Il guadagno dei burattinai / Piazza Fontana. Ma che cos’è la verità?

12 Dicembre 2019

Milano, 12 dicembre 1969, ore 16.37. Fa freddo, è già buio, ma sopra le vie del centro e lungo i muri luccicano gli addobbi natalizi. Io sono sul 23 (il tram che mi ha accompagnato tutta la vita, e ora non c’è più). Sono in Corso di Porta Romana, quasi Piazza Missori: sto andando all’Università Statale, che è lì dietro, in via Festa del Perdono. 

Si è sentito un gran botto, e ora il traffico è fermo. Siamo in coda, bloccati. La gente sul tram si scambia occhiate preoccupate, interrogative: come succede in questi casi, ognuno spera che il suo vicino ne sappia di più. O forse no; ma domandare è una reazione spontanea, anche quando è chiaro che non serve. Cosa sarà successo? Qualcuno improvvisa delle ipotesi, qualcun altro sale dalle porte lasciate aperte dal tranviere, riferisce voci, dicerie: “Pare che sia scoppiata una caldaia”. Nessuno, in realtà, sa niente. Scendo dal tram; a piedi, seguendo il flusso della folla, i lampeggianti e le sirene, cerco il luogo dell’esplosione. Dopo due o tre tentativi, svolte e rigiri, eccolo: Piazza Fontana, subito dietro il Duomo. 

Davanti al palazzo sventrato della Banca dell’Agricoltura è pieno di gente, polizia, pompieri, ambulanze. C’è sgomento, c’è agitazione. Ma c’è anche molto silenzio. In mezzo alla folla riconosco mio fratello Adolfo (ha sedici anni, io venti). 

 

La piazza gli è familiare: per alcuni mesi, seguendo da buon marxista-leninista le indicazioni del Presidente Mao, ha frequentato un corso di Esperanto proprio di fronte alla Banca dell’Agricoltura, all’Hotel Commercio. Lo storico Albergo Commercio, in disuso, è stato occupato dagli studenti-lavoratori nel 1968, ed è diventato quello che oggi chiameremmo un centro sociale. Lì – come racconta Franco Loi nel suo romanzo in versi L’angel – avevano sede innumerevoli associazioni e comitati politici (compreso – ahimè – il nucleo originario delle Brigate Rosse). Dentro, l’ex-albergo era fatiscente e crollante, ma in certe stanze – ricordo – c’erano ancora i letti a baldacchino e i tendaggi di velluto, carichi di polvere. Ora, il 12 dicembre del 1969, in Piazza Fontana l’Hotel Commercio non c’è più: è stato sgomberato in agosto, e subito demolito.

 

Interrogo mio fratello. Altro che caldaia: è stata una bomba, e anche bella grossa. Si parla di decine di morti e feriti. È tremendo. Ma chi può essere stato? 

In mezzo alla folla c’è chi pretende di saperlo: sono tre o quattro agitatori fascisti (alcuni li conosciamo), che girano imprecando contro i “cinesi”. Maledetti cinesi, assassini. Dico a mio fratello che è il caso di filarsela subito: i “cinesi” siamo noi, e riconoscerci non è difficile: eskimo, jeans, anfibi, capelli lunghi…

 

Attraversiamo il Verziere, Via Larga, andiamo alla Statale. E dove, se no? È casa nostra. Io studio lì, ma non è questo il punto. Anche i miei fratelli, che devono ancora finire il liceo, gravitano intorno alla Ca’ Granda. Da tempo l’università è il più importante punto di riferimento della sinistra extraparlamentare a Milano. Il Movimento Studentesco non ha ancora una struttura organizzativa stabile e solida, ma è molto attivo in città, e ha contatti anche con le fabbriche (dopo l’autunno caldo delle mobilitazioni sindacali – appena passato – l’obiettivo è di unire le lotte degli studenti con quelle degli operai). 

 

Chi cerchiamo? Cosa facciamo, quella sera? Non ho ricordi precisi. Tutti e due (e Andrea, l’altro nostro fratello, che non è con noi) siamo impegnati politicamente (ognuno a suo modo), ma non siamo ancora – come diventeremo poco più tardi – dei militanti effettivi a tempo pieno (io sono vagamente “situazionista”). Solo di lì a qualche mese entreremo a far parte del “servizio d’ordine” del Movimento Studentesco (cupamente appellato “katanga” da qualche sciagurato). Alla Statale andiamo per condividere coi compagni (il termine oggi fa sorridere) lo smarrimento e l’allarme che vengono dalla bomba appena esplosa. Non possono certo essere i “cinesi” ad averla messa. I “cinesi”, l’ho detto, siamo noi, e non faremmo mai niente del genere. E poi, perché? Il nostro scopo non è di creare terrore, di fare strage di persone innocenti: è quello di lottare insieme a tutti (alle masse) per un mondo più giusto. 

 

Quasi subito, comunque, parte la “controinformazione” (termine chiave in quegli anni). Non c’è internet, non ci sono i social network, non ci sono gli smartphone; non ci sono nemmeno le cosiddette “radio libere” (arriveranno qualche anno più tardi): tutto passa attraverso la stampa, il ciclostile (ricordo la marca: Gestetner), i volantini, i ta-tze-bao (così si chiamano, sul modello cinese, i grandi cartelli vergati a pennarello rosso e nero e appesi ai muri). Al telegiornale (c’è solo quello della RAI, in bianco e nero), alle prime pagine dei grandi quotidiani che prontamente, a titoli cubitali, accusano senza esitazione gli anarchici, bisogna opporre una verità “alternativa”, e diffonderla tra le masse. Bisogna smontare la versione ufficiale, smascherarla. 

“La strage è di stato”, è lo slogan. Nei giorni successivi, siamo tutti impegnati a diffondere i volantini che mettono in guardia dall’informazione “dei padroni” (altro termine d’epoca) e invitano alla vigilanza e alla mobilitazione. 

 

 

Lotta impari. Pochi giorni dopo arriva la notizia che nella notte tra il 15 e il 16 dicembre un ferroviere anarchico, Giuseppe Pinelli, fermato e interrogato in Questura perché sospettato, si è “suicidato” (ammettendo così la sua colpevolezza, si sottintende) gettandosi dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. 

La notizia mi fa ancora più impressione perché conosco quella stanza: dal commissario Calabresi sono stato interrogato anni prima, giovanissimo, dopo essere stato fermato per manifestazione non autorizzata (ero in piazza a favore dell’obiezione di coscienza, per sostenere Andrea Valcarenghi, in seguito leader di Re Nudo). A me il commissario Calabresi aveva fatto una buona impressione: elegante, con la sua giacchetta di buon taglio e il maglione dolcevita color pastello; non sembrava nemmeno un poliziotto. Era stato molto gentile e paterno (capiva che ero un ragazzino, e non contavo nulla); ma il “volo” di Pinelli dalla finestra del suo ufficio (con un “balzo felino”, gridando “è la fine dell’anarchia!”, secondo la versione del questore Guida) puzza assai di bruciato. Oltretutto, Pinelli è stato trattenuto illegalmente, senza autorizzazione del magistrato, e le circostanze del suo “suicidio-confessione” risultano molto, molto sospette. La finestra – secondo la versione ufficiale – era aperta “per il caldo” (il 15 dicembre, a Milano!). 

 

Quella sera a Milano era caldo,

ma che caldo, che caldo faceva!

Brigadiere, apra un po’ la finestra…

Ad un tratto, Pinelli cascò. 

 

recita una canzone scritta dagli anarchici dopo il funerale, sulla musica della ballata popolare Il feroce monarchico Bava. (Quante volte le ho cantate entrambe).

 

Il 16 dicembre siamo, come ogni sera, davanti al telegiornale: un Bruno Vespa giovanissimo e capelluto, in collegamento dalla Questura di Roma, dichiara che il colpevole della strage è stato finalmente individuato: è un anarchico, Pietro Valpreda. Siamo allibiti, increduli. Quello che più colpisce è l’unanimità con cui stampa e tv di Stato (altre non ce ne sono) nei giorni successivi gridano al “mostro”, alla “belva umana”. Persino il fatto che l’accusato abbia fatto il ballerino viene additato come una colpa (si insinua anche che sia omosessuale). I giornalisti – televisivi o no – non hanno dubbi. Altro che “garantismo”: prima ancora che si celebri un processo, Valpreda viene identificato come l’autore certo dell’attentato (in quegli anni, la formula “presunto colpevole”, oggi d’obbligo, è di là da venire). L’opinione pubblica ha urgente bisogno di un capro espiatorio. Ma noi – noi “cinesi” – non siamo per niente convinti. Continua la “controinformazione”, coi pochi mezzi che abbiamo a disposizione: volantini, manifesti, assemblee, cortei, comizi. “Valpreda è innocente”, lo slogan. Il seguito si sa.

 

A proposito della strage di Piazza Fontana, qualcuno ha parlato di “perdita dell’innocenza”. Più che dell’innocenza, io direi della verità. O, meglio, di una certa idea di verità. Questa è la mia sensazione. Con l’inizio della “strategia della tensione”, nel 1969, è cominciata per il nostro Paese una lunga epoca, che dura ancora, in cui (come faccio dire al mio omonimo nel racconto in versi Il Conoscente, uscito nel 2019) “nuotiamo nel mistero come muggini/ dentro la rete./ Tutto è segreto, tutto/ ci sfugge… Tutto è nascosto,/ in questo povero posto”. 

In realtà, negli ultimi cinquant’anni, qualcosa è emerso. Che Valpreda non fosse l’autore della strage, che a progettarla e a eseguirla siano stati fascisti e servizi segreti deviati è stato dimostrato (almeno in parte). Ma lo sappiamo: dagli interminabili processi non è venuta fuori tutta la verità. Su Piazza Fontana, e su tanti altri misteri successivi della storia italiana. Per decenni, fino a oggi, noi ci siamo dovuti abituare a vivere “senza verità”. Senza una verità – voglio dire – certificata, completa, definitiva. Nella mia esperienza – da quando avevo vent’anni a oggi – questo ha messo in questione la nozione stessa di verità. Nel libro che ho citato, il Conoscente (losco protagonista della storia) ride della mia pretesa di essere “sempre meno all’oscuro”. Lui sì che sa come stanno le cose, cosa c’è dietro il mondo, sotto il mondo: ma non lo dirà mai. È sul segreto, celato e insieme esibito, sulla vergogna e sull’impotenza del nostro non sapere, che si fonda il potere. Piazza Fontana, e tutto quello che è seguito in questi cinquant’anni, ci hanno costretto a ragionare su che cosa sia, la verità. Se crediamo che qualcuno abbia potuto sottrarcela, ci siamo fatti una certa idea sulla sua natura. Il mio omonimo, nel libro, cerca di reagire a questa idea insopportabile: la verità – dice –

 

“non è un’informazione 

sicura, una notizia

di quattro righe o di cento

data o non data, un documento

sepolto in qualche armadio (…) 

non è un oggetto che si lascia prendere,

spostare, chiudere a chiave.

Non è una serie di dati (…)

Se lo fosse, allora dovremmo dire

che in questi anni,

non potendola avere 

in mano, su uno schermo, sul giornale, 

noi siamo stati senza verità: 

dovremmo dire insomma che le nostre

non erano vite vere, 

che qualche ministro, un paio di generali,

due o tre faccendieri, quattro spergiuri,

sono riusciti a cancellare il mondo, 

a fare di terra e cielo, 

degli uomini, degli alberi, del mare, 

un semplice sospetto, una congettura 

tutta da dimostrare”.  

 

Molte volte ho cercato, in questi anni, di mettermi nella testa di quelli che avevano ordinato la strage e di quelli che l’avevano eseguita. La nostra immaginazione –scavando nella dimensione occulta che li protegge – tende a raffigurarseli come dei superuomini, dei semidei. Tutto ciò che è nascosto si ammanta sempre di un’aura di onnipotenza. Il mistero invece, mi pare, è proprio quello della loro umanità. È questo che ci interroga ancora oggi, e fatica a trovare una risposta. Il mio omonimo, nel libro, argomenta disperatamente:

 

“E poi, quale segreto miserabile

gli resta in pugno, ormai?

Cos’hanno guadagnato, cosa guadagnano

coi loro tradimenti, coi loro crimini,

i nostri burattinai?

(…)

Hanno forse ottenuto la ricetta

per l’immortalità? Sono sfuggiti

al dubbio, alla tristezza, alla paura?

Vivono eterni e sereni, sopra le nuvole?

Non hanno più desideri?

Che cosa credono mai di sapere

più di quel poco che sappiamo noi,

che ogni uomo sa sempre? Non c’è imbroglio,

non c’è trucco o menzogna

che possa cancellarlo. Non è una cosa

che si può dare o togliere, la verità”

 

Questo, beninteso, non significa che si debba rinunciare a indagare sulle responsabilità, sulle colpe, a ricostruire la storia. Continueremo a farlo. Ma forse i segreti e i misteri che incombono su di noi da Piazza Fontana in poi ci spingono a metterci sulle tracce di un’altra verità, una verità che nessuna trama oscura, nessun potere occulto può sottrarci.  

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