Annemarie Schwarzenbach: dalla parte dell'ombra
“Forse ho un destino. Forse è vicino e lo ignorerò”, lasciandolo volare via tra la polvere che le ruote della Ford fanno alzare in aria, su una strada qualunque di un paese qualunque, su un tempo eterno e immobile come quello dell'altrove.
Nel 1929, quando Annemarie Schwarzenbach scrive queste parole – tratte da La notte è infinitamente vuota – il destino le sta ancora strizzando l'occhio: un destino roseo, in tinta con lo sfarzo borghese della sua famiglia, una delle più facoltose della Svizzera di quegli anni. Figlia prediletta di Renée Schwarzenbach-Wille – discendente dei Bismarck – con la quale Annemarie avrà sempre un complicato rapporto simbiotico, la giovane cresce sotto l'egida padronale della madre, che la vuole sana, sportiva e tenta in ogni modo di allontanarla dalla sua passione letteraria. Ma la “padrona di Bocken” – come Erika Mann definirà ironicamente Renée – non ci riesce, non ci può riuscire, nemmeno organizzando eventi mondani con i più grandi artisti dell'epoca – da Arturo Toscanini, a Richard Strauss, fino ai discendenti di Richard Wagner. Non è quello il posto di Annemarie, del suo spirito nomade e inquieto, che tenta e tenterà per tutta la vita – senza mai davvero riuscirci – di allontanarsi da sua madre e dalla mentalità filo-nazista dei suoi consanguinei.
L'incontro che cambierà irreversibilmente la sua esistenza avviene il 16 dicembre 1930, quando assiste a Zurigo a una conferenza tenuta da Erika e Klaus Mann, i due enfants terribles del Mago della letteratura tedesca Thomas Mann. Erika e Klaus incarnano per Annemarie quell'altrove che, solo, è in grado di sgretolare le mura della sua maestosa casa di Bocken. Sono pura alterità intarsiata di letteratura e di viaggi, corpi materici e spiriti evanescenti, avvolti in una nube di possibilità. Da poco tornati da un Viaggio intorno al mondo – di cui parlano nell'omonimo libro che racchiude le tappe del loro cammino tra Oriente e Occidente – i due giovani rimbalzano tra le capitali europee, da Zurigo, a Parigi a Berlino. Lui, critico teatrale, saggista e romanziere, omosessuale dichiarato, figura dissidente e dirompente della Berlino bohémien di quegli anni. Lei, attrice e giornalista dal fascino androgino, simbioticamente legata al fratello, col quale porta avanti la sua battaglia antifascista. Annemarie non può che restarne affascinata, trasformando il binomio-Mann in un triangolo vorticoso e indissolubile, fatto di amore, droga e cultura. Gli amici di Bernhard – romanzo che Annemarie scrive nel 1931 – porta le tracce di questo incontro: il libro pullula di triadi sentimental-amicali che si compongono e si scompongono fino a creare un unico grande corpo fatto di tanti arti, voci e nomi diversi.
La lotta politica di Erika e Klaus diventa la sua, tanto da portarla a opporsi pubblicamente alla famiglia, in occasione di uno spettacolo del cabaret satirico fondato da Erika, il Macinapepe, in cui una canzone mette alla berlina lo zio di Annemarie, il comandante Ulrich Wille. Per l'affetto adorante che prova per i Mann e soprattutto per Erika – che è e sarà per tutta la vita il grande amore di Annemarie – la piccola “Mirò” – come soleva chiamarla Klaus – si schiera, affrontando la rabbia della madre per questa sua sconveniente amicizia con i Mann. Ma questa misera presa di posizione sui giornali svizzeri a Erika non basta: Erika vuole da Annemarie un impegno concreto e senza compromessi, una presenza totale, un'energia costante, tutte qualità che Mirò vorrebbe avere e non ha. È il 1933 e Hitler viene nominato Cancelliere. L'amicizia stellare tra Annemarie e i Mann è a un bivio, che sfocia in due significazioni opposte della parola esilio. Oriente e Occidente incarnano due concezioni politiche ed esistenziali diverse, due binari paralleli di un'azione che, pur essendo forse originariamente la stessa – una ricerca, una presa di posizione con se stessi – è caratterizzata da vettori opposti. Restare per evadere o evadere per restare: questa la grande differenza tra i Mann e la Schwarzenbach, questo il “coraggio e l'insicurezza” con cui Klaus nei suoi diari – La peste bruna. Diari 1931-1935 – dipinge Annemarie, ma che caratterizza anche lui ed Erika. Loro restano, lei parte – ma forse, metaforicamente, loro partono e lei resta – dove il restare e il partire non implicano un luogo fisico ma una dimensione d'esistenza, di risposta alla propria personalissima questione interiore.
Per Annemarie la partenza verso l'Oriente – in primis la Persia – è una perdizione e una redenzione, un tentativo di ritrovarsi, di abbandonare tutti quei nomi che l'hanno identificata, etichettata, ghettizzata, seppur nello sfarzo della borghesia intellettuale che l'ha sempre in qualche modo cullata, diversamente accettata. Ma a lei, al contrario dei Mann, quei nomi stanno stretti; quell'identità – anche quella antifascista che si sente intimamente addosso – è per lei qualcosa di effimero, che non sa sostenere, che le si sgretola tra le dita. Parte, per scriversi e riscriversi, per de-stabilirsi e de-stabilizzarsi, per scoprire culture e lingue nelle quali non riconoscersi. Il suo modo di restare, di non esiliarsi mai del tutto, è la scrittura. I suoi reportage di viaggio, i suoi articoli e le sue fotografie immortalano un'altra realtà possibile, un'umanità diversa da quella che in Occidente sta producendo odio e morte in nome di qualche folle ideologia che, da laggiù, dall'altrove, perde ogni senso e ogni logica.
Negli anni successivi – mentre i Mann partono per gli Stati Uniti, dove continuano le loro lotte politiche tra teatro e scrittura – Annemarie si spinge sempre più dentro quell'inferno dantesco – più volte da lei citato – della propria inquietudine. Nel periodo in cui Erika lavora a Quando si spengono le luci. Storie dal Terzo Reich – testo articolato in dieci racconti di gente comune alle prese con la banalità del male –, Annemarie parte per l'Afghanistan insieme alla scrittrice e fotografa Ella Maillart, promettendole che in questo viaggio si sarebbe ripulita dalla sua dipendenza dalla morfina – dipendenza, questa, che aveva portato più volte Annemarie in cliniche di disintossicazione, nel tentativo di superare questo ennesimo fantasma mortifero.
Le due donne sono probabilmente le prime a percorrere da sole, a bordo della Ford di Annemarie, una rotta che da Herat le porta fino a Kabul, tra strade e deserti, polvere e sabbia, volti di uomini e donne che le fotografie e la penna delle due giovani avventuriere raccontano con attenzione e lucidità. Ma Annemarie è profondamente diversa anche da Ella, che in un'intervista rilasciata poco prima di morire dichiara di non aver mai viaggiato per scrivere, ma di aver sempre scritto per poter viaggiare. Per la Schwarzenbach è tutto il contrario: il viaggio è un'occasione di scrittura, di continua ri-scrittura di sé, di un'inquieta e inarrestabile esplorazione della propria geografia interiore. Cerca la pace, Annemarie, cerca una cura tra le dune dei deserti e gli sguardi di un popolo “altro”, cerca di mettere una distanza tra sé e l'Occidente, politico e familiare, quello che “mette a tacere le voci scomode e pericolose” attraverso “stimoli e distrazioni, finché la coscienza non si inabissa nella tranquilla insenatura e lo slancio inappagato, eternamente giovane, del cuore umano non si spegne in una bella moderazione” – come scrive ne La valle felice. Cerca la sua ombra, quell'ombra sottile che le si allunga a fianco in tutte le foto che la ritraggono appoggiata alla Ford, sola o – sempre e comunque sola – tra la gente. Cerca, Annemarie. Si cerca, non si trova, fallisce. Non tiene fede al patto di disintossicazione fatto con l'amica, che continuerà il suo viaggio verso l'India da sola, mentre l’“angelo devastato” – come l'aveva soprannominata Thomas Mann – ritorna in patria, da senza patria quale è.
Ci riproverà ancora, ostinatamente, partendo e ripartendo: dal Congo belga agli Stati Uniti, dove raccoglierà la freddezza glaciale dei Mann, che non si degneranno neppure di andarla a trovare durante i ricoveri, sempre più frequenti, per gli abusi di morfina e l'ennesimo tentato suicidio. Muore in Engadina, nel 1942, a soli trentaquattro anni. Muore cadendo da una bicicletta che la stava portando a St. Moritz per firmare il contratto d'acquisto della casa di Sils Baselgia, suo unico rifugio, dimora per la sua inquietudine. Muore prima di avere una casa. Muore pedalando imprudentemente, come imprudentemente ha sempre vissuto, abbandonandosi al mondo, esplorandone quelle contraddizioni che ha incise nella carne. Se ne va restando – ancora una volta – e sembra dirci, come scriveva agli amici: “dovreste vivere soltanto di domande e di inquietudine; è la parte migliore di voi. Vorrei che rimaneste sempre così, pronti a sbocciare; non dovreste sottomettervi con tanta facilità a una legge, né adagiarvi su ciò che già esiste, non dovreste mai sentirvi del tutto soddisfatti”.