Pane e cultura

Pubblichiamo un'anticipazione dal libro di Bruno Arpaia e Pietro Greco, La cultura si mangia!, Guanda, da oggi nelle librerie.

 

D’accordo, ne siamo consapevoli: è fin troppo facile iniziare con le ormai celebri dichiarazioni di Giulio Tremonti. Ma non è colpa nostra se, quando era ministro dell’Economia, il commercialista di Sondrio ha riassunto in una sola battuta i pregiudizi e le arretratezze di buona parte del Paese rispetto a tutto ciò che sa di pensiero, di riflessione, di elaborazione culturale, di sguardo lungo sui nostri destini. «Con la cultura non si mangia» ha dichiarato infatti Tremonti il 14 ottobre 2010. Poi, non contento, ha aggiunto: «Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura, e comincio dalla Divina Commedia». Che umorista. Che statista. Meno male che c’è gente come lui, che pensa ai sacrosanti danè. E infatti, con assoluta coerenza, Tremonti ha tagliato un miliardo e mezzo di euro alle università e otto miliardi alla scuola di primo e secondo livello, per non parlare del Fus, il Fondo unico per lo spettacolo e altre inutili istituzioni consimili. Meno male. Sennò, signora mia, dove saremmo andati a finire?

 

   

In questi ultimi anni, però , l’ex socialista Tremonti non e` stato il solo uomo politico a pronunciarsi sui rapporti tra cultura ed economia. Per esempio, l’ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi, ha sostenuto che per i laureati non c’è mercato e che la colpa della disoccupazione giovanile è dei genitori che vogliono i figli dottori invece che artigiani. Sapesse, contessa... E il filosofo estetico Stefano Zecchi, in servizio permanente effettivo nel centrodestra, ha chiuso in bellezza, come del resto gli compete per questioni professionali: ha detto che in Italia i laureati sono troppi. Insomma, non c’è dubbio che la destra italiana abbia sposato la cultura della non cultura e (chissà?) magari già immagina un ritorno al tempo dell’imperatore Costantino, quando la mobilità sociale fu bloccata per legge e ai figli era concesso fare solo il lavoro dei padri. (Non lo sapeva, professor Sacconi? Potrebbe essere un’idea...)

 

E la sinistra o come diavolo si chiama adesso? Parole, parole, parole. Non c’è uno dei suoi esponenti che, dal governo o dall’opposizione, non abbia fatto intensi e pomposi proclami sull’importanza della cultura, dell’innovazione, dell’istruzione, della formazione, della ricerca e via di questo passo, ma poi, stringi stringi, non ce n’e` stato uno (be’, non esageriamo: magari qualcuno c’è stato...) che non abbia tagliato i fondi alla cultura, all’innovazione, all’istruzione, alla formazione, alla ricerca e via di questo passo. Per esempio, nel programma di governo dell’Unione per il 2006 si diceva: «Il nostro Paese possiede un’inestimabile ricchezza culturale che in una società postindustriale può diventare la fonte primaria di una crescita sociale ed economica diffusa. La cultura è un fattore fondamentale di coesione e di integrazione sociale. Le attività culturali stimolano l’economia e le attività produttive: il loro indotto aumenta gli scambi, il reddito, l’occupazione. Un indotto che, per qualità e dimensioni, non è conseguibile con altre attività: la cultura è una fonte unica e irripetibile di sviluppo economico».

   

    

Magnifico, no? Poi l’Unione (o come diavolo si chiamava allora) vinse le elezioni e andò al governo. La prima legge finanziaria, quella per il 2007, tagliò di trecento milioni i fondi per le università. Bel colpo. Ci furono minacce di dimissioni del ministro per l’Università e la Ricerca, Fabio Mussi. Ma le minacce non servirono. Tant’è che, nella successiva legge di bilancio, furono sottratti altri trenta milioni dal capitolo università a favore... degli autotrasportatori. E inoltre, come scrivono Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, nel 2006 con il governo Prodi «c’è stato un calo del trenta per cento circa dei finanziamenti, cosicché il già non generoso sostegno alla ricerca di base e` diminuito, da circa centotrenta a poco più di ottanta milioni di euro, proprio nel periodo in cui al governo si è insediato lo schieramento politico che, almeno a parole, ha sempre manifestato un grande interesse per la ricerca».

 

Certo, dopo quanto avevano scritto nel programma, non sarebbe stato chic e «progressista » avere la faccia tosta di dire che bisognava sottrarre risorse alla scuola e all’università, e allora non l’hanno detto. Però l’hanno fatto, eccome. Del resto, per apprezzare il grado di interesse verso la cultura dei rappresentanti del popolo schierati (per così dire) a sinistra, basta rivedere la puntata di Le Iene del 6 aprile 2012, nella quale la conduttrice Sabrina Nobile ha rivolto qualche domandina di cultura generale a deputati e senatori.

 

La prima intervista è all’onorevole Amalia Schirru, del Partito Democratico, componente della XI Commissione della Camera (Lavoro Pubblico e Privato), laureata in Pedagogia. «Che cos’e` una sinagoga?» le chiede Sabrina Nobile. «è il luogo di culto che le donne musulmane... frequentano per pregare il loro Dio.» «E che Dio si prega in sinagoga? » incalza la conduttrice. «Maometto oppure Allah...» «E dove si trova Gerusalemme? è capitale di quale Stato?» «Palestina...» afferma la dottissima deputata. Seconda intervista, con l’onorevole Marialuisa Gnecchi, sempre del Partito Democratico, anche lei componente della XI Commissione, maturità classica. «Chi e` Netanyahu?» le chiede Sabrina Nobile. «Rappresenta l’Iran e quindi tutto quello che...» Già, l’Iran. Se, per quanto riguarda l’attualità , l’onorevole non e` troppo ferrata, magari con la storia se la cava meglio, deve aver pensato la conduttrice. E allora le domanda: «Chi era Mao?» La sa, la sa... «Mao è stato il presidente della Cina e quindi ha avuto un ruolo in termini significativi nella storia del mondo. » Visto che la sapeva? Ma la Nobile insiste, accidenti: «In che periodo è stato presidente Mao?» Questa è difficile, e infatti la Gnecchi vacilla, esita, si butta, fingendo insofferenza per una domanda fin troppo ovvia: «Ormai due secoli fa... » Infine, terza intervista, con l’onorevole Marco Beltrandi, radicale eletto nelle liste del Partito Democratico, attivissimo componente della Commissione di vigilanza sulla Rai, laureato in Scienze politiche. Lui, almeno... La conduttrice inizia con una domandina facile facile, quasi a piacere: « Chi era Shakespeare? » E Beltrandi: «Era un celeberrimo scrittore e drammaturgo inglese... » Oh, bravo. Ma poi Beltrandi aggiunge, non richiesto: «Dell’Ottocento circa». Ahi, ahi, ahi, signora Longari... La Nobile, allora, non si lascia sfuggire la preda: « Prima o seconda metà dell’Ottocento? » E qui l’onorevole radicale sceglie la linea dell’onestà: «Già questo mi mette qualche difficoltà [sic] perchè non ho studiato letteratura inglese...» Poverino, se non l’ha studiata... «Citiamo qualche opera famosa di Shakespeare?» «Boh.» Magari con un aiutino: «Essere o non essere» insinua la conduttrice. Così è facile, dai... « Vabbe’, Amleto.» «Chi l’ha scritto?» «L’ha scritto Shakespeare?» si meraviglia l’onorevole. «Sì» ammette sconsolata Sabrina Nobile.

 

E con questo, per citare Totò e Peppino, abbiamo detto tutto. (O forse no. Forse vale ancora la pena sottolineare che nel Parlamento della scorsa legislatura c’erano meno laureati che in quello post-unitario e del primo Novecento. All’Assemblea Costituente, nonostante la guerra avesse ostacolato la frequenza all’università, era laureato il novantadue per cento dei parlamentari: fino allo scorso febbraio la quota si era inabissata al sessantaquattro per cento. Almeno tra deputati e senatori, dunque, è già passata la linea Sacconi: meno laureati. Insomma, sono finiti i tempi in cui, negli anni Sessanta dell’Ottocento, il più grande fisico teorico inglese, James Clerk Maxwell, lo scopritore del campo elettromagnetico, imparava apposta l’italiano per venire a parlare, di fisica, con il ministro italiano della Pubblica Istruzione, Carlo Matteucci. è come se oggi Stephen Hawking inseguisse Mariastella Gelmini lungo il tunnel Ginevra-Gran Sasso per farsi spiegare qualcosa sulle bizzarre proprietà dei neutrini.)

 

Restano i «tecnici» montiani. Loro magari sanno che Shakespeare ha scritto l’Amleto, però, a quanto pare, il problema se aumentare o meno gli investimenti in cultura non se lo sono nemmeno posto: hanno tagliato e basta (e non solo in ambito culturale). A volte, crediamo, perfino con goduria e presunzione. Salvo poi accorgersi di qualche erroruccio «tecnico» che era così grave da costringere la lingua italiana a inventare ad hoc (latino) un nome nuovo, tipo l’orribile «esodati».

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