Yoram Kaniuk, Adamo Risorto / Nel campo chi è l'uomo?

27 Gennaio 2018

“Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”, scriveva Henri Bergson in quel suo piccolo testo sul riso che, beffardo, apriva il secolo delle due guerre, delle lacrime e della più atroce disumanità.

 

Una risata che accompagnerà il fumo di migliaia di corpi, evaporati oltre i ghigni di labbra disciolte e dissolte nei gelidi venti dell'est Europa, cristallizzati in frammenti nevosi eternamente fluttuanti sul candore mancato di un'umanità da se stessa assassinata.

 

Il più grande nemico del riso è l'emozione, diceva Bergson. Non si può ridere di chi ispira compassione o affetto, bisogna “far tacere la pietà”, disidentificarsi dalla vittima, metterla a distanza. E disumanizzarla, anche, “introdurre qualcosa di meccanico in ciò che è vivente”.

 

Rendere un uomo un cane, ad esempio. Farlo mangiare dalla stessa ciotola di un Rex a quattro zampe, togliergli la parola, il simbolo primo del suo essere uomo, riducendolo a mero suono, a ringhio mansueto. È quello che succede ad Adam Stein, protagonista di Adamo Risorto, celebre libro di Yoram Kaniuk, già edito da Einaudi nel 2001 e appena ripubblicato da Giuntina.

 

As-soldato come clown anti-panico all'ingresso delle docce per far ridere gli ignari condannati a morte, per rasserenare le loro ascese di massa, per immortalare i loro ultimi sorrisi. Per non dire addio a nessuno, nemmeno a moglie e figlioletta, in fila con il resto dei deportati verso il silenzio. E poi via, a scodinzolare per il piacere perverso del Kommandant Klein, per il suo salvatore della pelle, per il suo giustiziere interiore.

 

Non si esce vivi dal campo, al massimo si respira ancora. Ma quei numeri blu incisi nella carne cancellano il nome. Adam diventa tutti i nomi della storia, Adam diventa Herbert, l'alter ego di un'identità perduta, bruciata senza cenere. Adam è un vagito di una residua civiltà, come tutti gli altri superstiti – se così si possono definire – riuniti insieme a lui nell'Istituto di Riabilitazione e Terapia eretto alle porte del deserto di Arad, palcoscenico del romanzo di Kaniuk.

 

È la follia, ci si potrebbe chiedere con Foucault, a distorcere i volti, a disumanizzarli, o è forse vero il contrario? Che laddove esiste una qualsivoglia forma di privazione di umanità, di soggettività, non potranno che esserci vuoto e disgregazione. Anime annaspanti che esalano un corpo di artaudiana memoria, senza nemmeno più organi. Svuotati del passato, mangiati vivi da una reminiscenza sbocconcellata dalla rimozione. Lische di ossa di qualcun altro.

 

Quale cura, quale guarigione possibile? Nessuno tra i luminari della psichiatria e della psicoterapia che si accalcano nell'Istituto riesce a far nulla per Adam, il pagliaccio folle e delirante, sempre in bilico tra la vita e la morte, al quale però ognuno suppone un sapere imperscrutabile. Il messia, l'Adamo risorto.

 

Cosa si è quando si può essere ogni cosa, quando si è stati così a lungo qualcosa di macchinico, di alieno, per suscitare il riso del proprio carnefice? Dove sta la realtà e dove la finzione? Dove il soggetto, l'uomo?

 

 

“Noi recitiamo in uno spettacolo disertato tanto dal regista quanto dall'autore, siamo rimasti soli. Non c'è nessuno cui rivolgersi. Chiedere. Appellarsi. Ma il calare del sipario è assolutamente proibito. Perché allora saremmo liberi, ma non più cavalli… cani… così ci è dato di essere pazzi o sovrani, primi ministri o cani. Il teatro matura nei cuori ubriachi. C'è un'unica via di scampo. Un'unica strada per mettersi in salvo: ridere. Perciò sono stato un pagliaccio. Se non fossi stato capace di ridere, laggiù, da Klein, non sarei stato in grado di, e sarei morto di, e così tutti. [...] Non c'è alternativa. Dire a noi stessi 'tu sei una caffettiera', ed esserlo davvero, borbottare, bollire, fischiare, strillare, affondare nel proprio fango, pizzicarsi il sedere e provare a essere un cane, vendere azioni sulla luna, ridere. Sempre, costantemente, per l'eternità. Questo è lo scopo.”

 

Essere, non fingere. Incarnare, non recitare. Abbaiare, non parlare più. Smettere per un attimo di credere che ci sia una Verità dietro le maschere, una realtà da qualche parte, da scovare oltre il sipario. Non c'è nulla dietro la finzione. Non c'è un al di là o al di qua della scena del mondo, così come non c'è un preciso confine da varcare per diventare pazzi.

 

Per Basaglia la follia è una condizione umana, presente in noi quanto la ragione e folle proprio perché pensata attraverso le categorie razionali, che bollano come irrazionale tutto ciò che vi si discosta.

 

Ma nel campo di Auchausen, dove una SS impettita tiene un uomo al guinzaglio per dilettarsi nella noia di una quotidianità ripetitiva, acre e puzzolente, chi è il pazzo? E soprattutto, chi è l'uomo? Chi ride e chi fa ridere?

 

Le parti si confondono, i ruoli sfumano, le parole guaiscono.

 

Il cane-pagliaccio e l'omuncolo-Dio, avvinghiati ossimoricamente in una danza macabra e priva di senso, al termine della quale resteranno irrimediabilmente ed eternamente soli.

 

E quando Adam scapperà dall'Istituto – portando i compagni, gli altri folli resti della Shoah, con sé nel deserto – alla disperata ricerca di Dio, troverà soltanto l'eco allucinata del buon vecchio Kommandant Klein che, ridendo, gli implorerà, vanamente, di ucciderlo. E “non c'è niente di più terribile di Dio che ride”.

 

Ancora Bergson. Nessuna compassione, nessuna pietà. La caffettiera continua a bollire, il cane mastica il suo show. C'è un'uscita possibile dalla disumanizzazione, che non pretenda il crollo del sipario, ma la restituzione di una soggettività?

 

Adam-Diogene, abbandonato il suo Dio tra una sabbia troppo fine per essere afferrata, scorge l'uomo, scorge se stesso. La resurrezione avviene. Adamo, alla fine, risorge. E risorge dalle ceneri di un bambino-cane come lui, di un'altra creatura latrante nella quale specchiarsi e ri-scoprirsi uomo.

 

Come nel finale dello Zarathustra nietzschiano, in cui la forza dell'oltreuomo sta nella risata del fanciullo, nel gioco, tra umanità e animalità. Nelle tre metamorfosi, lo spirito diviene prima cammello, pronto a sopportare ogni peso, poi leone, emblema di una forza assoluta, e infine bambino, che, con la sua candida risata, apre a un nuovo inizio, a “un sacro dire di sì”. Dio è morto, dice Nietzsche, ma Adamo, l'uomo, è risorto. L'ideale, così a lungo cercato, è rimasto sepolto sotto la sabbia di Arad, è rimasto incastrato nei camini di Auchausen. L'uomo, però, è passato attraverso cani, cammelli e leoni, per tornare ciò che, forse, è sempre stato: un bambino che ride, di una risata non comica, ma finalmente innocente.

 

Così, Adamo e la sua progenie, di nuovo schiena contro schiena.

 

“Il bambino non si voltò verso di me. Sapevo che stava piangendo. Gli domandai: 'pensi che l'amore sia onnipotente?' e fece un cenno con il capo, su e giù. Abbaiai dolcemente e risi. Non si voltò verso di me. Tremava. Le sue mani mi cercavano. Gli tesi la mia, lui la serrò nel pugno, ma senza ancora voltarsi. Restammo in quella Terra di nessuno. Da quel momento in poi riuscimmo solamente a sfiorarci con l'estremità delle dita, come tutti gli esseri umani. Solo nei tempi bui della follia potevamo toccarci con il battito del cuore, sentirci l'anima strofinando la punta del naso.”

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