Oggetti d’infanzia | Choco banana

19 Aprile 2014

Parevo un’ossessa. Partivo dalla piazza centrale della mia città natale in tutte le direzioni. A piedi o in tram puntavo piccoli market in periferia, grandi magazzini inaugurati da poco, setacciavo pasticcerie simil viennesi, interrogavo le commesse stupite che si potessero fare domande del genere, assillavo parenti e conoscenti. Non mi rassegnavo alla mancanza di quel cioccolatino a forma di banana con dentro il gusto di banana, croccante sopra morbido dentro. Da quando ero diventata straniera in patria, quello era diventato il ricordo d’infanzia, e quando tornavo ne facevo incetta e indigestione. Il mio prodotto, la mia madeleine, il mio ricordo d’infanzia per antonomasia non c’era più. Scomparso senza lasciar tracce, dal giorno alla notte, tirato giù dallo scaffale da un ordine imperscrutabile, da uno di quei diktat che mischiano inesorabili la politica con la burocrazia.

 

Naturalmente sapevo e capivo quello che stava accadendo. Nei negozi le tagliatelle slovene non si appoggiavano più alle minestre croate, i vini serbi e macedoni non stavano più nella stessa fila e la fratellanza-unità dei popoli non la conservavano nemmeno le sardine istriane che si chiamavano Belgrado. Ma perché anche choco banana?

 

Eravamo nel 1990, l’anno delle prime elezioni pluripartitiche della Jugoslavia del secondo dopoguerra, elezioni particolarissime: si sapeva perché si era contro ma mancavano i programmi per. E i raduni, nella piazza centrale di Zagabria, mettevano i brividi; gli slogan nazionalistici, per chi avesse voluto ascoltare, erano già impregnati di sangue. La piazza aveva appena cambiato nome e faccia. Josip Jelačić, il governatore che nel 1848 aveva guidato la rivolta antiungherese, era ritornato sulla sua statua equestre – insediato nel 1886, con la spada rivolta verso nord, in direzione Ungheria, ora, nel 1990, la spada guardava a sud, puntava sul nemico della Serboslavia. Tutti però si ostinavano a chiamarla piazza della Repubblica, come era stata battezzata nel 1947, quando la statua del bano era stata rovesciata e abbandonata in un museo del gesso.

 

Nello stesso anno spariscono libri e prodotti non etnicamente puri, la jugonostalgia diventa un reato e per la generazione nata dopo il 1945 il ricordo del passato diventa un precedente comune – da dimenticare perché non si possa più ripetere. E ancora oggi le pagine della letteratura ritornano ossessivamente a quelle infanzie del paese che non c’è più, come se la scomparsa della creatura Jugoslavia acuisse la nostalgia dell’infanzia.

 

La sparizione di choco banana pareva un monito: la diversità di una “terza via” andava cancellata, la modernizzazione jugoslava che contemplava i viaggi a Trieste, prodotti, libri e film che nei paesi del “socialismo reale” non si erano mai visti, andava bloccata. Perché sul fatto che un cioccolatino alla banana fosse un simbolo non c’erano dubbi.
Nell’Europa cosiddetta dell’ex est infatti le banane rimarranno un frutto esotico e capitalista par excellence, quello che si può solo sognare e disegnare, che spaventa se lo si vede nel reale. Ho ancora una foto dell’agosto 1989 dove un bambino, seduto sulle scale del Pergamo a Berlino, mangia una banana che come lui viene dall’altra parte del Muro. E’ circondato da passanti stupefatti che interrogano la madre, non hanno mai visto una banana vera e vogliono provare la sua consistenza.

 

In Jugoslavia, invece, paese leader del movimento dei paesi non allineati, le banane ogni tanto arrivavano, status symbol da portare in tavola, erano considerate una panacea, vitaminiche e leggere, digeribili e nutrienti. 
Nella storia della nostra memoria il ricordo d’infanzia occupa un posto particolare: è destinato a variazioni di colore, a slittamenti semantici, a sepolture provvisorie, resurrezioni effimere. Ma la tonalità spesso si mantiene, risulta impermeabile a successive stratificazioni. 
Ancora oggi se ho una giornata pesante mi porto dietro una banana, quando sono a Zagabria come prima cosa verifico se c’è choco banana. Lo trovo sempre, non lo si vende più sfuso, ha una scatola tutta per sé. Gialla come la banana. E solo chi ha avuto cinquant’anni nel duemila sa che il suo nome originale era bananko.

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