, il fatto che si tratta di uno spazio decentrato rispetto al contesto internazionale dell’arte. Permette di vivere una libertà immensa in termini di orientamento del progetto. Ho potuto lavorare come lavoravano i curatori degli anni Settanta: niente parole-chiave. Anche se all’epoca esistevano le grandi narrazioni, c’era al tempo stesso una profonda creatività nell’ambito teorico. Ho l’impressione che il Congo di oggi sia uno spazio per sperimentare nuove forme. 

Le condizioni in cui viviamo sono ancora da raccontare. 

 

Vessel from the series still a stranger, Sarah Waiswa.


Non ci sono molti pensatori che, oggi, ci abbiano permesso di sviluppare una visione semplice, perché tutti i discorsi (economici e politici) sono esposti a limitazioni ogni volta che cercano di spiegare la realtà. 

Apprezzo veramente il pensiero di Joseph Tonda per le sue qualità ibride e per il fatto che non sia un “guru” di un milieux specifico. Il suo libro è estremamente attuale per ciò che riguarda la realtà centro africana del presente. La sua ricerca è profondamente radicata nel suo paese natale, il Gabon, e poi ai due Congo e alla Repubblica Centro Africana. Ha un approccio non manicheo alle questioni sollevate tra Africa ed Occidente.


Tonda analizza l’onnipresenza degli schermi e dell’immagine su schermo, come vettore di comunicazione e soggiogamento al contempo. Indaga i concetti di vero e falso, autenticità, o l’effimero che viene sostituito, i simulacra. Lo sviluppo del suo pensiero è non lineare: è un pensiero appunto, e non un movimento, un pensiero che affronta la realtà disturbante che gli esseri umani stessi affrontano. La metafora di Éblouissements è legata a una specie di fascinazione ed anche a una sorta di cecità. Per spiegare i suoi concetti, Tonda fa diversi esempi, come quello delle giovanissime donne che applicano al proprio corpo tutti gli attributi della seduzione occidentale. Sono le prostitute di Libreville che usano extensions per i loro capelli e li decolorano, o usano il rossetto. Vorrebbero attrarre lo sguardo dei loro clienti europei ma nella realtà dei fatti li respingono. Questa idea di attrazione-repulsione descrive anche i pregiudizi attraverso i quali Europa e Africa si sono incontrati. Una specie di soggiogamento reciproco, fascinazione e cecità. 

 

Ma Tonda non rigetta la presenza occidentale in Africa: vede la complessità di questo incontro.

Si tratta di un libro molto denso e la Biennale non vuole tradurne i concetti principali in arti visive: sarebbe un insulto usare una parola chiave per riassumere una costruzione concettuale complessa. Gli artisti hanno lavorato sull’impatto delle immagini, della realtà politica ed usando i propri media. Il mio invito voleva essere molto aperto alle loro proposte e anche aprire un processo creativo avventuroso: il loro incontro con la città e gli spazi espositivi sono una sfida per il loro lavoro, mettendo anche in crisi il concetto di pubblico e città. Non è una biennale fatta per il mondo dell’arte: piuttosto è una biennale fatta per le persone. Non voglio essere demagogico, c’è davvero qualcosa di diverso che può emergere dalle condizioni locali e dalla tradizione del dispositivo espositivo che abbiamo messo in piedi in un contesto senza alcun sistema dell’arte, istituzionale o indipendente.

 

Lubumbashi Biennale.


Come sei riuscito a mettere in relazione la Biennale con Lubumbashi? Ci sono naturalmente i diversi spazi espositivi. Ma c’è anche un tentativo di mettere i cittadini di Lubumbashi in relazione con le opere, dalla loro produzione alla loro mediazione. Come sei riuscito a lavorare con la città?

 

C’è qualcosa di veramente specifico di questa Biennale: la messa in opera di un progetto che Sammy Baloji ha in testa dal 2013, gli Ateliers Picha, uno spazio nel quale un gruppo di artisti emergenti è invitato e seguito. Quest’anno ho curato la messa in opera degli Ateliers e abbiamo delineato due assi principali di ricerca: National Iconographies e la trasformazione di Lubumbashi.

Nel primo asse abbiamo indagato la maniera in cui la cultura pervasiva delle immagini è percepita nella città di Lubumbashi e come sia concepita dagli artisti e dagli users dei social media. Volevamo riflettere sulla produzione delle immagini a partire da questo lato del mondo, dall’inizio del XX Secolo ad oggi. Una tensione verso una presa di coscienza sull’uso e abuso delle immagini e su come possiamo riappropriarci di un processo produttivo piuttosto che di consumo; passare dall’esserne abusati ed influenzati nel modo di vivere e pensare a diventare produttori di immagini che provengono ed appartengono a questo spazio. Gli artisti invitati agli Ateliers hanno cercato di ricostruire un processo creativo non fondato sull’imitazione del mainstream delle arti o dei media, ma piuttosto sull’osservazione delle complessità locali. 

 

Per esempio siamo andati a visitare il Musée Familial di Maître Yabili (un museo che racconta la storia del Congo RDC, dalla fondazione di Lubumbashi ad oggi, attraverso le immagini e le storie della famiglia dello stesso Maître Yabili, ndr). Una scoperta meravigliosa della storia del paese che gli artisti conoscevano a malapena: volevamo che radicassero le loro progettualità in questa storia.

Il secondo asse di ricerca si è focalizzato sulle trasformazioni degli spazi di Lubumbashi, una città che ha un secolo e che ha vissuto radicali mutazioni, soprattutto nel momento della crisi del Gécamin negli anni Novanta (l’azienda di stato fondata nel 1966 come successore dell’Unione Mineraria dell’Alto Katanga, fondata all’inizio del XX secolo dai Belgi, ndr.). Gécamin era la madre e il padre, il nume tutelare e l’immagine iconica di Lubumbashi. Nel momento in cui è fallita, la città – fondata sullo sfruttamento delle risorse minerarie – è affondata. Abbiamo voluto tracciare la storia coloniale e trovarne i sintomi nel suo tessuto urbano, ed anche riscrivere questa storia. I Belgi sono molto orgogliosi di quello che hanno costruito, in termini urbanistici e di architettura. Noi volevamo trovare che cosa hanno invece aggiunto i congolesi alla struttura urbana di una città che in breve tempo è passata da un milione a sei milioni di abitanti: come si sono riappropriati della città? Come hanno creato una sorta di porosità che andasse oltre l’Apartheid messo in piedi dall’impero belga? Abbiamo lasciato gli artisti partecipanti agli Ateliers a scandagliare il territorio e tradurre gli input ricevuti in opere. Le mutazioni di questa città sono di fatto indagate molto raramente dal mondo dell’arte: loro hanno reinterpretato dopo aver collezionato concetti, idee, sentimenti, informazioni. Due degli artisti, due donne, hanno per esempio lavorato sulla presenza femminile e sulla posizione politica delle donne, centrale in alcuni eventi chiave della storia della città. 

 

Lubumbashi Biennale.

 

Atelier Picha è stata una parte importante della Biennale, la cui concezione è stata una discussione costruttiva tra te e Picha in questi ultimi quattro anni di collaborazione. E credo sia anche l’espressione di un bisogno che emerge dal contesto della città: aprire spazi di interazione tra Lubumbashi e gli artisti che vengono dal Congo o dall’estero. Si tratta anche di una possibilità che viene data agli artisti invitati: restituire qualcosa al territorio. Mi piacerebbe che parlassi di più della visione politica ed etica che ha portato alla messa in opera degli Ateliers. 

 

Gai Ateliers sono progettati come piattaforma a lungo termine per artisti emergenti congolesi, selezionati come partecipanti. Hanno avuto un periodo di mentoring, dove hanno potuto discutere i propri progetti e le proprie esperienze con ospiti nazionali ed internazionali. Abbiamo selezionato un gruppo di artisti che hanno già una presenza nel contesto dell’arte: perciò non si è trattato di “educarli” ma piuttosto di sostenerli nella loro ricerca di coerenza, visione e multidisciplinarietà. Abbiamo ricevuto domande di partecipazione da profili molto differenti: ballerini, pittori, film-makers, artisti sonori.
Abbiamo anche voluto che interagissero tra di loro: fanno parte della stessa generazione e vengono da diverse parti del paese: si sono ritrovati a dover condividere tempo ed idee e cooperare. E divenire quindi consapevoli delle proprie differenze, e trovare convergenze. Abbiamo detto loro che hanno il potere di cambiare la realtà dell’arte del Congo e di cambiare la relazione tra locale ed internazionale. Avevano le chiavi per inventare i propri modelli. 

 

Picha è il modello per questa “reinvenzione di modelli”: un’organizzazione di artisti, sviluppata con un’attitudine Do It Yourself. In dieci anni hanno creato e stabilizzato una struttura indipendente e sono riusciti a lavorare potendo contare su pochissimi mezzi. E nonostante tutto hanno raggiunto molto, e specialmente sono riusciti a costruire i propri modelli senza importarli da altrove. Si sono inseriti a fondo nel loro contesto. Il loro centro operativo è in un quartiere popolare (la nuova sede di Picha, recentemente acquisita dopo la rottura con Patrick Mudekereza, ex membro fondatore che ha scontato una ricerca individuale di successo con i partner stranieri ed un tentativo di sussunzione dell’intera struttura uscendo dal collettivo, ndr.). Sono riusciti a costruire partnerships con diverse entità di Lubumbashi, diventando così una struttura radicata e non elitaria. La Biennale è una delle maniere per sostenere questo progetto anti-elitista: Picha vuole che il centro sia uno spazio in cui le persone possano aprire la porta ed entrare senza sentirsi intimidite, come succederebbe in un museo. 

 

Geraldine Tobe.


Sei un artista di formazione. E poi uno storico dell’arte, un educatore che insegna teoria nelle due migliori accademie di Bruxelles. Ed hai anche una traiettoria curatoriale cresciuta in un momento in cui l’arte proveniente dal continente africano non era ancora il nuovo hype, come lo è diventata negli ultimi anni. Come contestualizzi la tua presenza a Lubumbashi?

 

Non ho mai pianificato di essere qui: ho accettato l’invito degli amici di Picha che forse, dopo una serie di curatori non congolesi, hanno pensato che potesse essere interessante sperimentare un periodo di cooperazione con un curatore che avesse le stesse radici culturali. Non ho mai vissuto continuativamente in Congo RDC: faccio parte di una generazione che è cresciuta durante la Seconda Repubblica (tra il 1967 ed il 1997, sotto la presidenza di Mobutu, ndr.) ed è stata educata con l’ossessione dell’Africa, una specie di feeling che ci ha reso forse inabili a sentirci del tutto parte dell’Europa. Abbiamo tutti vissuto questo sentimento di dovere qualcosa all’Africa: e questa è stata la mia crisi esistenziale. A distanza abbiamo anche avuto la sensazione che potevamo avere un impatto. Volevo condividere qualcosa, facilitare la sperimentazione, aggiungere senso alla ricerca artistica. Così, partecipare a un progetto come la Biennale implica sempre vivere un senso di speranza ed attaccamento.

Quando lavoro a una mostra, faccio sempre quello che farebbe un artista che lavora con altri colleghi. Faccio parte di quella generazione che non ha ricevuto alcuna formazione curatoriale, come Harald Szeemann, o Jan Hoet, o René Block, che organizzavano mostre. Jean-Hubert Martin diceva che ha iniziato a lavorare in un museo perché era l’unico modo per organizzare mostre. 

Lo sguardo del sistema dell’arte contemporanea sul mondo globale è piuttosto recente ed ora molte pratiche sono diffuse – io la chiamerei cultura del “copia e incolla”. Non ho mai lavorato in questo modo: lavoro – come dicevo prima – adottando una strategia artigianale, inventando i miei strumenti. Non ho modelli. Ho avuto la fortuna di lavorare con Jan Hoet e ho visto come era estremamente vicino agli artisti e alle opere, senza cercare di imporre alcuna teoria sui lavori.

 

La spina dorsale della mia pratica curatoriale è il contatto con gli artisti e il contesto. Le opere e le loro qualità intrinseche sono la preoccupazione principale, prima delle origini culturali o dell’orientamento sessuale dell’artista. Mi ritrovo a sospettare di questa nuova emergenza di interesse sull’arte africana e dei curatori specializzati esclusivamente in quel campo. Io stesso non ho mai lavorato con artisti esclusivamente africani: anche la mia prima mostra (che presentava lavori di artisti congolesi, ndr.) si concentrava su artisti che in primo luogo apprezzavo.

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