Speciale

Trent’anni senza Falcone e Borsellino

19 Luglio 2022

Giovanni Falcone non si tirava mai indietro quando qualcuno (Biagi, Santoro, Maurizio Costanzo…) lo invitava in tv per esprimere il suo pensiero di fronte alla grande platea televisiva; Paolo Borsellino amava moltissimo parlare agli studenti nelle scuole. Come ricordò quest’ultimo, nel suo discorso di commemorazione per la morte di Falcone, di sua moglie Francesca e di tre agenti della scorta, a dire dell’amico e collega, “la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”. 

A che cosa serve, oggi, sottolineare i 30 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, avvenute rispettivamente il 23 maggio e 19 luglio del 1992, a soli 57 giorni di distanza l’una dall’altra? Serve, non solo a ricordare le figure di due grandi uomini, ma anche a continuare ad alimentare quel “movimento culturale e morale”. Disse ancora Borsellino: “Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta egli mi disse: la gente fa il tifo per noi”. E a nessuno può sfuggire che cosa intendesse con tifo: non sentirsi soli.

Trent’anni fa, prima di morire, da vivi, Falcone e Borsellino erano stati lasciati soli. Dalle istituzioni, ma anche dalla gente. Com’era successo a Gaetano Costa, a Rocco Chinnici, l’ideatore del “pool” di Palermo, al generale Dalla Chiesa. Oggi c’è lo stesso rischio, rimuovere, dimenticare, addirittura tollerare la mafia. Falcone e Borsellino questo rischio l’avevano presente. In un documentario del 2016 – L’ombra del padrino – di Giuseppe Schillaci, regista siciliano, nato e cresciuto nel quartiere Brancaccio di Palermo, parlano alcuni bambini della scuola elementare intitolata a don Pino Puglisi, anch’egli di Brancaccio, assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993. Alla domanda, che cos’è la mafia, Sonia ride e risponde: “Non lo so”. Alla domanda, c’è la mafia in Sicilia, la sua risposta è “No”. Alla domanda, dov’è, la bambina risponde: “Non c’è la mafia, esiste solo nei film”.

Come scrive Enzo Ciconte nel suo libro Storia criminale, dopo la chiusura del ciclo dei corleonesi, i “vincenti” sui “palermitani” di Buscetta e Contorno, “morti Liggio e Ciancimino, arrestati Riina e Provenzano, cosa nostra non sarà più com’è stata finora”. Sono costrette a uscire allo scoperto le seconde file, un tempo al riparo. E anche l’ultimo boss latitante, Matteo Messina Denaro, non ha la levatura criminale, la mentalità da belva sanguinaria di Totò Riina, il “capo dei capi”, ed è sempre stato più orientato agli affari che al potere della “lupara”. Le statistiche dicono che i morti per mano della mafia sono stati 18 negli anni ’60, 25 negli anni ’70, 67 negli anni ’80, 86 negli anni ’90, meno di una decina negli ultimi vent’anni. Nello stesso tempo non si sono più avute guerre di mafia, i clan hanno raggiunto accordi stabili di spartizione del territorio e raramente si calpestano i piedi.

Mentre la ‘ndrangheta è diventata più aggressiva, appropriandosi dei maggiori business, cosa nostra ha assunto un profilo più defilato. Comandare è ancora importante, come lo è essere “uomini d’onore”, esigere “quel” tipo di rispetto, ma la priorità sono gli affari, che notoriamente si fanno senza dare troppo nell’occhio. Anche Riccardo Orioles, storico giornalista antimafia, che faceva parte della redazione del giornale I Siciliani, diretto da Pippo Fava, assassinato il 5 gennaio 1984, è convinto che cosa nostra sia in crisi: “Perché è in una fase di trasformazione.

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Non hanno più bisogno di ammazzare, non sono più contadini, i nuovi appartengono alla borghesia mafiosa, al ceto impiegatizio di alto livello”, mi dice. Ed è forse questo basso profilo, quello di una mafia che fa meno paura, probabilmente strategico, che ha consentito a Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, due condannati per mafia (il secondo ufficiale di collegamento tra Fininvest e cosa nostra, la quale dopo aver tagliato i ponti con Andreotti fece convergere i voti su Forza Italia) di tornare prepotentemente alla ribalta, appoggiando apertamente, senza alcun pudore, la candidatura di Roberto Lagalla (centrodestra) a sindaco (vincente) di Palermo, dopo i ventidue anni di Leoluca Orlando. “Ci troviamo in una fase di riflusso; noi, oggi, non abbiamo il diritto di pronunciare il nome Falcone”, dice ancora Orioles. E Schillaci: “I mafiosi sono più deboli, hanno meno soldi, il che significa meno potere e meno influenza politica”. 

Da un lato, la mafia si sta trasformando, dall’altro lo Stato abbassa la guardia. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, che vive in un bunker e ha cinque auto di scorta dopo le minacce di morte con l’esplosivo da parte della ‘ndrangheta, è stato chiaro in tv (anche lui) con i vari Costanzo, Gruber, Formigli: “Draghi, il giorno in cui si è insediato, non ha detto una volta la parola mafia e per tutto l’anno non ha mai toccato questo tema”.

Lo ha fatto soltanto a un convegno sul ruolo della finanza nella lotta alla mafia, dopo che Gratteri aveva lanciato la sua accusa. Ad ogni modo, come ha detto Gratteri, sono state parole di circostanza, senza dire “quali norme il suo governo intende varare o migliorare per contrastare il fenomeno mafioso”. Gratteri ci è andato giù duro: “Questo governo sta smontando le norme esistenti, il messaggio che arriva alla gente è che c’è aria di smobilitazione”. 

Quando era in vita, Falcone fu accusato di protagonismo, di scorrettezze sul lavoro, sottoposto a continue calunnie e campagne denigratorie. Addirittura lo scrittore Leonardo Sciascia, che – come dimostrano alcuni suoi celebri romanzi, ad esempio Il contesto – la mafia la conosceva bene, sul Corriere della Sera parlò di lui e di Borsellino come di “professionisti dell’antimafia”.

Il clima si era fatto talmente insostenibile, che Falcone dovette accettare la proposta di entrare al ministero di Grazia e Giustizia come direttore dell’Ufficio Affari penali: gli era diventato impossibile lavorare come desiderava, perché – come scrisse – “le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate”. Nello stesso tempo, Borsellino denunciò pubblicamente “omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso”. Come disse Antonino Caponnetto, il capo del pool dopo Chinnici, Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988, quando avanzò la propria candidatura alla successione dello stesso Caponnetto, ma il Csm gli preferì Antonino Meli, il quale scelse di non coordinare più le indagini e di esautorare Falcone. 

Ma il “metodo Falcone”, assolutamente rivoluzionario, sintetizzato nello slogan “segui il denaro e troverai la mafia” e nell’unificazione delle inchieste, era proprio quello che aveva permesso, il 16 febbraio 1986, di arrivare al maxiprocesso di Palermo con 475 imputati, processo che si concluse in Cassazione il 30 gennaio 1992 con la sostanziale conferma delle condanne in primo grado (19 ergastoli e pene detentive per complessivi 2.265 anni di reclusione), dopo i clamorosi successi del processo Spatola e dell’inchiesta Pizza connection sul riciclaggio del denaro e lo spaccio di droga.

E con gli anni, il quadro, “il gioco grande”, come lo chiamava lo stesso Falcone, era arrivato a tenere insieme, mafia, P2, terrorismo nero, stragi, lo scandalo Ior-Banco ambrosiano, Tangentopoli. Falcone pagò con la vita la vittoria sulla mafia militare (viene ucciso soltanto quattro mesi dopo la sentenza definitiva del maxi-processo), ma soprattutto la scoperta, anche grazie a Buscetta, dei principali collegamenti tra cosa nostra e la politica; Borsellino fu fatto saltare in aria per essersi opposto alla trattativa Stato-mafia.

Come disse alla moglie, che poi lo riferì ai magistrati: “C’è una trattativa tra la mafia e lo Stato dopo la strage di Capaci, un colloquio tra la mafia e alcuni pezzi infedeli dello Stato. La mafia mi ucciderà quando altri lo decideranno”. Quegli “altri” che, pochi minuti dopo l’esplosione di via D’Amelio, porteranno via la sua valigetta con l’Agenda rossa dove era tutto annotato. Non stanchiamoci di parlare di loro.

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