Diario cromatico / Michel Pastoureau. Il colore del camaleonte

1 Agosto 2019

«Il camaleonte ha il colore del camaleonte solo quando si posa su un altro camaleonte»: è uno dei tanti paradossi ed enigmi del nuovo libro di Michel Pastoureau, Un colore tira l’altro. Diario cromatico 2012-2016, tradotto da Cecilia Resio per Ponte alle Grazie. La frase è una citazione da François Cavanna, scrittore e disegnatore francese, tra i fondatori di “Charlie Hebdo”. L’autore l’affronta così: la scienza, dice, cerca di spiegare il colore dell’animale analizzando la luce che riceve, la sua posizione e il suo orientamento e attribuisce la mutazione non tanto all’esigenza di mimetizzarsi quanto al voler esprimere aggressività (tinte scure) o intenzioni pacifiche (tinte chiare) verso altri animali; la policromia significherebbe corteggiamento. Poco convinto della scientificità di tali argomenti che si richiamano a un simbolismo piuttosto ordinario, il nostro storico del colore ricorre ai bestiari del Medioevo: il camaleonte vi è descritto come un animale ibrido e mostruoso; per molti autori nasce dall’accoppiamento di un cammello e di una leonessa, come indica il suo nome, si nutre d’aria e non ha sangue, ha paura di tutto e si nasconde cambiando colore per mezzo di un liquido interno che penetra su tutto il suo corpo oppure «guarda l’oggetto o la pianta più vicini a lui e s’impossessa del colore» (p. 51). Il fascino della zoologia medievale lascia intatta la battuta arguta di Cavanna.

 

 

Questo diario cromatico va dal 2012 al 2016 e, aggiunto al libro precedente, Il colore dei nostri ricordi, tradotto da Laura de Tomasi e pubblicato anch’esso da Ponte alle Grazie, completa un ciclo di quasi settant’anni, dal 1950 a oggi. Pastoureau dice di non annoiarsi mai: si diverte a osservare le persone e le cose, le vetrine, la pubblicità, la segnaletica stradale, le bandiere, gli emblemi, parla di letteratura, arte e cinema. La varietà degli argomenti, giustificata dalla struttura cronologica del diario, si risolve nello sguardo particolare dell’autore, nel carattere visivo della descrizione che a tratti diventa pittorica; la narrazione è brillante, spesso ludica, talora persino poetica. Il tema cromatico gli permette di passare da un argomento all’altro senza esigenze di sistema e questo fa pensare che anche gli altri scritti - forse tutti gli scritti - sul colore hanno la stessa caratteristica, a partire dall’antico Perí chromáton dello Pseudo-Aristotele fino a Goethe, Runge, Wittgenstein e Jarman.

 

In questo libro però è più decisa la componente comica e giocosa, autoironica innanzi tutto. Si sa che l’autore è un goloso, lo ha già scritto in passato, ma l’immagine di Pastoureau che a Lucca assaggia imbarazzato un gelato blu a forma di piede è esilarante, e ancor più a Lubecca, dove mangia una Marilyn di marzapane in costume rosso: pudico, scrive, comincia dai piedi. Non resiste davanti al cartello con la scritta ‘vernice fresca’ e si sporca l’indice di un brutto blu cielo, strappa dal letto di un hotel di Zurigo le dannunziane lenzuola nere e le nasconde, viene fotografato nudo per una rivista di dermatologia a causa di una strana malattia della pelle: lo storico del colore diventa famoso per l’immagine inquietante delle sfumature gialle, rosa e rosse della sua pelle. 

 

Come regalo ai bimbi degli amici Pastoureau sceglie sempre una scatola di colori: «cosa c’è di più bello di un campionario di colori? Bisogna rispondere onestamente: niente, assolutamente niente» (p. 94). Nella scatola i colori vanno, da sinistra a destra, dal bianco al nero; questi ultimi non sono definiti acromatici, ma considerati veri e propri colori perché accostati agli altri; in mezzo l’ordine è il seguente: giallo, beige, arancione, due rossi, due verdi, blu, viola, marrone. A parte il beige (p. 95, o grigio, p. 96), anche da noi, in Italia e in genere in Occidente, le scatole di colori - quando sono costituite di dodici colori - sono composte in questo modo. Si tratta di una classificazione che non ha nulla a che vedere con lo spettro di Newton, la cui sequenza è: viola, indaco, blu, verde, giallo, arancione e rosso, sette colori, possiamo aggiungere, come le note. È invece molto più simile all’ordine naturale del mondo antico e moderno prima del Seicento: bianco, giallo, rosso, verde, blu, viola e nero. Il viola, colore che Pastoureau odia e verso cui ha una vera e propria idiosincrasia, stava quindi tra il blu e il nero anche perché il marrone-bruno non era preso in considerazione. In Occidente quindi i colori fondamentali sono: bianco, rosso, nero, verde, giallo e blu; quelli secondari: rosa, arancione, viola, grigio e marrone.

 

Il colore non è quindi per lo storico francese luce o materia, non è riducibile a una sensazione, a una percezione, è prima di tutto «un’astrazione, un’idea, un concetto» (p. 12). È il modo in cui, attraverso il linguaggio, la cultura, la prassi sociale e la creazione artistica, l’uomo organizza la sua visione del mondo, condizionato dalla simbologia e dall’immaginario. Così il colore assume una dimensione affettiva, poetica, estetica, onirica e acquista significato soltanto se associato o contrapposto ad altri colori; per questo un colore tira l’altro, non viene mai da solo, come dice il titolo francese. 

 

Intanto ci aspettiamo il prossimo libro sul giallo. Pastoureau scrive di essere un po’ incerto, teme di ripetersi, ma già suggerisce qualche spunto. Nelle società contemporanee, scrive, il giallo è un colore discreto, poco simbolico, mentre nel mondo antico era importante e associato al sole e all’oro. Nel Medioevo diventa ambivalente: da una lato «il giallo cattivo, quello dello zolfo demoniaco e della bile amara», segno di menzogna, tradimento e follia, riproposto nella stella gialla degli ebrei, dall’altro «il giallo buono, quello del miele e dell’oro», il primo tende all’acidità del limone, il secondo vira verso l’arancio (p. 209). In Oriente, dove i pigmenti gialli sono da sempre stati più diffusi, il giallo ha sempre avuto una connotazione positiva: in Cina è stato il colore dell’Impero, in India il colore del buddismo. Compito difficile dunque scrivere un libro sul giallo, ma certo noi lo aspettiamo.

 

Il libro si conclude con una citazione di Wittgenstein, il filosofo che per tutta la vita, dalla crisi del Tractatus fino agli appunti degli ultimi anni  di vita, è tornato sul tema del colore, come ha dimostrato lo studio filologico di Josef Rothhaupt, Farbthemen in Wittgensteins Gesamtnachlass (Beltz Athenäum Verlag, Weinheim 1996). È una citazione che Pastoureau riporta in tutti i suoi libri cromatici e che riafferma l’enigma della grammatica del colore, dovuto alla nostra incapacità di spiegare con altre parole il significato di termini come rosso, blu, nero e bianco.

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