Ettore Sottsass. Scritto di notte
“Come si diventa ciò che si è”: così recita il sottotitolo dell’Ecco Homo di Friedrich Nietzsche. Forse ogni autobiografia potrebbe rivendicare il diritto ad usarlo, ad appropriarsene. Ma l’Autobiografia come testamento di Ettore Sottsass, pubblicata postuma da Adelphi nel 2010 con il bel titolo di Scritto di notte, lo può rivendicare forse ancora a maggior diritto. E non certo perché - come Nietzsche - egli si consideri un “destino”. Semmai per la ragione esattamente opposta. Perché se il destino di Sottsass è stato quello di rimanere in una costitutiva ambiguità (tra architettura, arte, artigianato, design, fotografia, scrittura), la sua autobiografia proprio questa ambiguità, questa incertezza, questa indecisione racconta.
Un’indecisione, naturalmente ben lungi dal mancare di prendere posizioni e di produrre frutti molteplici. E tuttavia, derivanti entrambi più dalle “circostanze” che da scelte vere e proprie. Quasi come se tutto ciò che Sottsass ha fatto, ha progettato, ha prodotto nel corso della sua lunga vita (1917-2007) fosse la conseguenza di una catena di “casi” che li hanno determinati, piuttosto che di un disegno ben pianificato.
Non che tutto, in essa, sia riconducibile al fato, o alla Fortuna (ammaliante “signora” a cui, in ogni caso, l’autore non manca di dedicare qualche riconoscente attenzione). Non è qui in discussione il talento - o i molteplici talenti - di Mr. Sottsass. Appare del tutto evidente, leggendo, che in un modo o nell’altro Ettore Sottsass jr., figlio dell’architetto trentino Ettore Sottsass (1892-1953), avrebbe trovato la “sua” strada - o forse meglio, una strada. E non certo perché questa strada fosse segnata fin dall’inizio dal padre per il figlio. Tanto l’uno che l’altro vagano infatti negli anni incerti e pericolosi del fascismo senza avere una posizione di comodo, e tanto meno una posizione stabile: il padre, oscillando tra Trento, Innsbruck e Torino; il figlio tra Innsbruck, Torino, il Montenegro, la Germania, Milano, l’America e il sud-est asiatico.
In realtà non si tratta affatto, nel caso di quest’ultimo, di una strada, bensì - come detto - di molteplici strade, di strade spesse volte interrotte ed altrettante volte intrecciate. Ma intrecciate non in quel modo “sapiente” che conduce certe vite sempre al punto “giusto”, qualunque direzione imbocchino. Piuttosto intrecciate al modo di quei labirinti inestricabili da cui non si sa se si riuscirà mai ad uscire, e quando finalmente ci si riesce si guarda alle spalle domandandosi in quale maniera mai ce la si sia potuta fare.
Le strade che incrocia l’Autobiografia come testamento di Sottsass sono prevalentemente quelle della guerra, ovvero di un mondo nel quale è sospesa ogni regola - e non soltanto perché vigono le leggi militari, ma anche e soprattutto perché non vi è alcuna legge vigente, e tutto accade in modo confuso, casuale, e fatale. È un mondo, quello dell’Italia e dei suoi teatri di guerra al di là dei confini descritto da Sottsass, del tutto aleatorio, in cui qualunque cosa può succedere: la vita nei suoi aspetti più intensi, assurdi e malinconici, così come, con altrettanta probabilità, la morte. È un mondo fatto di individui, assai più che di eserciti; di poveri diavoli, assai più che di eroi; di iniziative personali, più che di grandi manovre preordinate. Come ad esempio in quel caso in cui Sottsass, di stanza a Torino, deve presentarsi a Rho per riunirsi al suo battaglione e ritarda di un giorno perché proprio quel giorno inaugura una sua mostra di disegni a Torino; e presentatosi ventiquattr’ore dopo viene a sapere che il suo battaglione è partito per la Russia. E in questo modo la scampa. O come nelle tante occasioni in cui si viene a trovare in situazioni di pericolo, e sempre riesce a cavarsela per una serie di circostanze fortuite.
È un mondo, quello degli anni del secondo conflitto mondiale, dal quale dovremmo a nostra volta cercare d’imparare qualcosa, noi che viviamo in tempi di pace ma - come risulta ormai con sempre maggiore evidenza - in un’“economia di guerra”: imparare che non esiste pressoché possibilità di “comprensione totale” del mondo, della realtà; che non esiste aspettativa certa di lavoro, di sicurezza, di vita; che forse non esiste neppure un domani, e ciò nondimeno si continua ugualmente a cercare - e in fondo anche a trovare - la propria strada, o quantomeno la propria sopravvivenza.
In tutto ciò l’architettura, l’arte, l’artigianato, il design, la fotografia, la scrittura, ovvero i molteplici talenti e le molteplici vie di Ettore Sottsass sono come sullo sfondo, per emergere a tratti, intrecciandosi con l’alto tasso di casualità apparente della quale si è detto. Possono presentarsi sotto forma di spettacolo da organizzare per tenere alto il morale dell’esercito oppure, a pace ormai raggiunta, sotto forma di accidentale invito al tavolo di un ristorante al quale pranzano alcuni componenti della famiglia e dell’industria Olivetti, invito da cui scaturiranno, anni dopo, i famosi progetti per la macchina da scrivere Valentine e per la calcolatrice Summa. Su nessuno di questi progetti tuttavia Sottsass si sofferma per descriverlo in modo analitico, come si trattasse di qualcosa di importante. In ciò c’è naturalmente una buona dose di ironia, di autoironia, quasi una “sprezzatura” alla Baldassar Castiglione. Ma c’è anche la natura, il destino ondivago di Sottsass, il suo non soffermarsi mai su un oggetto, su un progetto, su un affetto in modo completo, totale: non esserne mai assorbito per intero.
Proprio agli affetti, agli amori, sono dedicate molte pagine del libro. Al rapporto ambiguo, altalenante con Fernanda Pivano, dapprima amica e compagna, poi moglie e infine presenza lontana, e agli altri rapporti importanti della sua vita, con Cleide e con Barbara (Radice), contrastati ma anche molto intensamente vissuti. Ma ciò che c’è sopra ogni altra cosa nell’Autobiografia come testamento - e nel più breve Libro illeggibile che gli fa immediatamente seguito - è proprio la vita: la vita come esperienza, come “navigazione a vista” tra luoghi, persone, circostanze; come se fosse essa - più che il suo “protagonista” - a muovere le fila, a determinare gli incontri, a proporre gli scenari. È la vita la vera protagonista del libro di Sottsass: una vita guardata con rispetto, e a tratti anche con timore (“Io sono amico della gente incerta, perplessa, modesta che cerca di capire e che sempre è nello stato di uno che non ha capito. Sono molto amico della gente che ha paura”); una vita che alla fine dispensa qualcosa, forse proprio ciò che si attendeva, ma non prima di aver costretto a riflettere, a coltivare la propria incertezza. E anche la propria amarezza, i propri dolori. Non prima di avere costretto a riflettere sui propri errori.
“Con tutte queste bugie non ho salvato niente. Forse ho massacrato tutto, un po’ alla volta. Sono cambiato anch’io. Mi accorgo che dentro custodisco pensieri, azioni e reazioni che conosco soltanto io, e so di esistere da solo, per me stesso e non per echi che mi vengono dall’esterno. È un’esperienza che non ho mai conosciuto. Orribile. Mi sento volgare, violento, traditore, ma soprattutto volgare, come tutta la gente che detesto. Sono veramente stanco di dovermi nascondere e dover nascondere tutto quello che provo. Compreso, forse, questo libro nero che nessuno potrà mai leggere”.
Da questa vita non si esce trionfanti, impeccabili: Sottsass almeno non dà ad intendere questo. Ma è proprio dalle “sporcature”, dalle lacerazioni che essa provoca che si può misurare quanto la si sia vissuta davvero.