Speciale

Rainer W. Fassbinder: l'uomo e il bambino

24 Febbraio 2015

Pochi, perfino tra i cinéphiles, sanno che a Roma vive una Fassbinder. Ha lavorato per tutta la vita in Vaticano, occupandosi di miniature medievali, dopo essersi laureata in Storia dell’arte a Friburgo. È la zia del grande regista tedesco, la zia “giovane”, l’ultima sorella del padre, Helmuth. Oggi Elisabeth ha novant’anni ed è nata anche lei in maggio, come il nipote. Una volta al mese va alla Casa internazionale delle Donne dove si riunisce con le sue amiche di lingua tedesca per un periodico scambio di opinioni su ciò che accade nel mondo: «Abbiamo anche festeggiato la caduta di Berlusconi con lo champagne», dice ridendo.

 

 

È qui che la raggiungo per sapere del suo rapporto con il genio della famiglia, Rainer Werner Fassbinder. Il quale, mi racconta, quando aveva 17 anni, chiese a tutti i parenti se potevano dargli qualcosa per girare il suo primo film: «Io non avevo un soldo, non potevo aiutarlo, ma la cosa grave fu che nessuno gli diede retta, nemmeno il padre lo finanziò. A quell’epoca il costo del materiale per fare un film era cento volte quello di oggi. Lui si offese molto».

 

Il mancato appoggio della famiglia, per fortuna, non fermò Fassbinder, che vedeva chiaramente quale sarebbe stata la sua vita. «Andava sempre al cinema, soprattutto film americani, anche quando era piccolo», dice Elisabeth, confermando ciò che lo stesso Rainer amava sottolineare nelle interviste: «Al cinema ci sono andato per la prima volta a cinque anni – dice nel 1974 a Wielfred Wiegan, un critico cinematografico tedesco – e ho iniziato con i western. Poi, dai sette anni, vedevo di tutto, andavo al cinema veramente una volta al giorno, più avanti anche due o tre volte al giorno». Ma Elisabeth, donna religiosissima, quando Rainer era piccolo preferiva portarlo in chiesa: «Una volta – ricorda – l’ho portato con me in una chiesa trecentesca di Monaco, aveva tre anni e mezzo. Si è arrampicato sull’altare e non voleva più scendere. Poi, un’altra volta, siamo andati a messa nella chiesa benedettina, ma non gli piaceva. Troppa solennità, si annoiava. Tanto ha fatto che mi ha trascinato fuori dai banchi e dalla chiesa».

 

All’epoca il piccolo Fassbinder viveva a Monaco in una casa di Sendligerstrasse, che era un viavai di gente, perché la madre ospitava i parenti profughi della Germania Est. Era «un ambiente familiare semicaotico – dice Rainer nella stessa intervista – che non corrispondeva certo alle norme borghesi», un’esperienza che certamente lo influenzò molto, in quanto a stile di vita, negli anni a venire. Alla seconda delle due chiese citate da Elisabeth fa presumibilmente riferimento anche la madre di Rainer in un documentario tv realizzato da Hans Günther Pflamm per il decimo anniversario della morte del regista: «Un giorno – racconta – quando stavamo tutti a Sendligerstrasse, la nonna mandò Rainer a comprare il sale. Il tempo passava e lui non tornava. Preoccupata, uscì a cercarlo e lo trovò nella chiesa vicina, nei pressi dell’altare. Per due volte gli fece cenno di tornare, ma lui scosse la testa e le disse: “Hai detto che Dio è in questa chiesa, ma io non lo vedo da nessuna parte!” ».

 

Ich will doch nur, daß ihr mich liebt (I Only Want You to Love Me), 1976

 

Elisabeth tiene a precisare che la famiglia Fassbinder era tutt’altro che priva di cultura, come ha sentito dire in una recente trasmissione a RadioTre: «Lui imparò la poesia dal padre, mio fratello, che lavorava come medico, ma aveva una grandissima cultura. Spesso organizzavano una specie di teatro a due voci, al quale Rainer assisteva da piccolissimo. Il suo amore per il teatro probabilmente è nato da qui. Non a caso, siccome non riusciva a raggiungere la maturità, alla fine si iscrisse a un corso di drammaturgia». Ancora nell’intervista concessa a Wiegan, Fassbinder ricorda infatti che «nell’appartamento in cui abitavamo non si trovavano altro che libri d’arte e di letteratura» e che «quando mio padre aveva un po’ di tempo per me, cosa che più o meno accadeva ogni cinque anni, arrivava e leggevamo insieme il Faust al registratore, o cose del genere». In una lunga intervista televisiva concessa nel 1978 a Peter W. Jansen, precisa: «Tutto quello che ho vissuto da bambino, da ragazzo, a scuola e a casa dei miei genitori traspare nei miei film. E il fatto che in alcuni di essi non ci siano bambini non significa che le esperienze che ho vissuto durante l’infanzia non siano presenti nei miei film. Una possibile interpretazione è che la mia infanzia non può essere considerata un’infanzia come le altre».

 

Nel 1950 i genitori divorziano, Rainer – che ha cinque anni – abbandona la casa piena di gente e va a vivere con la madre, Liselotte Pempeit, detta Lilo, che un giorno farà recitare nei suoi film. «Lilo era una ragazza che veniva da Danzica – racconta Elisabeth – molto fragile, molto bella. Lui la voleva tutta per sé, ma lei si risposò. Con il patrigno non si potevano vedere, lo cacciava sempre di casa e Rainer era costretto a una vita da strada, proprio nel momento in cui cercava protezione. Dopo il divorzio tra Helmuth e Lilo, l’idea era che Rainer lo prendessero i miei genitori, ma erano troppo anziani e sapevano che fuggiva da ogni scuola e quindi avevano paura di assumersi quella responsabilità». La scuola aveva regole che non facevano per lui: «Alle elementari c’erano classi anche di cento alunni e le aule erano molto grandi – racconta ancora Lilo Pempeit nel documentario di Pflamm – lui era seduto in fondo alla classe e non vedeva bene la lavagna, per cui era comprensibile si distraesse. Un giorno la maestra non lo vide attento, andò al suo banco e gli diede un ceffone. Rainer si alzò e percorse tutta l’aula gridando Aiuto! Polizia! E poi, rivolto alla maestra: lei non ha il diritto di picchiarmi. Dovetti trasferirlo, lo mandai alla scuola steineriana, dove le classi erano al massimo di trenta persone».

 

Elisabeth è innamorata del cinema di suo nipote, che «ha anticipato molte cose: basti pensare a Katzelmacher, nessuno aveva raccontato i problemi degli emigranti in Germania prima di lui», la diffidenza, il razzismo. Così come in La paura mangia l’anima, dove una donna sposa un nero e a poco a poco perde la rispettabilità del suo quartiere. «Faceva tutto come in un sogno – dice ancora Elisabeth – e forse le droghe gli servivano per questo, come nel suo teatro, dove gli attori recitavano in trance. Rainer era come un mago. E come ha scritto un critico inglese, è importante per il futuro non per il passato». Non si sono mai incontrati a Roma, anche se qualche volta lui veniva in Italia, ad esempio per girare le scene inziali di Martha. I contatti Elisabeth li teneva con suo fratello Helmuth, o con Ingrid Caven, attrice e migliore amica di Rainer, che a un certo punto decise di sposare: «Il suo matrimonio è stata una cosa dolcissima. Ingrid vive a Parigi e mi ripete sempre che Rainer era un idealista al cento per cento. Rainer era un ragazzo delicatissimo. E com’era bello in certe foto da giovane, poi forse l’alcol, forse la droga l’hanno trasformato». A dire di Ingrid, la cosa più affascinante di Rainer era che «in lui nulla era nascosto, tutto era esplicito, nulla era fossilizzato. Noi ci dicevamo: non è possibile, come si fa a essere così aperti e onesti?».

 

In einem Jahr mit 13 Monden (Un anno con tredici lune), 1978

 

Elisabeth preferisce soffermarsi sul matrimonio piuttosto che sulle storie omosessuali di Rainer, che viceversa – come dice in Germania in autunno, dove recita se stesso – giudicava il matrimonio «una forma di convivenza artificiosa» e, sempre nell’intervista a Peter Jansen, parlò del suo come di «una grande fesseria». Eppure Elisabeth ricorda che quando l’amante di Rainer, Armin Meier, nel maggio ‘78, si suicidò, lei con altri andarono a Monaco, suonarono per diversi giorni alla sua porta, senza che mai aprisse: «Era distrutto, è andato avanti così per alcuni mesi». Più avanti gli scriverà una lunga lettera, invitandolo nella sua casa di Nemi, nella campagna romana: «Voleva prendersi una pausa di un anno, diceva che voleva capire che cos’è la musica. Gli ho scritto che gli mettevo a disposizione la casa di campagna, dove avrebbe avuto anche un pianoforte a coda. Sarebbe stato tranquillo. Ma non venne». Era un artista che doveva lavorare freneticamente, girare un film dopo l’altro, una pausa di un mese tra un film e il successivo era qualcosa di incredibile per lui: «Ho sempre la sensazione di voler smettere – disse – di fare una pausa di un anno, ma già alla prima settimana non ce la farei più. Leggerei qualcosa sul giornale, oppure qualcuno mi racconterebbe una storia e nello stesso istante sarei convinto di doverla fare».

 

Non si è mai fermato, 40 film, la maggior parte per il cinema, alcuni per la televisione, per non parlare del lavoro teatrale. Tutto questo tra il 1969 e il 1982, tra L’amore è più freddo della morte e Querelle. «Dopo la sua morte – conclude Elisabeth, mentre la sala ristorante della Casa delle Donne si è fatta quasi deserta – Lilo mi ha raccontato che era andato in Tibet e aveva cercato questa religione per non togliersi la vita. Quello che posso garantire è che nessuno di noi ha mai detto che fosse malato, se non forse il padre, il quale credo non l’abbia mai capito. È morto solo e se n’è andato così giovane. Per noi è stato terribile. Terribile». Nel suo primissimo cortometraggio, Il piccolo caos, il personaggio interpretato dallo stesso Fassbinder dice già tutto: «In fondo vorrei solo vedere un thriller a lieto fine». E non a caso, il film forse più autobiografico ha per titolo: I only want you to love me. Il suo ultimo film è Querelle de Brest e non terminò di montarlo. Verso la fine c’è questo monologo di Querelle: «Mi sento triste, sento in me l’autunno, l’infestazione, le ferite sottili e dolorose della morte». L’ultima inquadratura mostra una lettera autografa di Jean Genet, che conclude: «Tranne i suoi libri non sappiamo niente di lui, neppure la data della sua morte, che prevede vicina».

 

Questa converzazione, con titolo «Un genio già da bambino. Parla la zia di Fassdbinder», è apparsa sul numero 21 de Il Reportage

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