Populismo svizzero

12 Febbraio 2014

Nel giugno del 1973, un giovane immigrato italiano a Zurigo si trovava presso una scuola italiana della città, per realizzare una prova scritta, superando la quale avrebbe potuto ottenere la licenza media. Nel tema, intitolato “Descrivi il paese che ti ospita”, scrisse: “Qui in Svizzera mi trovo benissimo sia sul lato finanziario, sia per la comprensione dimostratami dai cittadini svizzeri, certo il loro modo e il loro sistema di vita è assai diverso dal nostro. Un grande pregio del popolo svizzero è per me la sua pazienza e tolleranza, per cui riesce a convivere con tutte le razze del mondo. Secondo il mio punto di vista, credo che questo significhi una certa maturità di cultura e di Democrazia del popolo svizzero. Fino ad oggi mi sono trovato molto bene, tanto è vero che considero la Svizzera la mia seconda Patria. Sempre che Schwarzenbach e comp. lo permettano”.

 

Chi era questo Schwarzenbach che avrebbe potuto impedire al nostro emigrato di considerare la Svizzera una seconda patria? E come era possibile che in un paese così apparentemente tollerante, quasi una patria universale, si potesse accettare che qualcuno impedisse a uno straniero di considerarsi a casa?
James Schwarzenbach fu l’animatore dell’Azione nazionale contro l’inforestierimento – dal tedesco Überfremdung – il più importante movimento xenofobo nella Svizzera del periodo. Tra gli anni Sessanta e Settanta, quel movimento propose delle iniziative referendarie volte alla riduzione della presenza di immigrati nel Paese, attraverso un sistema di quote.

 

 

Tali misure avrebbero colpito soprattutto gli italiani, che all’epoca costituivano la maggioranza degli immigrati. Secondo gli slogan e le parole d’ordine dell’Azione nazionale, la popolazione straniera era diventata troppo numerosa per poter essere sopportata da un territorio che aveva risorse e spazi limitati, tradizioni culturali e un sistema pedagogico incapaci di reggere l’invasione degli stranieri. Le iniziative Schwarzenbach, tuttavia, facevano anche leva sulla xenofobia operaia, sulla paura dei lavoratori locali di vedere i propri salari ridotti oppure di perdere il proprio posto di lavoro a causa della concorrenza di immigrati che, tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni Sessanta, erano giunti nella Confederazione a centinaia di migliaia. A sostegno dell’iniziativa si schierarono, non per caso, alcune organizzazioni sindacali e forze di sinistra, mentre furono sempre contrarie le organizzazioni degli imprenditori, da una parte, e chi si occupava dei diritti dei migranti, come le chiese, dall’altra.

 

Tutte le iniziative Schwarzenbach vennero sconfitte e, con loro, l’Azione nazionale.

Proprio per questo, l’iniziativa anti-immigrazione votata in Svizzera pochi giorni fa assume particolare rilevanza. Non si tratta di un’iniziativa nuova e isolata, come quella che nel 2009 chiedeva di impedire la costruzione di minareti sul suolo elvetico. L’iniziativa “Basta immigrazione di massa”, proposta quest’anno dall’Unione democratica di centro (UDC), partito erede dell’Azione nazionale, avendo ottenuto la maggioranza del consenso popolare, segna un momento di svolta nella storia politica della Confederazione Elvetica. Nel dettaglio, l’iniziativa chiede l’integrazione nella costituzione di alcuni articoli volti al contenimento quantitativo degli stranieri. Questi articoli, qualora venissero realmente integrati nel testo costituzionale, implicherebbero la caduta degli accordi bilaterali stipulati tra la Svizzera e l’Unione Europea.

 

In quest’occasione, la ricerca del consenso popolare ha visto le forze a sostegno dell’iniziativa impegnate nell’elaborazione di due strategie e polemiche distinte. Da una parte, nei cantoni interni si è fatto leva su temi xenofobi tradizionali, sostenendo che il paese non dispone di risorse sufficienti per tutti – dagli ospedali, alle scuole, alle abitazioni – oppure che l’invasione minaccia la cultura e le tradizioni locali. Mentre nei cantoni di confine, e in particolare nel Cantone Ticino, la polemica ha colpito i frontalieri, una categoria molto particolare di lavoratori stranieri. Si tratta di persone residenti all’estero, in una fascia di territorio compresa entro un raggio di 20 km dal confine elvetico, ma che lavorano in Svizzera, dove si recano ogni mattina, con l’obbligo, da statuto, di tornare a casa la sera.

 

 

Nel Cantone Ticino la votazione ha assunto i toni di un’iniziativa contro questi lavoratori, ritenuti responsabili dell’impoverimento dei locali poiché, vivendo in un paese con un costo della vita e un livello salariale molto inferiori, sarebbero disposti ad accettare condizioni insostenibili per i ticinesi. La polemica, in verità, è molto articolata e colpisce in modi diversi le differenti categorie di frontalieri, a seconda delle loro specificità. Frontalieri, infatti, sono gli infermieri che operano nelle case di cura, come gli interinali impiegati da grandi aziende, o gli artigiani e i lavoratori edili – i cosiddetti padroncini – che possono essere reclutati in Italia da enti pubblici o privati, ottenendo i permessi di lavoro semplicemente notificando la loro presenza via internet, dal sito del Cantone.

 

Il 68% dei ticinesi ha votato a favore dell’iniziativa – e si tratta della percentuale più alta di tutta la Confederazione, dove in media i “sì” hanno superato di poco il 50% – dimostrando come in questo momento storico la loro principale paura sia trovare gli strumenti per difendere quello che considerano il loro mercato del lavoro. Per farlo hanno sostenuto – e si sono aiutati con – più generiche polemiche di carattere anti-italiano, come quelle per cui gli italiani avrebbero una guida disordinata e pericolosa – responsabile di un incremento degli incidenti mortali nel Cantone – oppure sarebbero un popolo di inaffidabili, arraffoni, ladri.

 

Il ruolo dei lavoratori italiani nell’economia ticinese è, del resto, molto più complesso di quanto appaia dalla descrizione qui proposta. La loro presenza, in generale, ha consentito alle ditte ticinesi di essere competitive rispetto a quelle svizzero-tedesche, così come consente ai lavoratori ticinesi di pagare meno cari dei servizi che, senza frontalieri, risulterebbero per loro proibitivi. Proprio per questo, un voto così massiccio a favore dell’iniziativa, contro gli stranieri e contro l’Europa, con il suo portato di rancore, di furia, di voglia di risolvere problemi così complessi con frettolose soluzioni pragmatiche, ci illumina ancora una volta circa la direzione e la fisionomia che possono assumere le derive populiste, in anni di crisi come quelli che stiamo attraversando. Sarebbe forse opportuno guardare all’esito ticinese come a un esito che ci riguarda, che ci parla di noi e di dove potremmo andare. Soprattutto in Lombardia, dove la Lega Nord ha sempre considerato la Lega dei Ticinesi come uno dei suoi interlocutori internazionali più importanti.

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