Massimo Rizzante / Quattro sentieri per immaginare

16 Novembre 2020

«La poesia nasce dalla poesia della vita, 

ovvero da ogni singolo nodo di gordio storico ed esistenziale.

Chi la studia, di solito, è seppellito dalla logica» 

(Massimo Rizzante, Una solitudine senza solitudine, Effigie, Milano 2020)

 

Scrivendo di questo libro che raccoglie trent’anni di scrittura in versi di Massimo Rizzante (Lettere d’amore e altre rovine 1989-1998, Nessuno 1999-2006, Scuola di calore 2007-2012, Benvenute, vertigini!, 2013-2019), assumo come viatico, se non addirittura come talismano, i versi che ho posto in exergo perché l’opera esige e merita un’attenzione che invece di notomizzarla con sicumera accademica, si lasci al contrario pervadere e conquistare seguendo, a mio avviso, almeno quattro sentieri: quello dell’immaginazione, quello dell’«ossessione di avere continuamente innanzi a sé l’ignoto», quello della fragilità e, infine, quello di un’attitudine nomade dell’esistere e del pensare. 

Immaginare è, per Massimo Rizzante, il liquido amniotico in cui nascono il pensiero e la sua eticità, perché immaginare per lui non è affatto un andare alla deriva o un navigare a vista tra i continenti del sogno e dell’invenzione, ma la capacità, che è anche sentimento dell’esistere, di accogliere dentro di sé il mondo e le persone che lo abitano. Questo, infatti, è soprattutto un libro popolatissimo di individui, dei loro pensieri, dei loro sentimenti e delle loro storie, che con coraggio fa i conti con la Storia, che per Rizzante è sempre un mostruoso, immane mattatoio che, spesso, dilania quei medesimi individui. 

Accade così che il 1989 non sia solo l’anno della caduta del muro di Berlino e del disfarsi del blocco sovietico, ma anche l’anno d’avvio del lavoro intorno al primo volume che compone Una solitudine senza solitudine. Rizzante riflette, ragiona in versi, spingendo il suo pensiero poetico fino ai confini del ritmo, dando così vita a ampi fraseggi, il cui respiro coincide con la vastità degli spazi geografici esplorati –  da Mosca a Novi Sad, dalle Fiandre al Marocco, dall’America Latina alla Spagna e al Portogallo –, spia che costituisce un altro dei sentieri da seguire per entrare nella sua opera.

 

In questo libro la solitudine necessaria allo scrivere si nutre della presenza costante (è, appunto, senza solitudine) di sodali frequentati personalmente o conosciuti tramite le loro opere – si chiamino essi Zbigniew Herbert o Josif Brodskij, Juan Goytisolo o Roberto Bolaño, Alejandra Pizárnik o Miguel Torga, Luis Cernuda o Enrique Lihn  – e di persone comuni, come le indimenticabili donne di Scuola di calore e le altre figure femminili che si profilano in molte pagine della stessa raccolta, intelligenti e ironiche, pragmatiche e consapevoli, spesso sofferenti e ferite, sempre contraltari del maschio violento e puerile. Fino al Telemaco di Nessuno, una sorta di alter ego di Rizzante e disincantatissimo figlio di un padre immaturo ed egoista.

Di fronte alla Storia, violenta e offensiva, l’immaginazione è la sola energia in grado di catalizzare e conservare il nostro istinto di sopravvivenza. Moltissimi sono i testi che a questo proposito amerei citare, ma mi limito a un esempio: la poesia A Danilo Kiš

 

dopo la fine degli imperi, la posizione dell’uomo

è ancora quella di neanderthal: eretta  

ma non tanto da dare nell’occhio

a sinistra, sopra il mio tavolo, il grande serbo  

legge l’ultima edizione della bibbia

dal punto di vista di Belgrado è un discendente di simon mago

quanto al resto, i corpi ufficiali si spogliano nei bordelli di Buda 

il popolo rutta, ma si mantiene esperto nell’arte di morire 

le lancette fanno a gara con l’ozono ma sopravvivremo: 

è questa la sola certezza di nemo in rotta verso il suo anagramma

 

Leggendo il libro e ascoltandone le numerose voci incrinate dal dolore e dalla speranza, costrette in luoghi sordidi e a tessere storie di soprusi, seguendo insomma il secondo sentiero, «l’ossessione di avere sempre innanzi a sé l’ignoto» – cioè la passione per il mondo e per i luoghi e per tutto quello che è vita, non cerebrale letteratura, sentimento, non sentimentalismo, chiarezza di visione, non freddo e superiore distacco –, mi sono venute in mente le fotografie di Miguel Rio Branco scattate nei bordelli, nelle palestre e nelle strade di Bahia. Gli oggetti, i muri, le ombre, i tagli di luce amaranto o azzurra fotografati possiedono la stessa intensità che è possibile riconoscere in questi testi poetici. Anche le voci che raccontano le situazioni più scabrose conservano, così per Rizzante come per l’obiettivo fotografico di Rio Branco, una tale sapienza di ciò che è umano da rivelare che la poesia qui scaturisce dalla vita, è la vita stessa: lancinante e spudoratamente sincera (e perciò etica) la voce della grande poetessa Alejandra Pizárnik può allora farsi udire accanto a quelle di Iman, di Olga, di Rachida, di Sophie e di tantissime altre donne che in questo libro prendono la parola con la dignità di chi ha compreso, e non solo subito, l’offesa del mondo.

Si legga, ad esempio, il testo che apre Scuola di calore, Fatima-Zahra

 

io sono Fatima-Zahra e tu sei il mio profeta

falso e affascinante come tutti i profeti

nella mia infanzia non ho avuto infanzia

a tredici anni tu, habibi, leggevi Kafka

 

da una terrazza di Djemaa el fna, Juan Goytisolo

guarda le cicogne: la loro casba è un labirinto di rami

intrecciati per noi, per ostacolarci il cammino, per ricordarci

che la terra promessa non è qui, che viviamo nel deserto

 

 

tra qualche giorno – dice – migreranno: ora ci sono 

le prove di volo. Che altro, mio profeta? Primo, la povertà 

è al di sopra di tutte le leggi. Poi, non c’è salvezza

in nessun gregge. Infine, l’amore è mendicare senza orgoglio

 

come il vecchio Hasan. La cecità gli ha tolto lo spettacolo

dei mangiafuoco e degli incantatori di serpenti

ma non la grande estraneità. Hasan che ha imparato

alla scuola del calore la chiaroveggenza dell’insonne

 

così, passo dopo passo, le mie gambe sordomute

si affrancheranno dalla schiavitù delle tue parole

ma oggi, alla quinta chiamata, come cicogne mendicanti

chiedono tempo, tempo e denaro, denaro e sesso

 

io sono Fatima-Zahra e tu sei il mio profeta

falso e affascinante come tutti i profeti

la mia gioventù, come la tua, è stata prostituzione

solo che tuo padre, habibi, la chiamava arte. 

 

Il terzo sentiero da percorrere, se desideriamo inoltrarci nel territorio poetico di questo libro, è quello che ci conduce alle soglie dell’atto pienamente cosciente, e perciò deliberatamente scelto, di accettare da parte del poeta la propria consustanziale fragilità (da non confondersi con la debolezza o l’arrendevolezza) di fronte alla violenza della Storia e di vedere nel femminile e nel materno il vero cardine della vita e della possibilità che il mondo resti umano. In questo senso, lo stesso respiro poetico e intellettuale di Rizzante è di genere femminile, in quanto presenza, cura e costante rigenerazione della vita contro ogni autoritarismo e cieco maschilismo (che, in fondo, coincidono) che dominano e attraversano – straziandole – le storie individuali: 

 

Quando penso alla Storia, mi viene in mente un mattatoio attorno al quale un gruppo di maschi, sazi del lavoro compiuto, danzano in piena erezione.

La donna soccombe, e ogni volta che una donna soccombe alla monolitica virilità dell’uomo è un pezzo di civiltà che se ne va. Non è una sconfitta della donna, ma dell’uomo che non è riuscito a far propria la sua parte di femminilità, cioè dell’uomo che non è riuscito ad accogliere la femminilità come valore e che perciò continuerà a mutilare e a rendere inferma la donna, oltre che se stesso.

 

Il quarto sentiero da prendere, e di cui si è accennato sopra, è quello dell’incessante nomadismo. In ciò questo gran libro non è diverso da tutti gli altri che Rizzante ha scritto. Sullo sfondo di un orizzonte sovranazionale, la sua attitudine artistica si manifesta nell’instancabile muoversi (anche fisicamente da un luogo all’altro del pianeta) e nel costante dialogo allo scopo di coltivare un albero del leggere, dello studiare e dello scrivere le cui radici uniscono tutti i continenti e tutte le epoche. Tanto che si potrebbe affermare che se il romanzo è il grande campo di attrazione del Rizzante saggista, la sua poesia ne è il respiro, il suono, il ritmo. Se il suo versificare tende alla prosa forse dipende anche da questo. Ma, forse di più, dall’aver scoperto un modo originale, peculiare e ben individuato di scrivere in versi rispetto al vasto panorama della poesia italiana ed europea di queste ultimi decenni. E che la sua scrittura in versi nasca da un moto antilirico, che abbia cioè bisogno di un respiro in grado di interrompere il discorso, la chiacchiera, il pervasivo story telling del nostro tempo, attraverso cambi costanti di unità ritmiche o costruendo strofe narrative e, a volte, articolati poemetti, non è che un’ulteriore dimostrazione che l’autore non ha mai smesso di inseguire tonalità e timbri dettati dalla sua più profonda esigenza espressiva.

Scrive, infatti, Rizzante in un passaggio di Telemaco nella stanza del drago:

 

ma la prosa custodisce la poesia come un frutto il suo nocciolo: senza la stanza del drago, oscura, invincibile e  senza tempo neppure le altre stanze del mondo, agitate da migliaia di corpi e di anime, potrebbero essere immaginate con lo stesso dolore. [...] Così alla fine una parte di me continua a domandare, mentre l’altra combatte contro il drago. La poesia è questa lotta contro il drago. Questa lotta non può finire. Io non posso sconfiggere il drago, pena la fine della mia creazione. Il drago non può morire. E con lui neppure io. 

 

Si tratta del paradosso, come si vede, del vivere stesso, inscindibile dalla morte o dal dolore. Ma, poi, c’è in ogni pagina di questa poesia la determinazione a smascherare i falsi miti, i vezzi e i vizi di molti intellettuali occidentali la cui cultura, priva ormai di nerbo, si balocca con le proprie amate post-verità – tanto inutili quanto prive di oggetto –, mentre la barbarie irrompe. Eccone un esempio da Rapporto dal regno di Fiandra

 

eppure in un bugigattolo di cianfrusaglie

vicino al porto di Alessandria

nel 1933 – sì, lo stesso del nuovo cesare – 

nel giorno della sua morte 

un poeta greco si informava sulla qualità

di alcuni fazzoletti di seta 

un carico dalla Siria – 

 

ah è proprio dell’uomo europeo 

salutare la barbarie sventolando un fazzoletto di seta!

 

Rizzante realizza così, lungo trent’anni di coerentissima scrittura in versi, un programma ambizioso e chiarissimo: affrancarsi dal vizio sterile dell’estetismo e dell’autocompiacimento, fare i conti con la Storia, ricordando sempre che, come scrive in Ricordi della natura umana

 

quando i poeti dormono, la parola giustizia

diventa un termine ingiurioso, dato che chi veglia

danza sulle note della dialettica, del materialismo,

del progresso, o di come altro diavolo si chiama...

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