Il dispensatore di eternità

20 Febbraio 2012

 

Michelangelo Pistoletto ha raccontato molte cose; alcune ha adattato, altre ha taciuto. Un’esemplificazione tra le possibili: la serie degli Oggetti in meno rimane un cono d’ombra storico-artistico nel contesto di una biografia professionale segnata dall’assiduo esercizio di autocommento e autointerpretazione. Agli Oggetti in meno sembra essere stato affidato come il segreto della transizione pre-poveristica e “concettuale”. In senso lato possiamo affermare che gli Specchi sono ancora pittura: del quadro preservano morfologia, tecniche (quantomeno nel primo momento, quando prevedono disegno) e racconto. Gli Oggetti in meno si dispiegano invece nello “spazio”: sono per lo più (non sempre; non necessariamente) installazioni, “ambienti”. La domanda è: costituiscono davvero una serie, cioè lo sono storicamente, nel disegno che ne possiede l’artista sin da subito; o lo diventano retrospettivamente, con propositi sottilmente mitografici e autoritari, nel racconto che di sé dà Pistoletto?

 

“Arrivato alla fine del 1964”, ricorda Pistoletto in un’intervista rilasciata a Celant nel 1984, al culmine del successo internazionale della Transavanguardia italiana, “Leo Castelli mi dice: sbrigati a fare quadri perché sono stati tutti venduti e piazzati nei musei, voglio fare una tua mostra subito. Allora ho lavorato come un matto, sono partito e arrivato a New York, mi ricordo che nel taxi c’erano, da una parte Solomon… e dall’altra Castelli. Quest’ultimo afferma: ‘senti, devi venire negli Stati Uniti oppure per te qui non c’è più niente da fare. Stai avendo un grande successo, però o entri nella nostra grande famiglia o non è possibile continuare’. Da quella volta non sono più andato per quindici anni negli Stati Uniti. Questo per dire come sia ritornato in Italia a fare gli Oggetti in meno e abbia reagito ad una concezione di mercato che rendeva potente un dominio culturale e pratico che ti forzava a sentirti o parte di un clan o solo. Ho scelto di essere solo, perché forte della mia convinzione che quanto avevo sviluppato era un lavoro nato su un territorio culturale non diseredato, ma di profonda eredità” (Germano Celant, Intervista a Pistoletto, in: Pistoletto, cat. esp., a cura di Germano Celant e Ida Gianelli, Firenze, Forte di Belvedere, 24 marzo-27 maggio 1984, Electa, Milano, 1984, pp. 26-29).

 

L’episodio riferito, di sicura importanza, sembra essere accortamente curvato da Pistoletto in modo da renderlo più eclatante nel contesto artistico-culturale dei primi anni Ottanta. Ricostruiamo. A poco più di un anno dalla chiusura della Biennale “americana” del 1964, caratterizzata dalle polemiche contro la condotta dell’amministrazione americana (e di Castelli in prima persona) e dall’affermazione di Robert Rauschenberg, Pistoletto apre il proprio studio torinese e presenta a mo’ di mostra la collezione degli Oggetti in meno. L’iniziativa, che si tiene tra dicembre 1965 e gennaio 1966, accenna a propositi di autogestione ed è documentata da una serie di fotografie di ampia circolazione, autorizzate dall’artista stesso. Nelle immagini dello studio “allestito” cogliamo un dettaglio particolarmente rilevante: un grande ritratto fotografico di Johns sorridente attende i visitatori con enfasi segnaletica e appare la chiave autopromozionale dell’evento. Se Pistoletto, al tempo, omaggia Johns e si pone sotto la sua egida a stelle e strisce la determinazione “a essere solo” non deve essere ancora univoca o quantomeno imperiosa.

 

Ci proponiamo, se non di sfidare, quantomeno di mostrare incongruità della versione normativa, e di differenziare progressivamente (auto)testimonianza e storiografia. Dunque. Lampada a mercurio, 1965: assumiamo l’Oggetto in meno come case study di metodo (Fig.1). Lampada a mercurio sembra collocarsi progettualmente nel punto di intersezione tra i ludi relazionali incoraggiati in ambito New Dada e il “purismo esoterico” di Yves Klein, di cui costituisce pastiche. Esemplifichiamo. La serie White Painting (1951) di Rauschenberg è all’origine di una profonda trasformazione del rapporto tra artisti e pubblico (Fg. 2). Consideriamo un monocromo singolo (la serie è costituita per lo più da polittici). Rauschenberg gioca con il requisito di “finitezza” (dell’opera) prescritto per l’opera d’arte di tradizione e modifica le geografie dell’autorialità. Il monocromo appare in effetti “finito” solo se uno spettatore proietta la propria ombra sulla tela: è lo stesso spettatore a eseguire (in senso letterale) il tema figurativo e a differenziare primo piano e sfondo. Siamo dunque indotti a riconoscere coautorialità allo spettatore: l’artista sembra solo avviare un dispositivo relazionale che presuppone di essere accolto e rilanciato. L’opera è “aperta” (molto più: è banale) e si fa (duchampianamente, o alla maniera di John Cage) beffe delle retoriche del “genio”, del “profeta”, del “demiurgo”. Avviciniamo adesso The Tower, un combine-painting datato 1957 (Fig. 3). Ci appare come l’aggregato di elementi di una scenografia o meglio coreografia ad uso dello spettatore. Gli oggetti di azioni tipiche si raccolgono in un assemblaggio che ha caratteri vistosamente teatrali, e perfino comici: l’intermittenza delle lampadine rimanda ai movimenti a scatto del cinema muto e l’ombrellino nero aperto in alto rende omaggio a Charlie Chaplin. Do it yourself: “passa di qui, prendi uno qualsiasi degli oggetti del kit e crea, componi a tua discrezione”. Questa potrebbe essere la parafrasi semplice, sommaria e immediata di The Tower: una sorta di incoraggiante invito rivolto allo spettatore. Il quotidiano di ciascuno può trasformarsi in arte: perché no?

 

Lampada a mercurio è costruita attorno a un invito rivolto allo spettatore (“vieni qui, poniti sotto il fascio di luce e trasfigura”), impiega una lampada (di colore giallo, nel progetto originale), è un gioco sui significati ultimi. È allora in tutto e per tutto comprensibile in termini New Dada? A questa domanda possiamo senz’altro rispondere no. Al di là degli elementi visibili dell’installazione e della facezia performativa che essa promuove, il profilo autoriale che ne emerge (o meglio, che ne è presupposto) è del tutto diverso da quello “down to earth” dei monocromi o degli assemblaggi-cabaret di Rauschenberg. Le retoriche che sorreggono Lampada a mercurio sono quelle dell’illuminazione e del trapasso in sfere non più quotidiane: sottotesto dell’opera, non importa se motteggiato, è il Salto nel vuoto di Klein, o meglio le sale monocrome dell’artista francese, illuminate dalla gelida luce al neon, entro cui il visitatore compie l’esperienza del Vuoto e del Niente, dunque del Supremo (Fig. 4).

 

Nessun dubbio in proposito: adepto del Manzoni firmatario di corpi nudi, Pistoletto laicizza per così dire gli intransigenti rituali di iniziazione estetica predisposti da Klein, cui rimanda con corrosiva ironia, ma trattiene per sé ecletticamente e con sottile istrionismo, per l’immagine di artista che evoca, sfiora e costruisce, le apparenze del “mago” e sacerdote (Fig. 5). In un breve testo del 1966, parafrasando il passaggio più noto di un breve articolo-manifesto di Manzoni, Pistoletto afferma: “le mie cose di oggi non rappresentano, ma sono”. E conclude: “i lavori che faccio non vogliono essere delle costruzioni o fabbricazioni di nuove idee, come non vogliono essere oggetti che mi rappresentino, da imporre e per impormi agli altri, ma sono oggetti attraverso i quali io mi libero di qualcosa - non sono costruzioni ma liberazioni - io non li considero oggetti in più ma oggetti in meno, nel senso che portano con sé un’esperienza percettiva definitivamente esternata”.

 

L’enunciazione è chiara. Ma corrisponde anche a quanto teniamo davanti agli occhi? Lampada a mercurio non abbatte alcun idolo: preserva invece il culto concedendosi al più un’impertinente familiarità con quelle che Klee aveva chiamato le “cose ultime”. In breve: promette immortalità. Cosa fanno peraltro i Quadri specchianti se non conferire forma immutabile e crepuscolare fissità metafisica a amici, conoscenti, comunità della cui fugace esistenza sono disseminate le cronache artistiche e politiche contemporanee? Se considerata in termini storici e ordinata cronologicamente, la serie forse più celebre di Pistoletto sviluppa un racconto via via meno intimo e riservato. I Quadri specchianti si aprono al “sociale” attorno al 1965, con le immagini di cortei e folle protestatarie; per poi variare sui temi della fama (da bramare e offrire, attraverso cui lusingare) con particolare insistenza tra 1965 e 1966, forse in coincidenza dei prolungati soggiorni americani dell’artista e l’esperienza diretta dello “star system” americano. Lampada a mercurio registra un importante mutamento di prospettiva: Pistoletto smette di concepire le proprie immagini come momenti o emblemi di un’autobiografia ermetica per concedere più decisamente all’intrattenimento e alle retoriche della socialità (Abbiamo un termine di confronto nella Lampadina pistolettiana del 1964 in Fig. 6, appartenuta a Rauschenberg: emblema di “idee” e “intuizioni” che visitano periodicamente la mente dell’artista, l’immagine è a suo modo un’ “attesa” o un’allusiva “visitazione” di tradizione continentale. Non contiene alcuna offerta di gioco o socialità).

 

Alla stessa data i Quadri specchianti prendono a riformulare più decisamente e in termini contemporanei un’iconografia tra le più longeve, quella della “vanitas” (Fig. 7). Rileviamo però una differenza cruciale rispetto alla tradizione: gli specchi di Pistoletto esaudiscono la vanitas (dell’autore e del visitatore assieme) anziché deplorarla. L’ambiguo modello di relazione psicagogica tra artista e attori o attrici consolidatosi attraverso l’affermazione di Warhol regista non è ininfluente sulle politiche di immagine e la svolta per così dire pubblicitaria appena delineata. Sospinto da un ambivalente egotismo, l’artista posa come colui che dà celebrità, persistenza e riscatto, predisponendo il set e ponendo di volta in volta sotto il fascio di luce l’ombra dell’eternità (Figg. 8 e 9).

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