Soderbergh. Dietro i candelabri

6 Dicembre 2013

Nel 1977, in piena epoca disco music, il giovane Scott Thurson diventa l'amante e assistente di Liberace, pianista e showman, noto anche per i suoi costumi di scena vistosi e sfavillanti. Liberace, solo il cognome, per fare di sé un'antonomasia, era talmente popolare da essere citato in due canzoni molto famose, My baby just cares for me, che ne evocava il sorriso, e Mr. Sandman, dove le Chordettes cinguettavano: “Mr. Sandman, bring us a dream/Give him a pair of eyes with a come-hither gleam/Give him a lonely heart like Pagliacci/And lots of wavy hair like Liberace”. Il virtuoso del pianoforte era ben impresso nell'immaginario collettivo americano come oggetto del desiderio femminile, sufficientemente innocuo da piacere a tutti, e da diventare anche una star televisiva.

 

A dargli corpo e voce nel film di Steven Soderbergh è Michael Douglas, e l'aderenza tra il corpo dell'attore appena guarito da un cancro alla gola e quello dello showman non più giovane, terrorizzato dalla vecchiaia e dalla morte, dà ancora una volta la prova del metodo mimetico di Hollywood come legge della recitazione.

 

 

Il glamour che circondava Liberace era così accecante che nessuno sembrava accorgersi, tra i fan, della sua omosessualità. La prima volta che Scott, interpretato da Matt Damon, lo vede in scena, si stupisce di come un pubblico così vasto possa amare uno spettacolo tanto gay, riferendosi all'estetica kitsch di cui Liberace è testimonial: “loro non hanno idea che sia gay”, si sente rispondere dall'amico. La storia d'amore che nasce tra i due, di conseguenza, dovrà restare segreta, come accade ancora oggi a molte star di Hollywood, per ragion di mercato. È interessante, da questo punto di vista, che anche le vicende produttive del film abbiano avuto un condizionamento simile: in un'intervista al New York Post Steven Soderbergh ha dichiarato che inizialmente il film doveva avere una distribuzione nelle sale, ma tutti gli studios di Hollywood avevano rifiutato di produrre una storia così gay, nonostante fosse tratta da un'autobiografia-confessione dello stesso Thurson.

 

 

Alla fine il film è stato prodotto e trasmesso dalla tv via cavo HBO, confermando come la televisione, grazie soprattutto alle serie tv di questo e di altri canali, non solo non sia più subalterna al cinema, ma lo superi in coraggio. Il film, in concorso all'ultimo Festival di Cannes, è adesso distribuito, per un processo inverso, nelle sale cinematografiche europee, e chissà se la televisione italiana trasmetterà mai un film così gay.

 

Liberace, manierista dell'esecuzione musicale, showman che cita i costumi regali avvicinandosi al drag, porta Scott a vivere con sé in una casa dorata, una versione domestica della Las Vegas che li ospita. “Crede di essere Ludwig II”, dicono di lui, ma il kitsch messo in scena da Luchino Visconti nel film dedicato al re di Baviera sembra una contenuta lezione di storia dell'arte, a confronto con il delirio visivo di cui si circonda Liberace. Se i sentimenti che muovono il malinconico re viscontiano e il divo della cultura di massa sono gli stessi, l'insofferenza per il limite, la paura della decadenza fisica e della morte, Liberace può provare a forzare quei limiti e quelle paure con più successo, grazie a un puro vantaggio storico.

 

 

Questo Ludwig contemporaneo può inscenare infatti la giovinezza e la felicità con continue plastiche facciali, con un impianto nel pene per risolvere l'impotenza, con una dotazione di oggetti più estesa, che non distingue più tra belle arti e paccottiglia glitterata. Se è vero, come scriveva Hermann Broch, che il kitsch è il tentativo di sfuggire alla morte per via estetica, potremmo dire che il kitsch di Ludwig è una fuga tutta interna all'arte, mentre quella di Liberace è sconfinata, e coinvolge tanto l'immaginario quanto la carne viva.

 

C'è una sequenza che più di tutte rivela come questa estetica dell'eccesso non si fermi davanti a nulla: a colloquio con un chirurgo plastico, dopo aver concordato la propria operazione, Liberace esprime il desiderio di intervenire anche su Scott, e per mostrare l'immagine del desiderio a cui il ragazzo dovrebbe aderire, mostra un quadro naif che lo ritrae da giovane, agli albori della carriera. Il viso regolare di Scott deve trasformarsi in quello spigoloso, ma ringiovanito, di Liberace, in cui il vecchio possa specchiarsi e adorarsi. Un desiderio sfrenato di intervenire su se stessi e sul mondo che ricorda le trame degli episodi di Nip/Tuck, dove l'estetica e la scienza superavano le questioni etiche del gusto nel tentativo di spostare il limite del possibile.

 

 

Questo momento è la rivelazione del film, il punto di uscita dal biopic e dalla trama, per parlare fuori di sé: Liberace è l'uomo che grazie ai suoi mezzi opera un morphing sulla realtà, plasmandola secondo i suoi desideri. Riesce a imporre il suo immaginario sulla carne dell'altro, a trasfondere il suo narcisismo di star negli occhi sognanti di un pubblico, che vede soltanto ciò che lui vuole mostrare. I fan non si accorgono che Liberace è gay perché innanzitutto non è un uomo, è una creatura de-realizzata e de-sessualizzata dalla cosmesi e dallo spettacolo, un'apparizione luminosa su un palco, un'icona di massa con i suoi attributi fissi: un candelabro poggiato sul pianoforte decorato, da cui il titolo del film.

 

Liberace faceva con la sua identità ciò che noi oggi facciamo con la nostra: essere chi vorremmo essere, fare l'editing di quello che ci accade e la correzione tecnologica di come vorremmo apparire. Dietro i candelabri non è tanto il biopic di un personaggio famoso, quanto la storia dello spettatore sedotto e poi disilluso, dove Scott, l'amante manipolato, vale per tutti noi. È un'archeologia dell'immaginario, il catalogo di un'eredità visuale della quale oggi possiamo rinvenire i pezzi su Youtube, per constatare quanto i video di Liberace siano più simili a Dynasty che a qualunque spezzone di cinema d'autore.

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