Scacchi, scacchisti e romanzieri
Non c’è dubbio, gli scacchi affascinano. L’immagine che sprigionano, generalmente, è legata all’intelligenza, alla concentrazione, al rigore logico, alla consequenzialità. Li vediamo, i due giocatori: pensosi, immobili, qualche tic nervoso a dare segno visibile della battaglia che sta avvenendo nella loro mente. Lenti movimenti del braccio, frutto di mille possibilità e confutazioni e poi un pezzo che si muove e rinnova lo schema della battaglia. Lotta contro il tuo avversario, contro il tempo, contro sé stessi, soprattutto, e le proprie limitazioni. Gioco ma non solo: anzi, un rendere onore all’intelligenza, un passatempo nobile, non certo un qualcosa di impuro come i giochi dove c’entrano i dadi, per dire: un colpo fortunato e via, uno meno fortunato e sconfitta.
Gli scacchi hanno eliminato l’elemento casuale.
Sì, tutto questo è vero, ma dopo un po’: che noia, però. Che lentezza, che gioco senza sprint.
Ho il sospetto che tutto il timore reverenziale di cui gli scacchi sono circondati, tutto sommato, non serva che a celare un malcontento diffuso. Gli scacchi, infatti, sono “difficili” e, in un’epoca nella quale la complessità, la lentezza, il ragionamento e il metodo non godono di ottima stampa e sono tutti nemici giurati dell’essere smart, disinvolti, a portata di clic, finiscono per essere considerati un bel passatempo per chi lo pratica, ma anche, e lo dico senza paure e con un sorriso, una cosa pallosa.
Purtroppo, è così. Gli scacchi visti da fuori sono molto diversi dagli scacchi visti da chi li pratica, li gioca e li “vive”, a seconda del grado di qualità e intensità della propria capacità di gioco. Non fraintendetemi: sono un mediocre giocatore anche io e arrivo a capire fin dove posso le sottigliezze del gioco, della partita nel suo vivo, dico. E questo fa di me un appassionato, un dilettante: mi interessa di più, però, ciò che gli scacchi rappresentano.
Curiosamente, in questi mesi, sono usciti diversi libri, in Italia, che riguardano il mondo degli scacchi e che, con profondità e modalità differenti, cercano, a mio parere, di spiegare esattamente cosa possano significare gli scacchi al di là del gioco: è una specificazione interessante e fondamentale, perché il gioco in sé viene lasciato, come giusto che sia, agli specialisti, ai manuali, a coloro che studiano aperture e finali, medio-gioco e combinazioni, inchiodature e scoperte (il lessico degli scacchi, come tutti quelli di giochi che vantano secolari tradizioni è importantissimo e preciso, e guai a ignorarlo).
Il primo che voglio prendere in esame, brevemente, è un romanzo. Ed è, dato lo status ontologico del genere, in questo caso il meno “scacchistico”, ma anche il più avvincente. Lo ha scritto Giorgio Fontana ed è intitolato Il Mago di Riga (Sellerio). In pratica è la ricostruzione romanzesca dell’ultima partita, epperò, a ritroso, ovviamente, della vita intera, di uno scacchista eccezionale, Mikahil Tal. Ora: se non siete giocatori di scacchi, questo nome non vi dirà niente, ma se siete giocatori di scacchi vi dirà qualcosa di preciso.
Mettiamola così: Tal è il mio “scacchista” preferito, come di tanti altri giocatori, ma forse non è un giocatore immenso: quello che era Kasparov, per dire, di sicuro il più forte giocatore mai apparso. E infatti metto tra virgolette la parola scacchista; ché se si deve parlare di scacchi, allora è Kasparov; ma, con Tal, si parla di arte. Riprendo un passaggio iconico di Fontana per spiegare meglio: «Questo miraggio delle partite o delle vite senza sbagli: no, Miša si teneva volentieri il fallimento. Si teneva la vulnerabilità e lo scompiglio.
Tanto valeva ubriacarsi o combinare pasticci, ma rispettare sempre la dignità del singolo essere umano. Meglio giocare, giocare per la pura festa di giocare, fino a che giorno e notte non perdano di senso: giocare con la devozione e la letizia dei ragazzini che strillano e non vogliono tornare a casa a fare i compiti o lavarsi – le stupide incombenze del mondo reale». Tal (1936-1992) era così. Prima di Kasparov fu il più giovane Campione del mondo della storia, e sconvolse letteralmente l’universo degli scacchi incarnando il gioco come arte, invenzione, complicazione. Lo chiamavano il Mago di Riga per la capacità di «evocare tutte le forze oscure che ogni posizione celava dentro di sé»: bramava il disordine e il sacrificio dei pezzi (atti che per lui racchiudevano anche un significato esistenziale), opposti ai prevalenti distillati di razionalità e pragmatismo.
Il punto è proprio questo. Tal è un giocatore-miraggio. Fontana ne ricostruisce storia, vicende, partite, emozioni e sentimenti esistenziali, e lo fa benissimo, ma il punto resta che Tal ci affascina proprio per la spettacolarità del suo gioco. Cioè, è la dimostrazione che, forse inconsciamente, vogliamo la bellezza anche se il rigore e la logica ci porterebbero alla vittoria.
La cifra di Tal, non a caso, è il “sacrificio”. Il sacrificio, negli scacchi, è la cessione (inaspettata) di un pezzo, generalmente la Donna, di gran lunga il più potente sulla scacchiera, nell’immediato, ma, grazie a quella perdita spettacolare e di solito non prevista dall’avversario, il giocatore che lo offre vince la partita. Si tratta di un gesto artistico a tutti gli effetti: e Fontana è particolarmente bravo a inseguirlo.
Nel maggio del 1992, Tal disputò la sua ultima partita di torneo (sarebbe morto il mese dopo) contro un giovane Grande maestro – il romanzo prende spunto da una lunga analisi online che l’avversario di quella partita, Vladimir Akopian, ha scritto – e riassume davvero tutte le caratteristiche di Tal (che tra l’altro, in quella partita propose più volte la patta ad Akopian, che invece rifiutò per poi uscirne sconfitto). Cinquantacinque anni anarchici, quelli di Tal, stella di prima grandezza, campione del mondo per un solo anno e sei giorni: genio precoce e costanti malattie, vibranti di un gioioso, fraterno e dissipato desiderio di vivere.
Non posso riassumere oltre, e ci sarebbe molto altro da dire ma, insomma, avete capito. Tal e non, poniamo, Botvinnik, o Euwe, o Petrosjan o Spasskij o magari lo stesso Kasparov: i romanzi sugli scacchisti di solito riguardano figure appunto “romanzesche” (ne è appena uscito uno anche su Alechin) perché, oggettivamente, devono e riescono ad attrarre al gioco e alla lettura molto più che campioni più “grigi” (e pensando ai sovietici sembra essere la parola giusta).
Fischer, il pazzo; Capablanca, dalla Cuba povera a campione, e così via. Sono eroici, proprio come lo è la ragazzina protagonista della “Regina degli scacchi”, una serie più che fortunata che ha rimesso d’accordo pubblico e forse anche scacchisti, di solito molto restii a vedere i loro bene amati giocatori protagonisti di “banalizzazioni” culturali.
È qui che entrano in gioco, ma li descrivo davvero solo brevemente, due altri notevoli libri usciti sull’argomento, ma con tutt’altra traiettoria. Sono Un re non muore di Ivano Porpora (Utet) e Problemi magnifici di Massimo Adinolfi (Mondadori). Due libri bellissimi, che cercano di rispondere, in maniera laterale, al “cosa” siano e cosa rappresenti il gioco degli scacchi.
E se Porpora lo fa dedicando molte pagine al tema del destino, del genio, della bellezza, Adinolfi ricorre alla filosofia, spiegando come gli scacchi servano a prefigurare situazioni che si verificano anche nella vita e che se affrontate ricorrendo al “lessico” scacchistico acquistano più profondità.
Voglio dire che questi due libri servono a calarci nel mondo del gioco molto più profondamente che non i manuali o le “narrazioni”, per quanto eccellenti, su giocatori e partite. Mi sembra ovvio che il ricorso alla vicenda biografica metta in scena sempre e comunque l’eccezionalità del profilo del giocatore, dell’essere umano protagonista della narrazione: al contrario nei lavori di Porpora e Adinolfi, ricchi di citazioni letterarie e filosofiche, e ci mancherebbe, sono i significati del gioco ad essere protagonisti.
Di un altro libro, uscito recentemente, e che sarà presentato al Festivaletteratura di Mantova, proprio insieme a quello di Giorgio Fontana, sono coautore, insieme a due insigni neuroscienziati e a un esperto divulgatore del gioco come Adolivio Capece. Il volume, Sulla scacchiera edito da Franco Maria Ricci, celebra la bellezza fisica dei pezzi e dei supporti sui quali si pratica il gioco, ma cerca di sviluppare da più punti di vista anche alcune considerazioni generali sul gioco. Ci vorrebbe una intera enciclopedia per esplorarle, ma gli autori sperano che i loro interventi possano essere di aiuto, di ispirazione, di interesse e di scoperta. Perché il gioco degli scacchi non riguarda gli scacchi: riguarda voi.