Jalil Lespert. Yves Saint Laurent

7 Aprile 2014

“Era il tempo dell'audacia e dell'insolenza, era il tempo della nostra giovinezza. I Beatles venivano da Liverpool, Nureyev da Mosca, Godard dalla Svizzera e tu da Orano”: la voce che racconta è quella di Pierre Bergé, compagno di Yves Saint Laurent per cinquant'anni, autore delle Lettere a Yves scritte dopo la morte del couturier, nel 2008. L'epistolario postumo, edito da Archinto nel 2012, è il punto di partenza del film di Jalil Lespert, Yves Saint Laurent, approvato da Bergé stesso, che per la ricostruzione di un'epoca e una carriera ha messo a disposizione l'intero archivio.

Il film racconta vent'anni di Yves (Pierre Niney, magro, timido, con gli occhiali, in perfetta somiglianza con lo stilista), dall'esordio come assistente di Christian Dior alla famosa collezione del 1976 ispirata ai Balletti Russi: il punto più alto della sua carriera e il punto più basso della sua esistenza, tra depressione, alcol e droga. In questi vent'anni, l'incontro fatale con Pierre Bergé (Guillaume Gallienne), carattere sicuro e granitico, che con lui fonderà la maison che cambierà la moda. Un sodalizio inestricabile d'amore e d'affari che terrà insieme la coppia per cinquant'anni, nonostante i tradimenti, le crisi, una tristezza cronica che isolerà Saint Laurent da tutto e tutti, facendone un'icona refrattaria.

 



“Chanel ha liberato le donne, tu hai dato loro il potere”, racconta Bergé nell'epistolario, e di rimando nel film, che comincia quando tutto è finito, con la voce fuori campo dell'anziano vedovo che rievoca il passato, che in questo caso coincide con la storia della moda. Se mademoiselle Coco liberò le donne da busto e crinoline, Saint Laurent mise letteralmente sulle loro spalle abiti maschili, perché viene prima il costume e poi il ruolo: adattò al corpo delle donne il trench, lo smoking, il giaccone da marinaio, e la sahariana, in-confessata rievocazione del passato da colonialisti dei suoi genitori in Algeria, la patria non riconosciuta e presto abbandonata.

Queste sono le premesse, ma Lespert vuole andare in tutt'altra direzione: “la mia è una storia d'amore, anche se tra persone eccezionali”, spiega, e il risultato è proprio un film d'amour fou, con abiti straordinari (quelli veri, riesumati dall'archivio) a fare da intermezzo. Quasi una confessione di inadeguatezza di un regista che decide di non raccontare la moda e il ruolo chiave di uno dei suoi miti, ma una storia drammatica, che ha tutti i difetti originari del biopic, quel cliché genio e sregolatezza che serve a sceneggiare e rendere raccontabile il talento, il suo laborioso mistero. D'altronde anche Bergé confessa, quasi per ripicca: “eri un personaggio da melodramma, tra pugnale e veleno”.

 

 

Quella di Lespert sembra quindi una resa in partenza, o forse è la dimostrazione che la moda è e resta irrappresentabile al cinema, se non altro in quello di fiction. In Yves Saint Laurent si vedono soltanto abiti, ma nulla trapela davvero di quello che la moda fa ai corpi nel tempo, come il corpo e l'abito si affrontino e si formino l'un l'altro, come la moda stessa, nel suo essere un eterno presente, parli costantemente della sua decadenza, di un inscenamento della morte e dell'eterna reviviscenza. Eppure Saint Laurent, con la sua metodica negazione del gusto a favore dello stile, la rivoluzione dei costumi e la messa a morte, mai definitiva, del passato, sarebbe stato il personaggio ideale per incarnare tutto questo.

 


Lespert non la pensa così, proprio perché per lui la moda è soltanto arte: “Yves Saint Laurent era un artista, per me è come Picasso, o Van Gogh. Questo stesso bisogno di espressione artistica lo ha reso fragile, ma è stato questo a portarmi a fare un film su di lui, non l'interesse a raccontare la vita di uno stilista, per quanto importante. La differenza tra lui e gli altri è per esempio nella scelta di far indossare alle donne i famosi abiti ispirati ai quadri di Mondrian, nel 1965: non voleva soltanto vestire le donne, voleva che indossassero delle opere d'arte. Era superiore a tutti gli altri stilisti, e d'altra parte oggi i suoi abiti sono contesi dai più grandi musei del mondo”.

 

In questa frase c'è tutto l'equivoco su che cosa sia e che cosa faccia la moda, una semplificazione forse necessaria al racconto di fiction, che però sembra un difetto comune ai documentari prodotti di recente sull'argomento: Lagerfeld Confidential o Valentino: The Last Emperor sono entrambi appiattiti sulla figura del genio, con le sue sacre e ridicole stranezze, ma non dicono nulla sul contributo di questi stilisti al discorso collettivo sulla moda. Neppure The September Issue, il documentario cult sul cruciale numero di settembre di Vogue America, sembra sfuggire a questa logica, con lo scontro tra due eroine antagoniste: la direttrice Anna Wintour e la direttrice creativa Grace Coddington. Anche Pierre Bergé, che nelle lettere postume a Saint Laurent resta lucido e severo persino al cospetto dell'amante scomparso, quando si tratta di moda cede al culto della personalità, e parla più di gloria che di ricerca, più di ispirazione che di duro lavoro: “la moda non è un'arte, ma per farla ci vogliono gli artisti”.

 



Che cosa resta nel film? Pur con i suoi limiti, Yves Saint Laurent riesce a raccontare l'imperfezione nascosta dietro la mania della gloria, l'ambiguità di un amore che non può nutrirsi soltanto di se stesso, e che dura anche perché c'è un'azienda da difendere, un patrimonio da salvaguardare, compresa un'inestimabile collezione d'arte che i due riuscirono a mettere insieme in quei cinquant'anni di amore condiviso per il bello.

Quello di Saint Laurent e Bergé è un vero matrimonio, e lontano dalle retoriche dei Pacs e della felicità coniugale per diritto mette in luce il valore vincolante della proprietà. Lespert non trascura del tutto l'importanza anche simbolica di quella collezione, e apre il film con lo smottamento di quel patrimonio, quando Bergé decise, alla morte del compagno, di mettere all'asta tutto quello che avevano comprato insieme: “la più grande prova d'amore che ci siamo dati è questa collezione, e le nostre case” si legge nelle Lettere a Yves.

 

 

Per cogliere al meglio questo accento amoroso-economico, però, bisognerebbe vedere Amour fou, titolo non casuale, il documentario di Pierre Thoretton che racconta l'amore Bergé-Saint Laurent attraverso la loro collezione, e l'asta che seguì alla morte di Yves. Forse è proprio in quell'espandersi e poi disperdersi dell'ossessione collezionistica, più che in questo film su uno stilista senza la moda, che si avverte meglio la presenza di una fine proprio nel tempo della ricchezza.

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