Rebels. Arte e AIDS nella New York degli anni '80

27 Ottobre 2014

Nella mostra Disobedient Objects, al Victoria & Albert Museum di Londra fino al 1 febbraio 2015, accanto ai manufatti di ieri e di oggi usati nei movimenti di protesta globali compare un cartello: “Molti di questi oggetti verranno restituiti ai loro proprietari una volta conclusa la mostra, perché sono stati creati e utilizzati per lotte ancora in corso”. Il tempio dell'arte e del design ha preso in prestito dalle strade manifesti, bandiere, maschere antigas, cartelli e gadget, in un'esibizione temporanea che non ha come scopo la conservazione e la musealizzazione del presente, ma la sua presentazione in un contesto curatoriale, che legge la storia dei movimenti attraverso i suoi oggetti, il suo design sociale.

 

Group Material, AIDS Timeline, installazione, 1989 – 90, ©The New York Public Library

 

In quella raccolta rientrerebbero a pieno titolo le operazioni di artisti e non artisti travolti dall'AIDS nella New York degli anni '80, raccontate da Tommaso Speretta nel libro Rebels Rebel – AIDS, art and activism in New York, 1979 – 1989, edito da Mer. Paper Kunsthalle: una ricostruzione ricca di materiali d'archivio che mette in ordine e analizza in profondità fatti storici e reazioni collettive difronte a una piaga allora sconosciuta, che mise in crisi la società americana e dimezzò una generazione.

 

copertina Rebels Rebel, ©Met.Paper Kunsthalle

 

Il decennio di esplosione dell'AIDS, che travolse la minoranza GLBT delle metropoli americane, è oggi un evento lontano anche se non concluso, pronto per essere storicizzato e drammatizzato, come è accaduto nel recente film per la tv HBO, The Normal Heart. Il lavoro di Speretta si inserisce invece in un ambito più specifico, quello della produzione creativa dei movimenti direttamente coinvolti nella vicenda: Group Material e i suoi componenti Tim Rollins, Julie Ault, Doug Ashford e successivamente Felix Gonzalez-Torres, e soprattutto ACT UP (AIDS Coalition To Unleash Power), un'associazione nata proprio con l'intento di fermare la crisi dell'AIDS, che si avvaleva del braccio artistico del collettivo Gran Fury. Il punto focale dell'analisi è ovviamente l'arte pubblica, quella particolare area espressiva che nel suo sviluppo passa dalla realizzazione di monumenti e memoriali alla creazione di opere e iniziative dalla forte vocazione sociale, rivolte a un pubblico più ampio di quello tipico dell'arte.

 

Gran Fury, You've got blood on your hands, Ed Koch, poster, 1988, ©The New York Public Library

 

Group Material fu uno degli esempi di arte pubblica di nuova generazione, perché cercava di restituire i meccanismi della democrazia nella propria organizzazione e persino nei propri lavori, tutti a partecipazione collettiva, dove spesso non si distingueva tra l'opera d'arte e il manufatto del non professionista. Con lo scoppio dell'AIDS e l'urgenza di occuparsene, la partecipazione di Group Material al discorso pubblico sul tema fu un approdo naturale, e il risultato principale fu AIDS Timeline, una linea del tempo che ricostruiva la storia di quel periodo riportando manifesti, flyer, dati statistici e testimonianze dirette, nel tentativo di restituire il contesto sociale entro il quale quegli eventi si stavano manifestando.

 

Silence=Death logo, poster, 1986, ©The New York Public Library

 

Diverso è il caso di ACT UP, nato appositamente per affrontare i conflitti sociali che questa nuova piaga stava portando alla ribalta, ferite storiche della società americana che stavano riaprendosi in tutta la loro virulenza: il razzismo, il sessismo, il classismo e l'omofobia. La malattia sconosciuta era chiamata all'inizio il cancro gay, o la peste gay, vista la maggiore incidenza nella comunità GLBT. Prima che ci si occupasse seriamente di AIDS come di un'emergenza nazionale, e internazionale, la società americana e il suo establishment semplicemente ignorarono il problema, nonostante il numero e la velocità preoccupante dei contagi, perché era ritenuto qualcosa che riguardava soltanto quelli lì. ACT UP si diede quindi il compito di portare la malattia e l'urgenza di una cura su una ribalta pubblica, non soltanto per la città di New York (basti pensare alle altre metropoli ad alta concentrazione di cittadinanza GLBT, o ad altre fasce colpite e ignorate dalla società conservatrice del tempo, i neri, i latini, gli homeless e i tossicodipendenti). Per ottenere l'attenzione e il palcoscenico in una società capitalista dell'infotainment, la via più efficace era adottare le stesse modalità della comunicazione di massa ufficiale, a cominciare dalla pubblicità.

 

ACT UP Outreach Committee, stickers AIDS Profiteer, 1989, ©The New York Public Library

 

Membri di ACT UP Chicago con il cartello Kissing doesn't kill, Gay Pride di Chicago, 24 giugno 1990, ©The New York Public Library

 

Il capitolo dedicato ad ACT UP spiega puntualmente e con ricchezza di immagini come un'associazione riuscì a utilizzare le energie creative dell'arte per fare propaganda. I molti esempi riportati danno prova di una sapienza comunicativa degna di un potente ufficio stampa e marketing, nonostante spesso si organizzassero vere e proprie operazioni sovversive per mettere sotto accusa le istituzioni pubbliche e private, colpevoli di ignorare il problema o di volerci soltanto guadagnare. ACT UP produsse per esempio delle etichette adesive con su scritto “AIDS Profiteer”, incollate clandestinamente sui medicinali della Burroughs Wellcome, l'azienda farmaceutica (oggi GlaxoSmithKline) che mise sul mercato il primo farmaco contro l'AIDS, l'AZT, a un prezzo altissimo, che solo in pochi potevano permettersi. Un bersaglio di ACT UP e di Gran Fury fu anche il presidente Reagan, che parlò pubblicamente di AIDS soltanto nel 1987, ben sei anni dopo l'esplosione del contagio, la cui immagine in un poster era accompagnata alla scritta a doppio senso “He kills me”, “Lui mi fa morire (dal ridere)”. E poi il sindaco di New York Ed Koch, il quale, come recitava uno spazio pubblicitario acquistato dal collettivo nei principali quotidiani locali, “affronta l'AIDS investendo in marmo e granito”, cioè i materiali più usati per le lapidi. Il New York Times, accusato di sminuire la portata dell'epidemia, diventò The New York Crimes, un foglio che era una copia grafica dell'originale, pieno di informazioni occultate sull'AIDS, e che andò a ricoprire le vere pagine del quotidiano nei distribuitori della città.

 

Donald Moffett, He kills me, poster, 1987, ©The New York Public Library

 

Gran Fury, The New York Crimes, prima di quattro pagine, 1989, ©The New York Public Library

 

ACT UP usò tattiche di sovversione dei canali mainstream, una sorta di hacking ante litteram, che piegava in modo situazionista modalità di comunicazione di massa come la pubblicità per avere attenzione. Così facendo, diede grande slancio a quella forma di comunicazione antagonista, non soltanto concentrata sulle manifestazioni di piazza, che chiamiamo guerrilla, e che oggi è diventata un'altra voce del marketing ufficiale. L'abilità comunicativa di queste azioni rivela un intento che va oltre la semplice comunicazione dal basso di una comunità, e soprattutto oltre le capacità espressive dell'arte e le sue tecniche: “lottavamo per portare i nostri argomenti all'attenzione pubblica, né più né meno di come fa Coca-Cola per vendere”, afferma uno dei componenti di ACT UP, Loring McAlpin, segnalando come la loro “arte” fosse semplicemente il mezzo più efficace attraverso cui ottenere quell'attenzione.

 

Gran Fury installa The Pope and the penis alla Biennale di Venezia del 1990, ©The New York Public Library

 

Non è un caso che il simbolo identificativo sotto il quale tutto il movimento si riconobbe, dopo aver ritrovato una compattezza che non aveva avuto dai tempi di Stonewall, fosse passato da semplice elaborazione grafica a vero e proprio logo, immagine astratta dietro la quale un'istituzione sui generis agiva. Silence=Death, la celeberrima scritta accompagnata dal triangolo rosa col quale i nazisti segnalavano gli omosessuali, nacque come accusa pubblica di un'omofobia persecutoria che stava tacendo l'epidemia dell'AIDS, ritenuta una malattia gay, e di conseguenza stava provocando troppi morti a causa del disinteresse per la ricerca di una cura. Grazie all'attenzione che ACT UP riuscì a ottenere nel corso degli anni, quel lavoro grafico tra tanti divenne il simbolo per eccellenza, il riferimento sotto il quale potevano raccogliersi tutti coloro che erano coinvolti a diverso titolo in quegli eventi.

 

Gran Fury, Art is not enough, poster, 1988, ©The New York Public Library

 

Gran Fury, Know your scumbags, poster, 1988, ©The New York Public Library

 

È chiaro come questo non sia più soltanto territorio artistico, e ne è la prova la perplessità con cui Gran Fury accettò l'invito a partecipare alla Biennale d'Arte di Venezia del 1990. Le polemiche che emersero dal lavoro presentato, The Pope and the Penis, un'accusa alla Chiesa cattolica contraria all'uso del profilattico e al tempo stesso un provocatorio accostamento di Giovanni Paolo II all'immagine di un pene in erezione, crearono un campo di conflitti che andava ben oltre il mondo dell'arte. L'allora direttore della Biennale Giovanni Carandente minacciò di dimettersi se quel lavoro “blasfemo, da non considerarsi arte” non fosse stato ritirato, per tutta risposta il gruppo, con la consueta abilità pubblicistica, riuscì ad aggirare la pretestuosa questione sull'arte allargando il discorso a tutta la sfera pubblica, e finendo sui giornali mainstream al di fuori del proprio territorio d'azione. Forse fu grazie a questa nuova esposizione mediatica se da allora anche in Italia cominciarono a comparire lavori specifici sull'AIDS, soprattutto a opera di Oliviero Toscani, che nel 1994 dedicò un intero numero della rivista COLORS di Benetton al tema.

 

Ken Woodard, Invest in Marble and Granite, pagina pubblicitaria sui quotidiani, 1989, ©The New York Public Library

 

Tra humor nero, détournements situazionisti e potenza del linguaggio, ACT UP segnò con le sue azioni un deciso sconfinamento dell'arte pubblica fuori dall'arte e dentro il pubblico, e nonostante il merito di Speretta di far emergere questa realtà con il racconto dei fatti e l'esibizione delle prove, la sua ricerca sembra voler far rientrare nel sistema dell'arte ciò che ne evade chiaramente i limiti. L'autore sceglie di domandarsi “che cosa succede all'artista in un periodo di forte crisi sociale?” invece di chiedersi “che cosa succede all'arte, sottoposta alle forze deformanti di una grande tensione collettiva?”, focalizzando la sua attenzione sulla figura dell'autore invece che sulla rivoluzione di una forma espressiva. Nella sua impostazione di fondo, Rebels Rebel parla di artisti, anche quando sono loro stessi a proclamare in un lavoro “Art is not enough”.

 

G

ran Fury, When a Government Turns Its Back on Its People, Is It Civil War?, cartellone, 1988, ©The New York Public Library

 

Quella del decennio 1979 – 1989 fu una guerra, “la guerra della nostra generazione” la chiama McAlpin in un contributo ospitato nel volume, così come le generazioni precedenti avevano avuto la loro Seconda Guerra Mondiale, la loro Guerra di Corea, il loro Vietnam. E come in tutte le guerre, tra le molte battaglie c'è anche quella tra linguaggi diversi. L'arte e il suo sistema sono infatti insufficienti per esaurire tutte le implicazioni di quel conflitto, e forse sarebbe stato più interessante approfittare di questa apertura in un linguaggio specifico per intravedervi quello che sarebbe venuto dopo: l'epoca della comunicazione totale. Una domanda che resta inevasa sembra infatti: che cosa ne è di quella forma d'arte già liminare, l'arte pubblica, costantemente dentro e fuori il sistema che la dovrebbe legittimare, quando viene spinta ulteriormente fuori da una certa appartenenza, durante un'emergenza storica che tende a ridisegnare i confini e ridefinire le cose? Che cosa diventa l'arte pubblica, quando la stessa nozione di arte e di pubblico si espandono fino all'esplosione?

 

Membri di ACT UP Chicago con il cartello Kissing doesn't kill, Gay Pride di Chicago, 24 giugno 1990, ©The New York Public Library

 

Un tentativo di rispondere a queste domande, abbandonando l'esigenza di tornare all'arte e agli artisti, si sarebbe avvicinato a quelle che Cecilia Guida definisce spatial practices, pratiche spazio-temporali che corrodono le suddivisioni tra artista e pubblico, tra spazio dell'arte e spazio del quotidiano, individuando nuove forme espressive e nuovi attori. Le avventure “totali” di ACT UP e degli altri gruppi, non solo artistiche, non solo politiche, non solo pubblicitarie, sembrano l'esperienza germinale delle pratiche contemporanee, dove “l'arte pubblica si fa processo di comunicazione e azione sociale nello spazio condiviso, mentre l'artista da autore diventa una sorta di agente sociale o fornitore di servizi” (C. Guida, Spatial practices, 2012, Franco Angeli).

 

Sticker Men use condoms di Gran Fury sul sedile di un taxi, New York, 1988, ©The New York Public Library

 

Mettendo in crisi le vecchie definizioni di arte e comunicazione pubblica si possono capire meglio anche le odierne operazioni di scambio tra il museo e la strada, l'arte e le condizioni di vita, la politica delle istituzioni e il politico delle esistenze, come accade in Disobedient Objects citata in apertura, dove la non-arte passa per le sale di un museo come è passata e sta passando per le strade del mondo.

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