Omaggio a Za

12 Giugno 2012

Vivere – e crescere – per lunghe estati a Cerreto Alpi, piccolissimo paese sull’Appennino Tosco Emiliano, può educare contro ogni resistenza di bambino suo malgrado “cittadino” a un insieme di altri valori, paesaggi, affetti, sensazioni.

 

Solo in seguito, da adulti, si riesce a realizzare che vivere in quei luoghi ha  permesso di immaginare, quasi di avvertire, come potesse essere l’epoca preindustriale o almeno i suoi ultimi sussulti: in questo è stato un regalo inaspettato, perché un’estensione della vita.

 

 

Ancora verso la fine degli anni ’60 arrivare in paese, scendendo dalla macchina o dalla corriera – la Lazzi proveniente da Fivizzano o da La Spezia, dopo il treno da Genova – significava fare qualche centinaio di metri a piedi evitando di calpestare con le scarpe leggere le innumerevoli deiezioni di pecore, capre che punteggiavano la strada dalle lastre di ardesia. Più ingombranti ma già rare la presenza di quelle di mucche, muli, asini e cavalli, segno secondario seppur evidente di un’economia che stava tramontando rapidamente.

 

La Via Piana – piana nel senso di non accidentata bensì “liscia” e differente da quelle strette e ciottolate che ancora oggi si perdono nei boschi circostanti – è una strada in leggera discesa che lega le due principali frazioni del paese, La Piazza e il Ponte.

Alla Via Piana si accede attraverso una strada carrozzabile lunga circa un chilometro che parte dalla statale 63; questo a partire solo dal 1947, perché precedentemente il paese era isolato e raggiungibile solo a piedi, a cavallo o con stretti barocci, attraverso la Tora, un tratto ripido e acciottolato che dalla statale 63 scendeva sul fiume Secchia per risalire con difficoltà poi fino al paese.

 

 

L’uscita dal medioevo e l’ingresso definitivo nella modernità è dovuto anche alla costruzione di quel tratto carrozzabile, è dovuto all’interessamento “romano” di un villeggiante speciale, vale a dire Cesare Zavattini, che periodicamente, per studio e riposo, saliva al Cerreto presso la casa della sorella Tina. Per decenni, soggiorni brevi o più lunghi in una casa che era “muro a muro” con quella di mio nonno, nel Casamento chiamato d’ Gianfiore.

Soggiorni abituali anche negli anni dei suoi successi e in quelli seguenti e poi via via sempre più rari. Da bambino non credo di aver mai incontrato Cesare Zavattini – difficilmente veniva in estate – e aveva ormai interrotto le sue visite quando ero finalmente in grado di comprendere appieno la grandezza del personaggio; ho perciò solo percepito il suo tardivo alone, alone e presenza che in qualche modo ancora resta nel paese. Resta in quella strada e nell’enorme utilità che ebbe nel tempo, resta nel ricordo e nelle parole dei paesani che lo hanno conosciuto più che nella targa di ottone sulla casa della sorella Tina, più che nella statua in arenaria posta a sua memoria in uno spiazzo giù Al ponte, e anche più che nelle poche parole che del Cerreto Zavattini ha lasciato, poche e poco significative…

 

Cerreto è un mucchietto di vecchie vestite di nero con le gengive smodate e scarpe da uomo, più qualcuno che torna dal lavoro in lambretta nascosto dietro il parabrezza…Vado a fare due passi prima di cena e cammino con le nuvole tra i piedi, immaginate il battito del mio bastone sui sassi e una capra...

La camera dove lavoro, tre metri per tre mi va bene, e dovrei finalmente stare seduto al tavolo per otto ore al giorno anziché non fare...mi tengono compagnia la piccola ruota incastrata nella finestra, va per cambiare l’aria, e un torrentello....il torrentello fra poco entra nel Secchia e il Secchia dopo una notte in discesa entra con le sue trote e l’acqua stretta e nervosa nell’acqua grande e placida del Po’ che passa da Luzzara dove sono nato...

 

Parole scritte nel 1967 nell’incerto confine tra modernità e residui di un passato ancora persistente.

 

 

Zavattini era di Luzzara, luogo da contadini di pianura che, credo, male potevano comprendere la natura nomade ed aspra dei montanari, la natura di un economia dura come poteva essere stata per secoli una pastorizia transumante e di sopravvivenza, sostanzialmente differente ed “altra” dalla condizione dei contadini stanziali e spesso inurbati, con i grassi campi e il Po’ all’orizzonte del paesaggio come dei sensi.

 

Mi sono spesso chiesto a cosa fosse dovuta la differenza tra la sua apparente scarsa attenzione dedicata al Cerreto e la lunga e persistente frequentazione nel paese, una differenza apparentemente non comprensibile neanche ricorrendo al solo affetto fraterno per la sorella. Forse neppure giustificabile nel ricordo della tragica morte del giovane fratello Mario, avvenuta nel paese nel 1924.

Credo che forse questa differenza fosse semplicemente nella distanza di lui “uomo della bassa” da esistenze già in origine troppo diverse dalla sua.

Eppure quella cultura così distante da lui offre un pretesto per un omaggio alla sua persona e alla sua opera, o almeno anche solo a quella lunga frequentazione nel paese, a quell’alone che ancora vi si percepisce.

 

La cultura pastorale e nomade, di qualunque regione del mondo si tratti - Appennino o steppe dell’Asia - è dura nella quotidianità della sopravvivenza, impregnata tutti i giorni di natura - solo in questo senso per niente colta e urbana - ma anche nemica di ogni egoismo da civiltà, da ogni individualismo e ogni vanità fine a se stessa, caratteri della modernità che Zavattini ben conosceva e che aveva raffigurato in folgoranti opera narrative, come Io sono il diavolo oppure Ipocrita 1943.

Per contrasto, credo che forse sia stato proprio quest’aspetto che involontariamente o meno abbia potuto avvertire in un paese di pastori e montanari, è forse questo aspetto che – finché è durato - ha potuto creare un fragile e al tempo stesso solido legame attraverso i decenni.

 

Non parlerei che di me, che di me. Una notte ho pensato perfino di possedermi…” (Cesare Zavattini, Ipocrita 1943, Bompiani), così scriveva Cesare Zavattini a metà del Novecento.

In quell’immagine come nella visionaria percezione dell’artista emiliano c’è la condizione dell’uomo moderno fattosi ombelico del mondo, stretto orifizio da cui guardare ogni palpito dell’universo. Ma l’universo visto da luoghi troppo angusti dà solo immagini monche, copie difformi di altre immagini, ognuna delle quali figlia di altrettanti io, io, io…

È la visione che regala la modernità e in cui si è incapaci di verità se non quella propria, improbabile e in fondo casuale… Casualità che sa di dannazione, verità annegata in un puzzle infinito.

Eppure altrove, differenti stagioni dell’umanità hanno conosciuto altri modi di vivere il reale.

 

 

Già, vivere il reale… e mentre si vive, sentire che ordine e caos possono essere diversi lati di una stessa verità, ma che rimane incerto il lato dove trovare certezze o anche solo consolazione.

Certamente, lontano dalle nostre vite è esistita la stranita possibilità che l’alcool possa essere cibo, elemento della natura a cui essere grati.

Possibilità che la nostra modernità non conosce, verità millenaria perduta in un altro modo di vivere e di consumare.

 

Il kefir e il kumiss…nutrimento docilmente alcolico di popolazioni nomadi; cibo più che bevanda in cui le fermentazioni alcoliche del latte danno qualcosa di simile allo yogurt ma anche di profondamente diverso, cosa se non “alcool da mangiare”?

L’alcool che si fa cibo è accettare che la nutrizione possa farsi docile ebbrezza, brivido leggero confuso alla normalità delle cellule e della vita, armonia distesa su praterie da attraversare, dispersa dai venti, sciolta dentro una natura in cui alla fine ci si confonde.

 

Farsi natura rinunciando al sè… è probabilmente questa la dimensione che può dare l’avvicinarsi all’alcool attraverso il kefir e il kumiss; non la ricerca di qualcosa che ottenebri la mente ma armonia casuale estranea alla dannazione di innumerevoli io, io, io, alimento che nella natura si fonde e ci con-fonde.

 

Confusione benedetta che la modernità non conosce, non insegna.

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