Ricominciare
Trentasei anni fa, nel marzo del 1975, Pier Paolo Pasolini scriveva per il “Corriere della sera” una serie di articoli, destinati prima a suscitare una polemica acre e poi a diventare luogo di culto. Pasolini era mosso – a suo stesso dire – da uno scandalo ingenuo, che nasceva da un disagio intenso per la “cultura” del nostro tempo. Questo disagio poggiava su una tesi reazionaria in senso letterale. Con le sue parole: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta”.Una tesi siffatta non è nuova. Chi abbia letto per esempio Marcuse la può comprendere nella sua purezza teoretica. Inoltre, Pasolini riprendeva e radicalizzava l’incomprensione per la modernità industriale che caratterizzavano nell’Italia di quegli anni gli atteggiamenti spirituali delle due grandi agenzie di socializzazione di quel tempo, quella comunista e quella cattolica.
Pasolini riviveva tuttavia questa tesi sulla “tolleranza repressiva” e il rifiuto della modernità in maniera affatto originale, vestendola tra l’altro di una fenomenologia del quotidiano e di una semiotica del corpo come solo un artista può. Mi sono sforzato di interpretare questo nucleo originale senza pensare però di riprodurlo come era per Pasolini, ma piuttosto vedendolo per come appare a me nell’Italia di oggi.
L’idea centrale nella mia lettura verte sul rapporto tra io e mondo, dove il mondo è innanzitutto la comunità e gli altri. La tesi di fondo è che questo rapporto –che era tipico e forte nella generazione del secondo dopoguerra e del miracolo economico- si è perso col tempo. Si è perso attraverso due fasi distinte e successive di progressivo isolamento dell’io. La prima fase è quella, in Europa continentale spesso identificata con il “sessantotto”, della nascita delle politiche dell’identità (neri, gay, donne etc.). La seconda fase è quella della supremazia assoluta dell’egoismo di massa e del mercato. Ne siamo usciti con una politica ridotta a assemblaggio complesso di rivendicazioni individualistiche e gruppali. L’isolamento progressivo dell’io, che ne consegue, provoca sia crampi della mano invisibile, come si è visto nella crisi del 2008, sia striscianti forme di autoritarismo di massa. In somma, attraversiamo un’epoca in cui nessuno di noi riesce a vivere in armonia con la propria comunità, a operare pensando che ogni contributo al miglioramento di se stesso possa giovare anche a tutti gli altri.
Non era così dopo il 1945. In Europa e in Italia, il consenso keynesiano sulla necessità di ridistribuire la ricchezza e sull’opportunità che lo stato difendesse i più deboli era pressoché totale. Accomunava i socialdemocratici inglesi e scandinavi, i cristiano democratici tedeschi e il generale de Gaulle, i comunisti italiani e la Democrazia Cristiana. Ma valeva anche nella vita di tutti i giorni. Ricordo benissimo che i miei genitori avevano una concezione forte del rapporto tra io e comunità. E la avevano per ragioni assai diverse l’uno dall’altra. Mio padre era un convinto liberale-liberista, e riteneva che aprire un’impresa nel dopoguerra – come lui aveva fatto – giovasse certo al suo status e alle sue finanze ma anche al benessere della comunità. Mia madre era cattolica fervente, e non aveva dubbio di agire quotidianamente nel rispetto del bene comune. Ora, queste diffuse forme di sentire non sono più normali nel nostro paese. Opera uno scollamento dell’io dal resto del mondo, una scissione se vogliamo adoperare la parola di Hegel, che crea difficoltà nel legare la propria attività a quella delle istituzioni e più in generale di dare senso all’esistenza.
È interessante capire perché io e mondo non si incontrino più con la stessa facilità di una volta. E qui che l’analisi di Pasolini raggiunge, a parer mio, il suo climax. Perché credo che lui abbia avuto ragione nel ritenere che tutto ciò dipenda da un clima di liberazione violenta e improvvisa in ogni sfera del vivere associato. Abbiamo vissuto in pochi anni la liberazione sessuale, la liberazione politica e dalle ideologie, la liberazione riproduttiva, la liberazione dall’economia, la liberazione delle donne, quella dei bambini, forse la liberazione dell’inconscio e sicuramente quella dell’arte. In se stesse, per quel che credo, tutte le libertà in questione sono giuste, ma il caos semiotico ed etico che lo sprigionamento congiunto di tanti oggetti, segni e messaggi “alternativi” ha suscitato è incommensurabile.
La temperie cosiddetta “postmoderna”, con tutta l’ambiguità legata al termine, rivela quale sia il problema suscitato da questo orgiastico esplodere di possibilità nuove. La storia è vecchia, e la si ripete in forme diverse dal primo fiorire della modernità. Ma è quanto mai attuale. Non riusciamo più a rappresentare il mondo in forme riconoscibili, e sopratutto dare a senso all’esistenza dopo che il ciclone in questione è passato sulle nostre teste. Quando cerchiamo di farlo, ci accorgiamo spesso di adoperare fantasie, sogni e utopie terribilmente datati. E proprio per ciò incapaci di svolgere la loro mediazione fondamentale tra la progettualità individuale e il mondo che ci circonda. Le facce proletarie di una volta, che Pasolini osservava trasformarsi in pallidi visi piccolo borghesi, sono l’avanguardia di questo smarrimento collettivo. Suppongo che sia da questo egoismo di massa che dobbiamo uscire per ricreare un legame di fiducia nella nostra società.
[dal "Domenicale" del "Sole 24 Ore" del 31.07.2011]