Milano, via Padova / Paesi e città
Ho traslocato. Via Padova. Nella casbah, ad Harlem, nel cuore multietnico di Milano, luogo di violenza, omicidi, guerriglia urbana, paura, insicurezza, dove non incroci un italiano sia di giorno che di notte, dove le nostre donne hanno paura a camminare, dove è un continuo frantumare le vetrine dei negozi, una via che è uno spaccio di stupefacenti a cielo aperto, dove c’è una infinita lotta aggressiva fra bande per il possesso del territorio. Almeno: così mi dicono i giornali, i politici locali (e localistici), i luoghi comuni. Io mica me ne sono accorto.
Mi è sempre piaciuta questa parte di città. Via Padova è una traccia storica nel territorio, identificabile fin dalle mappe del catasto teresiano. Un rettilineo di circa quattro chilometri, un asse di penetrazione urbano, un raggio topografico che parte da piazzale Loreto e si disperde in quella che fu la campagna padana e ora è ancora città, per chilometri e chilometri. Proprio di fronte a casa mia passa un lacerto di pista ciclabile, una specie di illusione ottica che appare e scompare come tutte le piste ciclabili milanesi che nascono in posti improbabili e muoiono improbabilmente in modo repentino. Ma io lo vivo come un invito. Cavalco la bicicletta e ci do di pedale.
Loreto, piazzale, neppure piazza, spazio invivibile, snodo viario e autentico portale d’ingresso alla città borghese. Toponimo cupo, dove tutti si chiedono dove abbiano appeso per i piedi il Duce e nessuno dove furono fucilati i partigiani antifascisti. Il piazzale pullula di una vita in movimento, di gente che va, che viene, che si sotterra nei cunicoli della metropolitana oppure che attraversa temeraria l’asfalto sistematicamente intasato di autovetture. Me lo lascio alle spalle e mi inoltro nel quartiere. Passo davanti al mio panettiere egiziano, lo saluto. Poi il ristorante cinese sotto casa (ottimo, con un curioso doppio menù: quello che tutti conosciamo – involtini primavera, ravioli al vapore, etc. – e un altro con piatti mai sentiti nominare. Ogni volta ne provo uno, stupendomi). Poi locali peruviani, chiese avventiste filippine, parrucchieri cinesi, kebaberie pakistane. “Ma chi ci va in quei posti?”, mi sono sentito chiedere da un esimio politico, securitario e starnazzante, di fronte a una telecamera di una televisione locale. “Io”, ho risposto candidamente. Il mio parrucchiere è turco, per dire, quello di mia moglie cinese.
C’è una cosa che non funziona in questi difensori della meneghinità d’accatto. Si sono disinteressati di gestire una mutazione antropologica che era in atto da decenni in Europa - colpevoli perciò d’ignavia - convinti che il dio mercato avrebbe risolto tutto. Ebbene: proprio nel nome del mercato questi immigrati cinesi hanno tenute alzate quelle serrande che chiudevano una dietro l’altra sotto i colpi mortali dalla grande distribuzione degli ipermercati. Sono stati più capitalisti di noi, più bravi, con quell’attaccamento al lavoro degno dei brianzoli d’una volta; e per questo non li sopportiamo, cercando di imporre protezionismi dal vago sapore razzista, camuffandoli da welfare. In un decennio, quello dell’euro, dove i prezzi sembravano impazziti, questi negozi al dettaglio giocando al ribasso sono diventati realmente concorrenziali, ma soprattutto hanno permesso la sopravvivenza minima a chi proprio non ce la fa economicamente: i poveri esistono, piacciano o meno nella città della moda e del design. E pure loro vogliono mangiare, bersi un caffè o tagliarsi i capelli a prezzi abbordabili.
Ci penso girando in bici al Parco Trotter, un sogno educativo d’inizio secolo - il Novecento - dove la collettività creava soluzioni innovative per l’emancipazione dei cittadini più poveri. Una scuola immersa nel verde, dove poter fare lezione all’aperto, sotto un sole generoso. Oggi buona parte di quel patrimonio edilizio - che venivano a studiare ammirati da mezzo mondo - è ridotto a rudere, come lo spirito solidale di questa città che resiste a fatica, simile a un monito. Ma il parco è frequentatissimo, da famiglie, coppiette, bambini. Pedalo e mi sento chiamare da un balcone prospiciente il parco. “E tu che ci fai qui?” chiedo. “Ci vivo” dice la voce. È Andrea, un amico scrittore di noir, non sapevo si fosse trasferito pure lui da queste parti. Lo saluto, faccio due pedalate e di fronte alle altalene mi chiama qualcun altro. Incredibile, sembra che frequenti questi luoghi da decenni, non da pochi mesi. Questa volta è Giorgio, un poeta. Non può essere un caso, gli dico. “Carmina non dant panem”, mi risponde ironico. “Non è un caso, infatti. In questo quartiere vivono molti scrittori, poeti, artisti, musicisti. Data la pessima nomea i prezzi degli affitti sono più bassi e perciò più abbordabili per chi vuole vivere di cultura, che, come è noto, di soldi ne ha sempre pochi.” C’è quasi da ringraziare l’allarme sociale gonfiato ad arte da chi cerca i voti alle amministrative se i miei vicini di casa sono così. Poteva andarmi peggio.
C’è il sole, vado oltre. Passo in rassegna quartieri di case popolari degli anni Trenta, poi complessi edilizi costruiti negli anni del boom, più mi allontano e più la città si riempie di edifici a me più contemporanei, in una sorta di attraversamento cronologico dell’edilizia sociale meneghina. Ogni tanto appaiono bolle spazio-temporali: residui di borghi di campagna lombarda, arroccati sul tracciato del naviglio Martesana. Là dietro c’è la Casa della Carità di Don Colmegna, presidio solidale nella città indifferente. Via Padova si piega, sfrangia, muore sommersa dai cavalcavia di Cascina Gobba. Io decido di imboccare via Idro. Poco più avanti c’è il campo nomadi. Ci andai con mia figlia, qualche anno fa, a parlare con loro, a vedere se per davvero rubavano i bambini, loro che l’unica cosa che hanno in abbondanza sono proprio i figli. Quasi quasi mi fermo e prendo fiato. È gente ospitale, un caffè non me lo hanno mai negato.