Obbedire per che cosa?
Qualche tempo fa ho vissuto un’esperienza grottesca. In un contesto nuovo, a me alieno, mentre tentavo di capire le persone e le pratiche dell’istituzione di cui ero ospite, e al contempo di fare del mio meglio per seguire – in ascolto, in punta di piedi – le indicazioni silenti che si potevano evincere da entrambe, ho provato un senso di disorientamento, ho iniziato a perdere l’equilibrio e a mancare il ritmo, come quando una danzatrice capace, ma non esperta, fa diligentemente i suoi esercizi, e non teme la disciplina né le difetta l’udito, è solo che manca la sbarra. La sbarra è un altro nome per “appoggio” e non per “guida”.
Le indicazioni erano contraddittorie. A poco a poco sono diventate meno implicite e più espresse. Eppure, il fatto che venissero pronunciate, il loro prendere corpo testuale, non toglieva nulla alla loro oscurità, non le rendeva affatto più esplicite. Anzi, più le indicazioni erano esibite, maggiore era la loro contraddittorietà e, va da sé, lo smarrimento che ne conseguiva. Che fare? A cosa obbedire? A chi obbedire? In definitiva, per che obbedire?
Sia una scelta che quella opposta sembravano allora potere valere uguale. In fondo, erano state richieste entrambe le azioni. Si trattava solo di obbedire: all’una o all’altra? Purtroppo non era così semplice dal momento che ho scoperto, a mie spese, che non andava bene nessuna delle due potenziali vie. E non ero davanti a una fonte di dilemma etico soltanto. Le fonti erano molteplici. L’atmosfera che si addensava era formata da una serie di componenti, e la sensazione che ne risultava era che tutti eravamo nella stessa situazione ma anche che gli altri sapevano obbedire, a un prezzo variabile, talvolta visibilmente alto. Io no.
L’appoggio che credevo giusto ricevere per svolgere al meglio il mio esercizio, le indicazioni che credevo di dovere rispettare, non avevano che un contenuto. Non costituivano dei mezzi ma esclusivamente il fine. Il contenuto e il fine erano puramente l’obbedienza. Cosa avviene se l’obbedienza ha l’obbedienza come solo argomento? Georges Didi-Huberman si chiede questo nella “piccola conferenza” rivolta a ragazzi fra i 10 e i 15 anni – squisitamente tradotta da Maria Nadotti per Luca Sossella editore – firmata Per che obbedire? (2023). Si chiede cioè non tanto perché obbedire, per quale motivo farlo, ma per che, in vista di che cosa. La posta in gioco riguarda allora sia l’obbedienza cieca, cioè quando l’obbedienza si fa fine stesso, sia la disobbedienza gratuita, cioè quando è la disobbedienza a diventare il fine. Cosa presuppone e cosa implica obbedire? Didi-Huberman, ancora una volta, non può che rivolgere l’attenzione al nazismo, e dare avvio al suo limpido eloquio con l’atroce dubbio: possibile che il più cattivo dei cattivi abbia fatto tutto da solo? E gli altri? Dov’erano e cosa facevano? Perché lo facevano? Per che obbedivano? Erano soggiogati – non facevano altro che obbedire – è la risposta iniziale. Eppure non c’erano solo loro.
C’erano anche altri che dissentivano, altri che criticavano. Sono stati messi a tacere, sono stati fatti fuori o si sono fatti fuori, chi riuscendo a scappare, chi proprio perché non c’era riuscito. Impossibile gestire tutto questo da un’unica postazione, “ci si semplifica parecchio la vita se si immagina che [Hitler] fosse l’unico artefice di tutto questo abominio”, bisogna piuttosto comprendere che c’è “un’architettura dell’obbedienza”. È qui che, forse in modo meno weberiano di quello per cui Didi-Huberman pare propendere, si situa il carisma, forma del potere che è stata sin troppo associata al singolo “eletto”, il quale sarebbe dotato di tale misteriosa qualità, non si sa bene per che via. L’idea di un potere carismatico è impiegata disinvoltamente ogni volta che la complessità delle vicende storiche non risulta di facile ricostruzione. Epperò spiegare il vastissimo e misterioso successo di un uomo inizialmente del tutto insignificante come Hitler attraverso il ricorso a un ineffabile dono naturale come il carisma – nella sua accezione ormai divenuta popolare –, risulta tautologico, giacché è già il principio esplicativo, il carisma stesso, a sfuggire a una spiegazione.
Come può, insomma, avere portata euristica un concetto di per sé stesso misterioso e inconoscibile? A ben vedere, come ha mostrato Paolo Napoli, una lettura più ponderata nonché storicamente ancorata dello stesso carisma rivelerebbe una differente genealogia, che ha più a che vedere con l’orizzontalità della funzione che non con la verticalità del comando. Ed è qui che andrebbe situata la questione dell’obbedienza, e cioè nelle dinamiche del governo, diciamo pure del “sistema”. Non si obbedisce che al sistema, allora, qualora si intenda obbedire, più che al singolo essere umano, e non si disobbedisce che alle dinamiche di questo sistema, qualora si intenda opporvisi. Certo è che tale obbedienza non risulta meno cieca per essere più ancorata a una rete di governo che non al prestigio di chi siede al posto di comando. Il male si fa banale, come ci ha insegnato Hannah Arendt, quando a dover ubbidire non sono i singoli presi in quanto tale, e valutati e scelti in base al grado di malvagità, di crudeltà diremmo, che sono capaci di mettere in pratica, bensì le loro attitudini tecniche, le loro capacità di esercitare diligentemente i compiti loro assegnati nella macchina burocratica che sono chiamati ad amministrare. Siamo posti così davanti a “un modo di sottomettere le persone dicendo loro: obbedirete, con il duplice vantaggio di non avere alcuna responsabilità del male che farete e di potere sottomettere o sfruttare persone ancora più deboli di voi”.
Non è l’unica via però, e Didi-Huberman ci tiene a sottolinearlo, perché è sempre aperto lo spazio della critica, e questa è la chiave del pensiero: dubitare e discernere. Ma non basta, e lo si vede quando la questione passa a riguardare le risorse psichiche che sono chiamate in causa dalla disobbedienza. Si può certamente criticare, ma il rischio è che la critica abbia finito il carburante, come piace dire a Latour, e ciò avviene quando essa non si traduce in pratica, quando si rimane a livello della pura critica, e non si riesce a trasformarla in prassi. Il sistema approfitta della paura della libertà. Ci vogliono risorse psichiche estremamente solide per disobbedire a un sistema che si fonda sull’obbedienza, e che è seguito dalla maggioranza delle persone che ne fanno parte. È necessario rischiare e scegliere. Ma è decisamente più facile sentirsi liberi di obbedire. Sembra di sentire l’eco di quel paradosso di Singer per cui dobbiamo credere al libero arbitrio: non abbiamo scelta!
Qui Didi-Huberman passa dal “passato” nazista al mondo contemporaneo attraverso la figura-ponte di Höhn, generale delle SS, professore di diritto ed economia, nonché direttore del centro di ricerca sulla “gestione dei territori” che metteva a punto tecniche di eliminazione di intere popolazioni non gradite. Caduto il nazismo, Höhn guida un istituto di economia politica che professa il seguente modello: influenzare il comportamento delle persone gestendolo, avendo cura di mantenere alta la sensazione che esse siano libere. Non ci suona familiare? Non si tratta di quel soft power che chiamiamo management (anche di noi stessi)? Va detto che, con questi e altri esempi, tra l’altro estremamente efficaci, e sulla base di fonti per nulla banali, Didi-Huberman non intende percorrere la pista della “grande bugia” né connotare di pessimismo le sue riflessioni.
Ciò che le guida potrebbe piuttosto essere il desiderio di rendere il ricorso alle personali risorse psichiche, a quell’urgenza della libertà con cui si affronta il rischio di scegliere di disobbedire, qualcosa di comune, e non di individuale. Ciò che dovrebbe non andare da sé, in altre parole, è che per disobbedire bisogna contare solo su di sé. La critica è, forse, questo: un’intelligenza da sviluppare collettivamente che colmi il divario fra chi sfodera le sue personali risorse psichiche per farcela, e chi invece ha troppa paura. Se il carisma è più funzione che comando, anche disobbedire dovrebbe essere un potere più diffuso, una resistenza più condivisa.