Mauro Pagani: autobiografia in dieci blues

19 Novembre 2022

Partendo da lontano si potrebbe dire che la fuga, un tempo, era un’arte. Lo è stata certamente in ambito musicale, ma lo è stata anche, chiedendo appoggio a una canzone del cantautore bresciano Michele Gazich, per i profeti, gli indovini unti d’olio di chiesa o di officina, nei deserti, tra gli assassini. In apertura di Un tempo la fuga era un’arte, Gazich cita proprio il tema di L’arte della fuga di Johann Sebastian Bach, per poi sovrapporgli un che di meticcio, un violino zigano, un tempo di polka:

Un tempo la fuga era l’arte per conoscere te stesso
L’arte per dimenticare tutti i libri, tranne quelli che non hai letto
Un tempo la fuga era un’arte, porta che apre un’altra vita
Un giorno nuovo, un vestito nuovo copre bene la mia ferita.

Bresciano, proprio come Gazich, è Mauro Pagani (nato a Chiari il 5 febbraio del ‘46), il quale intitola l’autobiografia pubblicata di recente da Bompiani Overlook Nove vite e dieci blues. Alle nostre latitudini si dice che i gatti abbiano sette vite, ma nei paesi anglosassoni il conto sale di due, fino a nove, appunto. Non so se Pagani avesse in mente un felino, ma è certo che avesse in mente la fuga. Lungo le 200 e più pagine del libro più volte si autodefinisce così: il Fuggiasco. Sceglie cioè di inquadrarsi nel ruolo di colui che fugge (anche) per conoscere sé stesso. Fugge dalla famiglia dapprima, lo fa un 25 di aprile nel più classico dei modi: in autostop; poi fugge dal prog abbandonando la Premiata Forneria Marconi a metà anni ’70, quando il genere, ai suoi occhi, sembra aver esaurito la spinta propulsiva; fugge dal rock per dedicarsi alle musiche di tradizione popolare, fugge dalle convenzioni, dal già noto; fugge dagli Stati Uniti dopo averne inseguito il sogno; fugge dalla Berlino di Honecker dopo che un coetano, un ragazzo tedesco che come lui credeva in un mondo migliore, schiacciato da un sistema “stupido, paranoico e impossibile da amare” gli chiede, con voce rotta dall’emozione: “cosa possiamo fare? Hai un’idea di cosa possiamo fare?”.

Vale forse la pena precisare, ed è Pagani stesso a rivelarlo nelle prime pagine, che l’evocazione di tante fughe, nove vite come i gatti, è stata indotta da una ferita, proprio come nella canzone di Gazich: un vestito nuovo copre bene la mia ferita. Una ferita di memoria, uno di quegli scherzi che la vita a volte ci riserva, quando d’un tratto, a gennaio 2020, Pagani perde la memoria di sé e di ciò che è stato: “nomi, facce, episodi: tutto scollegato, senza ordine, senza identità e soprattutto senza senso”. Segue un lungo periodo di riabilitazione dopo il quale, dice “ero ancora in grado ragionare e immaginare, persino di ridere, e di gusto”. Questa autobiografia nasce insomma dal bisogno di mettere ordine in una memoria offesa, in un mondo che va ricostruito a fatica, un pezzo dopo l’altro:

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Ghe sarà anche la me mama
biondina a sedesani
ga sarà il mio babo
bafi e divisa blu
poi cantarem la luna
che vola soto il mare
che porta via i taù
che non ritorna più.

(da La neve de Natale)

Mauro Pagani, senza tema di esagerare, è un punto di riferimento della scena musicale italiana. Autore, a sei mani con Mogol e Franco Mussida, di uno dei brani che ha fatto la storia del rock in Italia, Impressioni di settembre, con quell’inesorabile crescendo di moog che ancor oggi mette i brividi (lato B di un 45 giri che presentava, sul lato A, una canzone di cui pure Pagani aveva scritto il testo, La carrozza di Hans); autore, a quattro mani, con Fabrizio De Andre’, di un disco come Crêuza de mä (di cui, non dimentichiamo, fu non soltanto il produttore e l’autore delle musiche, ma ne fu, di fatto, l’ispiratore: “inventiamoci una lingua, un grammelot di uomini di mare”, fu lui a suggerirlo a De Andre’); un produttore e direttore artistico che, negli anni, ha accumulato una serie di collaborazioni che non ha eguali; compositore per il cinema e il teatro (più di venti colonne sonore, a naso; ben cinque per Gabriele Salvatores); un musicista che a un certo punto si rimboccò le maniche, abbandonò i palchi del rock per dedicarsi, a partire dalla metà degli anni ’70, allo studio delle musiche di tradizione, dieci anni prima della nascita della world music (Crêuza de mä sarebbe stato registrato nel 1983, tre anni prima di Graceland di Paul Simon, il disco che sancì l’avvento della world music sul mercato del pop), quattro anni prima che il termine world music venisse coniato, e ben sei anni prima che Peter Gabriel fondasse la casa discografica Real World. 

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Fotografia di Roberto Priolo.

La cosa che più spicca in questo libro, necessità di fuga a parte, sono gli incontri. Se è vero, per restare alle citazioni canore, che la vita è l’arte dell’incontro (Vinicius de Moraes, Samba da benção), Mauro Pagani allora, oltre che musicista, si è rivelato anche un artista dell’incontro. Elenco delle frequentazioni a parte – da Lawrence Ferlinghetti a Moana Pozzi, passando per l’impressionante catalogo di musicisti coi quali ha collaborato o che hanno frequentato le Officine Meccaniche, lo studio di registrazione ritirato da Pagani nel 1998, il libro ci presenta una lista di personaggi eterogenea come poche – questo talento emerge in particolare grazie al suo lavoro di produttore. Scrive Pagani: “produrre un disco vuol dire diventarne il regista: proprio come un regista scrupoloso sceglie cast e luoghi di ripresa, cura ogni inquadratura, ogni fotogramma, così un buon produttore cura il peso di ogni nota e di ogni parola, analizza a fondo le qualità artistiche di un interprete, punta a metterlo nelle condizioni di sfruttare al meglio il proprio potenziale espressivo e soprattutto cerca di aiutarlo ad amplificare i propri pregi e a difendersi dai propri difetti.

Ognuno di noi, nella vita quotidiana, dovrebbe avere al proprio fianco un buon produttore”. L’arte dell’incontro, per un produttore musicale di certo, ma potremmo dire in genere, consiste dunque nell’assunzione di una responsabilità. La responsabilità di suggerire a un’altra persona la via da seguire, nel tentativo di cogliere non la propria, ma l’altrui verità. Un produttore musicale ha il non facile compito di sbozzare una forma dentro la materia grezza di un artista, coglierne la peculiarità e rivelarne la luce. Qualcosa di estremamamente delicato, una responsabilità che va affrontata, come sottolinea Pagani, “con grande cautela”, anche perché, una volta chiuso il progetto, l’artista dovrà poi essere in grado di abitare quella forma senza più ripiegare sulla materia grezza.

Scindere il musicista dal produttore, nel caso di Mauro Pagani, è difficile. A un certo punto, nella sua vita, in modo naturale, quasi come un’evoluzione necessaria, le due attività si sono sovrapposte e sono andate per così dire fondendosi. Apice di questo processo di trasformazione fu senza dubbio il lavoro svolto a fianco di Fabrizio De Andre’. Pagani conobbe De Andre’ in verità già all’inizio degli anni ’70, poco dopo essere essersi avvicinato al gruppo dei Quelli, prodromo della PFM, quando con gli amici fu chiamato negli studi della Ricordi a Milano dal compositore e arrangiatore Gian Piero Reverberi. Pagani si presenta in studio il giorno dopo la chiamata, la musica che sente gli sembra strana, “simile al repertorio che parecchi anni prima suonavo in chiesa con mio padre”. Chiede lumi agli altri musicisti e scopre che si tratta di un disco che rivisita i Vangeli. E l’artista chi è?, chiede Pagani. Fabrizio De Andre’, gli viene risposto. Replica di Pagani: “mi sembra uno strano, ma cazzo quanto è bravo”. Poi lo sguardo corre alla partitura che sta sul leggio: Maria nella bottega di un falegname (di Pagani la parte di flauto).

Dopo le registrazioni del disco La buona novella passarono degli anni. Tutto il periodo PFM, tournée fra De Andre’ e PFM compresa. Quando il cantautore era in studio a registrare il suo decimo disco, il disco senza titolo ma da tutti identificato come L’indiano, subito dopo il sequestro (citiamone una, e una soltanto, che dice di quei giorni), i due approfondirono la conoscenza reciproca. Nasce così un’amicizia che porterà a “quattordici anni di progetti che nessun altro in Italia avrebbe avuto il coraggio di realizzare”. Fra questi, due dischi fra i più importanti di De Andre’: Crêuza de mä e Le nuvole. Quasi superfluo raccontare del primo.

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Un disco dove la vasta cultura musicale di Pagani trovò un terreno ideale su cui fiorire, un disco al quale in molti si sono accostati provandosi a carpirne la magia, riuscendo però soltanto ad evocarne i contorni, non lo spirito, né il cuore. Non fosse stato per De Andre’ il disco avrebbe suonato in modo molto diverso. Pagani nel libro ha la bontà di riconoscere che, una volta composte le musiche, parlò a De Andre’ degli arrangiamenti, che lui immaginava “ricchi e pieni di note, eseguiti dai migliori strumentisti allora disponibili”. Risposta di De Andre’: “il disco è perfetto così, non c’è bisogno di inventare o aggiungere niente”. Un gran regalo, lo definisce oggi Pagani. Da figlio del prog ancora non era riuscito a scrollarsi di dosso l’idea di pienezza, di verbosità dentro cui era maturato musicalmente: “si mise fra me e ciò che avevo scritto, e mi impedì di rovinarlo”. Una bella lezione per il futuro produttore. Fra le regole fondamentali di De Andre’ ve ne sono due che Pagani ha saputo far sue: “tutto ciò che non è necessario è superfluo”, e anche: “se non sai cosa aggiungere, togli”.

Il contesto musicale nel quale Mauro Pagani si è formato, quello di certo rock della fine degli anni ’60, primi anni ’70, visto da fuori può apparire strettamente legato alla realtà sociale e politica dell’epoca. In grande parte lo fu, beninteso, e nel libro Pagani cita e contestualizza degli episodi precisi, in particolare l’irruzione di una decina di poliziotti nella casa in cui viveva con degli amici il giorno dopo il ritrovamento del corpo di Giangiacomo Feltrinelli sotto un traliccio di Segrate. Gli era stato fatto sapere che in questura era considerato una testa calda, uno da tenere d’occhio.

Nel libro però Pagani confessa anche quanto essere un musicista di rock nell’Italia nei primi anni ’70 fosse un’esperienza strana, e che “il dialogo con chi si era autoeletto ambasciatore del pensiero politico era sporadico e complicato”. Pagani lamenta in particolare il fatto che un musicista raramente veniva preso sul serio, e che il rock era guardato con sospetto, “soprattutto a sinistra della sinistra”, dove la chitarra elettrica era percepita come uno strumento dell’imperialismo: “per il miltante extraparlamentare medio (Lotta Continua compresa) l’ascolto del rock, soprattutto dell’hard rock, era sconsigliato e considerato segno di confusione e di debolezza”.

Nove vite e dieci blues non è soltanto il resoconto di una fuga, il racconto di come la fuga di un ragazzo di provincia si sia trasformata, nel tempo, in un percorso di profonda maturazione etica e artistica – Pagani lo dice bene nelle ultime pagine: “bisogna continuare a ricordare ai ragazzi che la musica è una lingua portentosa per raccontare sé stessi e che è un meraviglioso dono per la vita” – ma dice anche di come gli incontri abbiano davvero facoltà di trasformare un’esistenza, arricchendola e sbozzandola da quella materia grezza che ci impedisce spesso di esprimere ciò che siamo. Dopo De Andre’, fatale fu anche l’incontro con Francesco Guccini, il quale, a modo suo, si complimentò per il dono che Pagani aveva saputo fare proprio, quello cioè di essersi aperto al mondo: “te, che sei una troia, perché hai suonato con tutti e non con me?”, con tanto di erre arrotata.

Alla prima occasione fu cosa fatta. Adesso Mauro Pagani, ci dice, ha smesso di correre, e forse di fuggire. Cammina, “come un viandante placido e curioso”, guardandosi attorno “assaporando ogni secondo della mia nuova vita”. Sta imparando a suonare il violino da mancino, dal momento che la mano sinistra non sempre gli dà retta: “sto educando le mie mani a un futuro misterioso ma irresistibile da gatto mancino”. Nove vite, non sempre facili, non sempre scontate, ma condotte nel solco della scoperta, sul filo a tratti inafferrabile ma mai precario della musica.

Fabrizio De Andre’ e Mauro Pagani, Crêuza de mä

Bonus track: PFM, La carrozza di Hans, dal vivo, 1971.

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