Speciale
Negare o svelare
Nonostante la memoria sia in continuo divenire, nei giorni a lei dedicati sembra prevalere ciò che è stato: il monito e il racconto della Storia e delle storie.
Se la memoria fosse privata dell’ambivalenza che ogni parola – come ogni vivente – porta con sé, apparirebbe tutto; anche ciò che esiste e si tende a non vedere (probabilmente per abitudine). E la sua narrazione aperta alla contemporaneità diverrebbe un incessante progetto per la continua rielaborazione, possibile e necessaria.
Celare ciò che esiste con valore significa celare la contemporaneità nella sua pienezza; sembra una pratica diffusa la sua riduzione ovunque a modus, moda; a volte abito; altre maschera. Così, contenuti e contesti, ma anche le età del mondo e dei corpi, sembrano tendenzialmente avvolti da un’apparenza che copre senza svelare, quindi senza prendersi cura. In ogni caso, l’“intima oscurità” della contemporaneità (G. Agamben) nutre i viventi e la loro vitale coincidenza di forma e struttura, di interno ed esterno; lo stesso accade per quei lavori che li sostengono e animano. Anche l’architettura rientra in questa dinamica: la sua stessa parola, portando con sé la continua costruzione dell’origine, simultaneamente originaria e originale, rievoca la necessaria rielaborazione, oltre l’esecuzione. Consapevoli che non tutto ciò che si costruisce, edifica, quando si depositano edifici ridotti a maschere, o oggetti, o icone – in ogni caso a contenitori distaccati dal contenuto e dal contesto esistente – si persegue un’ingegneria del consenso di cui la nostra società e cultura sono permeate a partire da quanto introdotto da un prodotto della modernità (Z. Baumann): la Shoah.
Agevolare la possibilità, per i singoli esecutori, di negare responsabilità importanti di fronte a discipline fondanti l’essere umano, fa dimenticare che tutto, in ogni caso, lascia impronte nel nostro corpo, e che, ancora oggi, dediti a salute, benessere e sostenibilità, ci si occupa per lo più di benessere che bene-stare non è, di edutainment e entertainment che, più che azioni, divengono negazioni di altro, aprendo a quotidiane rimozioni e cancellazioni.
I conflitti negati si insediano nell’umanità che apparentemente ne è senza: essa diviene l’intima sede di conflitti generati da altri. Senza accorgersene.
Ecco che la negazione rende visibile la sua ambivalenza; un’altra parte, anch’essa invisibile, che non ha ancora un nome, ma esiste.
C’è una parola per indicibile e una per ineffabile, in qualche modo a significare l’ambivalenza di una concordanza inesprimibile, come accade per ogni ideografia o progetto che in questo modo, indagando la propria origine, permettono la rielaborazione.
L’indicibile, in assenza di discriminazioni, richiama l’ineffabile, e insieme, nell’inscindibilità degli opposti, riconoscono la possibilità della rielaborazione, come il codice naturale da sempre richiama: la terribilità e la bellezza dell’uragano; la vita che, iniziando, evoca la morte; ogni dì che nasce nella luce del giorno e apre al buio della notte, ristorando; ogni stagione riappare, come ogni inspiro dopo l’espiro; le stesse vitali modalità ovunque, sempre differenti, elaborano la meravigliosa complessità. E il ciclo continuo “si salda eguagliando il fine all’origine”.
L’invisibile racchiude tutto ciò che esiste e, o non può vedersi, o non può essere visto, ma non per questo non esiste. È nascosto o viene nascosto; intenzioni ben differenti; di svelamento ed eventualmente archeologiche nel primo caso; di mascheramento se non addirittura di nascondimento, quindi ingannevoli, nel secondo caso, dove qualcosa viene sottratto alla vista. Ciò che è occultato esiste, ma viene coperto con un intendimento: renderlo introvabile perché possa essere negato.
Nel tempo delle giornate della memoria – a cui gennaio è dedicato da pochi lustri –, alcuni memoriali svelano come una certa parte di progettata negazione produca nascondimento, falsificazione e inganno. Nella sua accezione reattiva, la negazione dimentica la sua accezione più ampia e il non dire o il dire che una cosa non è (quindi non esiste) diviene il fondamento di ogni crimine contro l’essere umano.
L’incredibile ora è che nelle giornate della memoria pure qualcosa non si dice, ovvero una questione fondamentale nei memoriali e in ogni architettura, che nasce da ciò che esiste e resiste con valore: il progetto della memoria. Questo invisibile progetto rende visibile il potere di progetto.
Combattere la “cecità emotiva” (A. Miller) generata da una forma di difesa dalla violenza e per questo capace di generare altra violenza nell’indifferenza, significa attraversare ciò che esiste e che continua a divenire, con una pratica artistica in cui l’indicibile passa alla rielaborazione attraverso l’ineffabile uso, non solo poetico, ma funzionale, a beneficio dell’essere umano.
La negazione o riduzione della pratica dell’architettura a moda a scapito della vitale complessità della contemporaneità, genera la discriminazione degli opposti (come indicibile e ineffabile, ma anche interno ed esterno), e separa. Nei modi e nel tempo. Ciò che esiste sembra sconnesso da ciò che è stato e da ciò che sarà. E ciò che separa, genera appartenenze, che a loro volta generano l’ingegneria del consenso e le sue forme di potere come dominio, comprendendo alcune forme di architettura.
Quando il potere diviene diritto, accade la negazione della generatrice ambivalenza.
A partire da ciò che esiste con valore, il progetto capace di dire di no alla discriminazione in opposti, attiva potere come possibilità di ognuno, grazie ai sensi che elaborano e incarnano. “L’aiuto degli occhi è importante, tanto quanto l’aiuto di ciò che da essi viene visto... le dita hanno sempre saputo... rivelare l’occulto... Il cervello... è sempre stato in ritardo per tutta la vita rispetto alle mani, e anche ai nostri giorni, quando ci sembra che le abbia oltrepassate, sono ancora le dita che devono spiegargli le investigazioni del tatto, il fremito dell’epidermide... l’abbecedario in rilievo del mondo. E i colori.” (J. Saramago).
Interviene il potere dell’immagine: il cervello non dà importanza alla negazione; non la considera; se si dice “non pensare all’elefante”, l’immagine dell’elefante appare. Allora dare valore alle parole, al potere immaginifico torna fondamentale, anche per lo sguardo proiettato in avanti, caratteristica di alcuni viventi (non è così per tutti); e questo proiettarsi in avanti dell’essere umano richiede progetti edificanti, capaci di fare idea, e non distruttivi, capaci di fare tabula rasa.
Dalla cancellazione, dalla negazione, dal nascondimento per inganno, nasce il progetto perché tale era – del campo di Auschwitz, dove un gradino con uno scuretto – quindi progettato – immetteva in una camera a gas; così come dal progetto di una finta stazione con finti orari si accedeva al campo di Treblinka.
L’impronta lasciata – atto potenzialmente salvifico, se viene percepito – dopo il progetto di cancellazione del campo di sterminio polacco da parte dei nazisti, ha permesso nel 1964 un progetto ancora contemporaneo, perché poetico, senza parole, senza reperti deportati da altri luoghi, costituito dell’esperienza complessiva della sparizione dei campi preservata dalla natura. Per risvegliare proprio in questo luogo, la possibilità del ricominciamento, non ricostruirono i contenitori di ciò che fu (in ogni caso falsificazione didascalica), ma riportarono tutto al grado zero della cultura, ripartendo da un silenzioso popolo di menhir che sembra in movimento.
Siamo grati al linguaggio della preistoria: le sue vitali forme archetipiche attivano empatia, poesia, espansione attraverso il simbolo.
Progetto della memoria significa partire da ciò che esiste e può resistere con valore. Può assumere forme sostanzialmente differenti, ma comunque privilegia l’incarnarsi dell’esperienza attraverso l’eloquenza di forme trasformative. Il progetto della memoria è riconoscibile anche nel Memoriale della Shoah di Milano che riparte dallo svelare il luogo come reperto per rendere presente l’attualità dei treni in movimento attraverso lo stesso suono – ora come allora – deformato dall’enormità dello spazio e dalla sua oscurità. Così, in Yad Vashem, a Gerusalemme, un atto a scala geografica fa coincidere il percorso del visitatore e il percorso storico attraverso un’esperienza anche simbolica.
In ognuno di questi tre casi (Treblinka attraverso l’assenza, Milano attraverso la presenza, Gerusalemme nonostante la mancanza di tracce degli accadimenti) il progetto della memoria trasforma la distruzione in capacità di rielaborazione.
“Cose rare o cose belle, qui sapientemente raccolte, istruiscono l’occhio a guardare... Amico, non entrare senza desiderio” sono le parole di Paul Valery scelte dal Musée de l’Homme di Parigi: il progetto della memoria è trasformare il visitatore, dopo due Guerre Mondiali, in amico.
Se tutto, anche la negazione, costruisce immagini, quale immagine si vuole vedere in un memoriale della Shoah della contemporaneità?
Sarebbe qui complesso risolvere la questione che questa domanda apre, ma si osservi come più spesso le immagini diffuse che popolano chi intende visitare un memoriale siano immagini che non si vogliono vedere, fatte dai carnefici alle vittime; eppure ne esistono altre – sempre che siano necessarie – che sovvertono questa dinamica; oppure si può lavorare al progetto della memoria senza mostrare documenti, affidati ai libri e alle guide, garantendo la continua ricostruzione o rigenerazione e ampliamento ed espansione di sé a partire dalla Storia e dalle storie poeticamente evocate ed esperite in alcuni memoriali.
Ampliando questo sguardo, quale immagine si vuole vedere di questo nostro tempo?
Ciò che esiste è in parte invisibile. Potrebbe restituire possibilità necessarie al nostro tempo, alla contemporaneità di tutti i tempi, sempre riuniti, edificando continuamente la memoria come progetto in divenire, dato che il futuro, come il passato, non esistono se non come interpretazioni esecutive di pochi (promotori, committenti, storici, architetti, direttori di musei o memoriali, media, ...) e non sempre necessarie.
Edificare l’adesso può essere il continuo movimento promosso; permetterebbe di esistere, di stare saldi e stabili ovunque, pur implicando l’incessante vitale movimento proprio di ogni organismo e della sua continua ricostruzione di sé; anche nel lavoro dell’architettura. Nonostante e oltre la sua esecuzione, considerata la sua lunga durata appartenente all’investimento umano ed economico, il progetto può divenire organismo quando lavora senza limiti di tempo e di spazio, in connessione col tutto; interno ed esterno, ciò che è stato e ciò che sarà. L’architettura permette di trasformarci, di condurci al di là della forma quando il problema – che si pone sempre come base per avviare un progetto trasformativo – non è più ciò che si presenta, ma continua ad aggiornarsi nel potere del progetto: la sua contemporaneità va oltre ogni moda. Ciò che esiste, per resistere, diviene costantemente, ponendosi in continua relazione.
La sua negazione è sinonimo di separazione. L’affermazione, peraltro, esprime un certo potere che è modus o moda; quindi passa; non è più progetto economico ovvero gestione dell’abitare – economia, da oikos, abitare, per estensione patrimonio, e nomos, la sua regola, la sua gestione – ma il suo declino nel progetto finanziario, termine tendenzialmente oggi negato nel suo significato originario che vedrebbe la fine, la conclusione di una controversia, e solo in tempi più recenti si riduce – dicendo di no a una parte di sé – in prestazione pecuniaria.
Da questa angolazione osserviamo la sostanziale negazione di ciò che esiste, ovvero della relazione.
L’invisibile da sempre contribuisce al potere del progetto e del lavoro dell’architettura. Rendere visibile e presente, rappresentare, da sempre è la questione dell’architettura; nuovi poteri collocano icone o oggetti di design disconnessi contribuendo, distratti alla dislocazione, all’assenza di estetica, di attivazione dei sensi, di movimento, di crescita e di continua ricostituzione di sé. La proposta di spettacolarizzazione ovunque, tende a negare (o ad affermare) un punto di vista, dimenticandosi di una parte sostanziale di ciò che esiste: l’invisibile.
Il progetto della memoria suggerisce la creazione di valore a partire da ciò che esiste che, se diviene continuamente evidente, aggiornato e manifesto agli occhi di tutti, può orientare, nutrire e a volte anche sostenere questo lavoro di continua incessante ricostruzione di ognuno. Questo sembra il lavoro dell’architettura come di ogni pratica artistica. L’architettura diviene organismo capace di esistere e resistere, modificandosi al tempo stesso, senza modifiche sostanziali nello scorrere del tempo.
Ciò che esiste è quindi nascosto? Oppure è visibile?
Negare parte dell’essere o del modo di essere di una persona o di un evento o di una architettura diviene un meccanismo di difesa di alcuni.
E la domanda si amplia: è nostro ciò che vediamo?
Per svelare l’invisibile che in ogni caso ci forma, senza cedere e assumere, come un anestetico, l’interpretazione di alcuni, si attiva l’estetica svelando ciò che esiste, mettendo in moto la complessità dell’esistere, di ognuno e di tutti, ben oltre l’essere o la sua riduzione e negazione, l’avere.