Occhi aperti sul futuro
Tra i tanti film della Mostra di Venezia, fra i titoli in concorso e quelli fuori, fra ciò che resta del red carpet e di una manifestazione ancora grande ma in evidente ricerca di una via diversa ai festival del cinema, abbiamo scelto di parlare di un film visto nella sezione Giornate degli autori: A peine j’ouvre les yeux della tunisina Leyla Bouzid. Un piccolo film. Che parla però di cose grandi, grandissime, di ciò che resta delle primavere arabe, della Tunisia oggi, ai tempi dell’ISIS, della condizione femminile e della possibilità di fare cinema politico in quel paese.
Incontro Leyla Bouzid, la regista tunisina di A peine j’ouvre les yeux, sulla terrazza in cima all’edificio che ospita le Giornate degli Autori alla Mostra di Venezia. È pomeriggio tardo e il sole sta calando. Vicino a lei, seduta su una sedia a sdraio, c’è anche Baya Medhaffer, la protagonista del film. Approfitto del momento di imbarazzo che precede ogni intervista per porgere una domanda che mi gira in testa da quando ho visto il film, e ancora più quando ho letto le prime recensioni che sono uscite sul web poco dopo la proiezione: “Ma questo è o non è un film politico?”
Baya Medhaffer, che interpreta la giovane e passionale Farah, mi risponde d’impeto, gli occhi scintillanti: “Senza dubbio. Per me è certamente un film politico, perché parla di politica. Tutto nel film riporta i problemi e le atmosfere della vita tunisina sotto il regime di Ben Ali. I concerti clandestini, la musica rock alternativa, i testi di denuncia, la repressione, la prigione… Tutto questo cos’è se non politica?”.
Leyla Bouzid, la regista, sorride dolcemente e dice con serena fermezza che forse sarebbe prima utile chiarire cosa si intenda per “film politico”, espressione spesso usata con troppa facilità. “Sicuramente quello che ho girato è il racconto di cosa è successo poco prima che Ben Ali fosse costretto a lasciare la presidenza del paese e a indire le elezioni generali. Appena è caduto il regime mi sono detta che dovevo assolutamente colmare quel vuoto, dire qualcosa di quel lungo periodo in cui niente che non fosse conforme andava detto, e in cui ogni cosa andava prima calibrata, aggiustata, controllata, per non disturbare, non irritare. E come una diga che si infrange ho voluto far uscire le sensazioni e le atmosfere di un periodo recente della storia del mio paese.”
A peine j’ouvre les yeux comincia nell’estate del 2010, in Tunisia. Gli esami di maturità sono appena finiti e Farah sta vivendo un momento magico, quello stato di sospensione fra il liceo e l’università in cui il futuro si dispiega in maniere molteplici e imprevedibili. Farah è una brava studentessa, ha il massimo dei voti e la voglia di festeggiare a modo suo, tornando a casa tardi, bevendo birre e cantando nei bar del centro storico di Tunisi. Con lei c’è Borhène, chitarrista e leader del gruppo in cui Farah canta. Con lui Farah conosce l’amore, i primi baci nascosti nei parchi e nei giardini di una Tunisi notturna, afosa e deserta. Ma già dalle reazioni dei frequentatori del bar dove Farah e Borhène cantano canzoni sulla sofferenza di un paese, sulla corruzione e la povertà messe a tacere dal governo, già dal modo in cui gli sguardi severi degli uomini si posano su Farah, dal modo in cui si alzano indignati quando sentono cantare di abbandono e repressione, si capisce qual è il nodo principale del film di Leyla Bouzid: la volontà caparbia di esprimersi liberamente quando tutti ti dicono di tacere.
“Il film parla del mio paese, certo, e di un preciso momento storico che ha segnato la fine di una dittatura e l’inizio di una transizione verso la democrazia. Ma anche per chi non conosce la storia di questo paese, vuole raccontare una storia di gioventù, di coraggio, e di relazione fra genitori e figli. Uno dei perni del mio lavoro è il rapporto fra Farah e la madre, la relazione fra due generazioni diverse che però hanno almeno un elemento in comune: la consapevolezza di poter cambiare il mondo, di vivere per degli ideali. Hayet, la madre di Farah, è stata a sua volta passionale e coraggiosa, e oscilla fra l’orgoglio di avere una figlia forte e vitale e la paura di perderla. Le canzoni che Farah canta, il modo in cui vive la vita e la sua femminilità non sono ben viste in una società repressiva, in cui la critica è severamente punita e le donne possono bere e baciarsi, ma solo di nascosto. Hayet ha dunque paura e cerca di proteggerla, proibendole di esibirsi nei concerti e forzandola a frequentare il corso di medicina piuttosto che quello di musicologia, che a sua detta ‘non è una cosa abbastanza seria’. Attraverso questa relazione fra madre e figlia cerco di mettere in mostra anche la generazione precedente a quella che ha guidato la rivoluzione del 2010, quella dei padri disillusi, che in passato hanno lottato per poi conformarsi a uno stato di cose insostenibile. Ma sarà proprio questa generazione di addormentati a seguire i giovani scesi in piazza, a risvegliarsi dal torpore. Ed è stata proprio questa la forza della rivoluzione, quella di essere transgenerazionale”.
Domando quindi a Baya Medhaffer e a Leyla Bouzid qual è, in questo film così coralmente femminile (dalla sceneggiatura, alla regia, fino ai ruoli principali), lo spazio lasciato agli uomini. Entrambe sorridono, divertite: “Dopo la proiezione in sala qualcuno ha detto che in questo film le donne vanno avanti mentre gli uomini sembrano sempre restare immobili, non evolvere”, dice Baya Medhaffer, “e forse questo è un po’ vero. Nel film è rappresentata una Tunisia dove i padri sono assenti, delegano ogni decisione alla moglie, vero caposaldo della casa. Nella figura del padre di Farah vedo moltissimo la generazione di mio padre, poco propensa a prendere decisioni, molto disillusa dalla vita e disposta, presa dalla stanchezza, a scendere a compromessi con il potere”, Leyla Bouzid aggiunge: “Anche la figura di Borhène, il giovane musicista innamorato di Farah, mostra questo aspetto, anche se in realtà è un ragazzo in gamba, scrive musica e testi di denuncia, ha voglia e coraggio di cambiare le cose e non si nasconde dietro a niente. Ma è chiaro che poi, in un confronto finale con Farah, la distanza fra i due appare netta: lui non sarà mai alla sua altezza, perché, come dice Hayet alla figlia ‘tu vai avanti sempre e nessuno ti ferma’”.
Ed è proprio sull’importanza e sulla fragilità della forza della giovinezza, sull’ardore che nemmeno la tortura riesce a frenare, che risiede il valore dell’opera di Leyla Bouzid: ci ricorda come il coraggio e la sfrontatezza debbano essere valori da sostenere sempre, anche se scomodi, e ci mostra come sia possibile guardare a “i giovani”, forza scatenante delle rivoluzioni arabe, con affetto e indulgenza, senza spegnersi nei moralismi e nella disillusione.
Per questo A peine j’ouvre les yeux è un film che restituisce uno sguardo su un momento d’incanto della storia tunisina recente: il momento in cui la generazione dei cinquantenni si è fatto da parte per sostenere e abbracciare i ventenni e le loro convinzioni, portando alla caduta della dittature, certo, ma in definitiva, purtroppo, a nuove, imprevedibili sofferenze. In questi mesi che seguono i due attentati terroristici che hanno minato le basi della società civile tunisina, ci si domanda infatti quale avvenire potrà esserci per una nazione che ha cavalcato l’onda della retorica della “rivoluzione dei gelsomini” e ora si trova costretta a fare scelte decisive per il futuro del Mediterraneo. Di tutto quello che è accaduto pochi anni fa, il film di Leyla Bouzid è una testimonianza e insieme un ricordo. Il cinema, politico o no, è lì sullo schermo per ribadire che alcuni passi in avanti sono stati fatti, ma purtroppo anche per affermare che la società tunisina è già pronta a parlare di passato e ad affacciarsi su un futuro ancora tutto da scrivere.