Ottaviano / Paesi e città
Ah, il grande José Feliciano. E, mi voglio rovinare, perfino i Ricchi e Poveri. Già, perché passano gli anni, passano i decenni, ma ogni volta che sento Che sarà, ogni volta che, da solo o in coro, canto “paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato”, non posso fare a meno di pensare al mio, di paese, anche se (o magari proprio perché) non ci vivo più da tutti quei decenni. Sta sempre lì, Ottaviano, disteso sulle falde del monte Somma, appollaiato sopra il Vesèri che forse scorre ancora sotto terra, come un passato carsico che non si rassegna a passare; sta lì con la sua Chiesa Madre, con il Castello Mediceo finalmente strappato alle grinfie della camorra e restituito ai cittadini, con le viuzze strette e ripide del centro storico, con quella montagna incombente fatta di lapilli, di querce e di robinie.
Tranquilli: non mi metterò a suonare il languido violino della nostalgia. Sono andato via da più di trent’anni, ma non coltivo sogni da emigrante che vorrebbe tornare. E tuttavia è chiaro che la mia “patria” di scrittore sono quelle strade in salita, quei bàsoli sconnessi, quei bar in cui ho giocato a bigliardo da ragazzo, quel ritmo cantilenante del dialetto che ti si imprime dentro quasi come un ritmo interiore e forgia la tua lingua (letteraria e non), quelle prime ragazze e quelle amicizie forti che durano una vita, quella montagna di lapillo, quelle robinie, quella luce dorata di settembre che le scalpella contro il lapillo nero. E sebbene manchi da molto, troppo tempo, quelle cose continuano a parlarmi nell’orecchio in una lingua che riconosco al volo. Perché è la mia. Perché si cambia vita, faccia, si cambia città, nazione, ma certe ombre ti seguono furtive, e sono sempre lì, in agguato, per ricordare a chi sei diventato cosa sei davvero.
Ma non bisogna nemmeno esagerare: la “patria” di uno scrittore non appartiene soltanto alla geografia. Appartiene anche e soprattutto al territorio della memoria, che quasi mai è un territorio completamente reale. Del resto, Ottaviano è molto cambiata rispetto a quella che ho cercato di raccontare in alcuni dei miei libri. Oggi ci sono quartieri interi che non conosco, strade su strade che non ho mai percorso, case rifatte che scopro al posto di quelle che ricordo; gli amici rimasti mi mostrano quelle novità allo stesso modo in cui mostrerebbero a un forestiero i monumenti più notevoli. E tuttavia, paradossalmente, soltanto noi che ce ne siamo andati sappiamo davvero com’era il nostro paese e notiamo fino a che punto sia cambiato; sono quelli rimasti (sebbene pensino di essergli rimasti fedeli e ci considerino un poco “disertori”) a non ricordarlo, essendosi abituati giorno dopo giorno ai cambiamenti.
Come dice il mio amico Paco Ignacio Taibo II, “nulla è più esatto dei ricordi se si alimentano con la fantasia”. Per questo il mio paese, dentro di me, è ancora vivissimo. E quello che ho provato a raccontare è, dunque, un’invenzione della memoria che cerca di fare i conti con il paese reale, con le sue ferite e le sue glorie. È il paese degli anni Ottanta e della camorra che spadroneggiava, della gente che cominciava a morire: gli amici, i consiglieri comunali, i ragazzi “cutoliani” con cui avevo giocato a bigliardo nel bar della piazza, chiedendomi ingenuamente cosa fossero quei cinque puntini tatuati nell’incavo tra il pollice e l’indice. È il paese in cui, nel settembre del 1978, Pasquale Cappuccio, avvocato socialista, fu freddato nella sua automobile. È il paese in cui, poco tempo dopo, la morte toccò Mimmo Beneventano, medico e comunista, appena uscito di casa per il giro di visite del mattino. Nel 1981, ci tentarono con Raffaele La Pietra, segretario della sezione comunista, ma non riuscirono ad ammazzarlo per un vero e proprio miracolo. Purtroppo quei morti continuano ogni giorno a morire perché i processi d’appello si conclusero con un’assoluzione generale, sia per gli esecutori sia per i possibili mandanti.
Allora, a caldo, ci volle un po’ a comprendere cosa stava davvero succedendo, fino a che punto don Raffaele Cutolo pesava sulle nostre vite, fino a che punto politica e camorra si erano intrecciate. Quando capimmo, quando scoprimmo che lì in paese la vita non valeva niente, venne la paura, che ti toccava come se fosse un dito, una fredda canna di pistola. Tornavi a casa la sera e speravi di non incontrare nessuno, di non assistere a nulla che ti avrebbe potuto compromettere. Accorrevi a vedere i morti della guerra per bande e pensavi di dover fuggire. Erano i tempi del “riflusso”. Senza che ce ne fossimo resi conto, era stato quel nostro fitto parlare di politica, quel non volere vivere da prigionieri nel nostro io deserto, ad arginare la camorra, a fare barricate. E invece, a mano a mano che quei ragazzi idealisti che eravamo stati battevano in ritirata, abbandonavano le piazze e le strade, ecco che la malavita organizzata le occupava: a modo suo, di forza, a ferro e fuoco. Poi dilagò. Grazie al terremoto del 1980, strinse ancora di più i legami con il potere, ebbe contatti “impropri” con il terrorismo e con i servizi segreti, e adesso, inutile negarlo, è ancora lì in agguato.
Già, adesso. Una volta, se per sorte o sfortuna ci eri nato, la provincia poteva regalarti, senza vie di mezzo, “la grazia o il tedio a morte” di cui canta Guccini. Ma adesso che la provincia non esiste più? Ora che tutto il mondo è un’unica provincia tutta uguale, un’identica rete virtuale, un tempo ubiquo che conosce soltanto il suo presente? Non so, basta guardarsi in giro e viene lo sconforto, il dubbio che sia tutto inutile. Nel disastro generale di questo paese che è l’Italia, il Sud mi sembra affondare sempre più. E Ottaviano, purtroppo, non fa eccezione. Soffre, come l’Italia e il Sud, di quella malattia di cui ha parlato Giuseppe Montesano, una malattia che “giace a grande profondità, ed è una mescolanza esplosiva di egoismo sociale e nichilismo, di rassegnazione atroce e di sfiducia assoluta”.
Però. Però. Parafrasando Benjamin, mi azzardo a dire che, da vecchio beduino, mi sembra di captare nel deserto segnali, indizi, tracce di qualcosa che si muove, di anticorpi, magari deboli, magari confusi e impacciati, che si sforzano di combatterla, quella malattia: sarà qualche amministratore che mi pare si impegni con energia; sarà la passione, l’impegno e la conoscenza con cui oggi i miei amici parlano di ciclo dei rifiuti e di raccolta differenziata, sgridandomi se sbaglio cestino quando butto una cartaccia; saranno quelle centinaia di ragazzi commossi ed entusiasti che ho visto pochi mesi fa al Castello del Principe in occasione del trentennale della morte di Mimmo Beneventano… Lo so, lo so: chi di speranza campa… Ma in molti di quegli occhi ho visto finalmente, e nonostante tutto, una sottile scintilla di futuro.