Pensare come uno Stato

12 Novembre 2014

È sempre difficile leggere i segni dei tempi e sappiamo quante volte prendiamo cantonate a voler tirare delle conclusioni generali dagli avvenimenti correnti. La storia, ci ha insegnato Montale, è tutt’altro che maestra di vita. Quello che si può fare è cercare modestamente di proporre delle ipotesi di lettura del presente, sempre pronti a ricredersi e a ribaltarle. Una delle strane ipotesi che si affacciano in questo periodo è l’idea che la tanto bistrattata “piccola borghesia” stia avendo un ruolo non marginale nella crisi che stiamo attraversando a livello mondiale e nelle risposte ad essa.

 

Che ci voglia un’analisi di classe del momento attuale è ormai richiesto da più parti, anche dalle meno propense ad utilizzare questo tipo di attrezzistica. Oggi pochi si vergognano di affermare che il mondo è davvero nelle mani di un capitalismo sempre meno regolato e regolabile. Ma poi le analisi più radicali non entrano nel dettaglio di chi è la vittima e di chi sono i responsabili dell’attuale contingenza storica. Sembra che a fronte di un capitalismo selvaggio ci sia una grande massa di precari, di disoccupati, di espulsi dal sistema produttivo, un ingente blocco sociale che viene “licenziato” perché il capitale nel suo insieme si sta ristrutturando e globalizzando. E si leggono le risposte a questa situazione, da Occupy Wall Street alle primavere arabe, alle enormi proteste brasiliane, alle manifestazioni a piazza Taksim e in tutta la Turchia, come una reazione al disagio creato dal capitalismo selvaggio. Quello che si vede poco è un’analisi che cerchi di spiegare cosa accomuna queste masse di “disagiati” e le loro visibili e potenti proteste. Ebbene, buona parte di questi movimenti non sono movimenti di “poveri” nel senso classico del termine, né di proletari, un compartimento della società che comincia ad essere desueto.

 

Al Cairo come a Rio, a Istanbul come a Madrid o in Grecia, quelli che scendono in piazza sono proprio coloro che fino a qualche anno fa si pensavano parte di un iniziale modesto benessere e che a esso hanno dovuto rinunciare precipitosamente. È la tanto bistrattata da Marx e da molti pensatori liberali “Petty Bourgeoisie”, la piccola borghesia, quella classe accusata di non avere le ambizioni né lo spirito imprenditoriale della borghesia vera e di non avere nemmeno la solidarietà del proletariato. In termini rivoluzionari nulla di peggio della piccola borghesia “immobile” e del sottoproletariato senza una coscienza. Ma da chi è costituita la piccola borghesia?

 

Ce lo ricorda un antropologo ed economista di rilievo come James Scott autore di un mastodontico volume Pensare come uno Stato (Seeing like a State: how Certain Schemes to improve the Human Condition Have Failed – Vedere come uno Stato: come certi schemi per migliorare la condizione umana hanno fallito –, Yale University Press, 1998) e di un altro sulle forme di organizzazione sociale che nel Sud Est Asiatico non hanno avuto bisogno di una forma statale per sopravvivere (Il dominio e l’arte della resistenza, Eleuthera 2012) . In un recente articolo “ Due lodi per la piccola borghesia” (uscito per Eleuthera a novembre col titolo Elogio dell’Anarchismo), ricorda che la piccola borghesia è quella definita da una certa indipendenza, modesta, ma legata a mestieri “di cui c’è bisogno” o alla produzione a partire da un rapporto diretto con le risorse per la sussistenza e “per qualcosina in più della sussistenza” e fa un elenco: nomadi, pastori, ambulanti, coltivatori stagionali e lavoratori stagionali, ma anche artigiani, calzolai, sarti, mastri d’ascia, piccoli coltivatori diretti, piccoli proprietari – con casa e orto – manovali, carpentieri, stampatori.

 

James Scott, Elogio dell'anarchismo

 

Scott ci racconta che questi sono stati i nemici delle collettivizzazioni volute da Stalin o del “gran balzo in avanti” voluto da Mao. È la loro relativa indipendenza che li ha resi temibili ed invisi al grande potere di pianificazione. Perfino gli schiavi del Sud degli Stati Uniti, una volta liberati hanno sentito coronare il loro sogno solo quando hanno potuto avere un loro piccolo podere, casa e podere, e Scott ricorda che buona parte delle guerre sono state condotte da soldati che avevano lo stesso sogno una volta tornati a casa. L’agrobusiness moderno li ha ovviamente in grande odio, perché essi rappresentano una resistenza al dominio incontrastato di multinazionali col loro carico di ogm e di pesticidi. I nomadi all’inizio dell’elenco da parte loro sono da sempre considerati i nemici di ogni stato moderno in Medio Oriente ed in Asia, perché non sono controllabili e tassabili nel modo più efficace.

 

Quello che fa paura nella piccola borghesia è il suo potere di “resistere” alle crisi, alle fluttuazioni del mercato, ai ricatti degli agenti immobiliari, perché il sogno della piccola borghesia è di essere lasciata in pace, di potere esercitare quel diritto alla sussistenza di cui tanto ha scritto e ricercato Karl Polanyi e che la sinistra radical o istituzionale ha costantemente ignorato. Perfino oggi la “radical politics” di un Negri inneggia al “Comune” e ai “Beni Comuni” e ignora l’importanza del “bene privato di sussistenza”. La piccola borghesia ovviamente crede nella proprietà, ma non ci crede come ci credono gli speculatori immobiliari né gli ideologi di un nuovo collettivismo, ma vede in essa un segno di una autonomia possibile dal mercato.

 

Autonomia minacciata come non mai dalla piega che hanno preso le economie post-globalizzate di questi ultimi anni. Lo studente, l’insegnante delle scuole primarie e secondarie, il piccolo commerciante, la segretaria di uno studio di architettura turco, ma anche il piccolo commerciante, l’artigiano, l’elettricista non sono previsti nel futuro della economia globalizzata: vadano a friggere patatine in un macdonald normale o islamico halal, o vadano ad ingrossare le fila dei call center. È questa piccola borghesia che ha capito di correre il rischio di essere spazzata via e si è mobilitata. Non la mitica “middle-class” che ha un margine ampio prima della caduta e che gode di alleanze e di compromissioni col potere politico e amministrativo.

 

Shirin Neshat. Il Libro dei Re

Shirin Neshat. Il Libro dei Re

 

La stessa cosa è avvenuta a Piazza Tahrir e in Tunisia. Un mondo che ha vissuto la caduta dei dittatori come opportunità di fare emergere l’individuo e la sua autonomia, non solo di pensiero, ma anche economica, in un contesto islamico che ha sempre umiliato e reso impossibile questo sviluppo. La partita che si gioca in questi giorni in Egitto e Tunisia ha questo in ballo e per questo la gente non ha accettato il ruolo di Ennhada o dei Fratelli Musulmani, perché vi ha visto lo stesso blocco sociale che impediva alla piccola borghesia e agli individui che ne fanno parte di esprimersi e di sopravvivere. Di questo mondo fa parte anche la manovalanza intellettuale, gli artisti, i musicisti, quelli che fanno teatro, i cineasti e tutto il mondo giovanile che vuole avere un posto nella società di domani ma che soprattutto vuole “essere lasciata in pace”.

 

Per leggere le primavere arabe occorre avere in mente che la islamizzazione proposta subdolamente da Erdogan, o platealmente da Morsi è una forma di collettivismo forzato, una maniera di mummificare la società in un blocco compatto regolato da una ideologia di controllo. La piccola borghesia, che in questi paesi è recente, non ci sta e vede chiaramente che dietro l’islamizzazione c’è una forma pervasiva di globalizzazione. Non vuole essere ulteriormente schiava di un controllo sociale che le impedisce di vivere in pace, di scegliere la propria vita senza dover dipendere quotidianamente da un consenso ad un nuovo apparato ideologico.

 

Shirin Neshat. Il Libro dei Re

Shirin Neshat. Il Libro dei Re

 

Nei paesi non islamici come Grecia, Portogallo e Italia la questione si pone in maniera più laica, ma non meno drammatica. La canzone dei Deolinda, un gruppo musicale portoghese che è diventato lo stendardo del precariato lusitano cantata da Anna Bacalhau, dice: “Que parva que eu sou, que para ser scrava, è preciso estudar”, “Come sono stupida, che per fare la schiava ho dovuto studiare”. Una canzone che potrebbe essere l’inno dei milioni di laureati e studenti nostrani (la canzone dice che perfino avere uno stage non pagato è considerato da questa generazione un privilegio).

 

Sarà un lungo processo, ma non solo in Medio Oriente, anche nella vecchia Europa, perché la partita per buona parte è la stessa. In Europa la piccola borghesia sta perdendo i vantaggi che aveva ottenuto negli ultimi cinquant’anni e le banche stanno diventando le sue nemiche dichiarate. La stessa cosa però sta accadendo in paesi come l’India e il Brasile, dove al successo economico della nazione non corrisponde un avanzamento delle possibilità di sopravvivenza di una classe che vuole essere autonoma e non soggetta ad una massificazione – verso la povertà assistita o verso la povertà controllata dalla polizia. La violenza che le masse della piccola borghesia (sembra un ossimoro, ma non lo è più) hanno provato sulla propria pelle negli ultimi tempi le ha svegliate rispetto al futuro che le aspetta, che non è diverso da quello riservato agli abitanti delle favelas.

 

Insomma, l’analisi della piccola borghesia ci rivela una chiave nuova per leggere i fenomeni che abbiamo di fronte agli occhi, ma soprattutto ci rivela il carattere di questa condizione sociale, che non è solo definita da cosa perde e di cosa è vittima, ma dal progetto sociale ed individuale che ha. Si tratta di una classe che pretende il diritto non a un salario, né ad un welfare, ma ad una autonomia effettiva, che significa libertà nel senso più schietto della parola, cioè relazione diretta con le risorse, possibilità di una sussistenza, magari legata all’artigianato o al ritorno alla terra, oppure ad una attività di relazione sociale che si basi non sulla artificialità dei rapporti finanziari bancari, ma sulla concretezza delle relazioni umane, assistenza ai vicini, reciprocità, servizi di quartiere, istruzione autogestita.

 

 

Non c’entra nulla con ciò che la nostra sinistra non ha ancora capito del cambiamento della società, ma piuttosto ha a che fare con una mondializzazione del diritto privato nei confronti dello spazio pubblico inteso nuovamente come risorsa. Per questo lo spazio urbano è così importante nelle rivolte di questi tempi, da Gezi Park a Piazza Tahrir (come racconta magnificamente Stefano Stavona nel suo pluripremiato Tahrir, place de la libération). Le città sono diventate luoghi dove si gioca la libertà futura di una classe che vuole essere lasciata in pace e per questo è disposta però ad impegnarsi con costi altissimi.

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