Recycling Beauty
Ci sono cose che si vedono; e ci sono cose che non si vedono. In una mostra, direte voi, le cose che si vedono, certamente, sono le opere. Poi ci sono le cose che “non si vedono”: di solito, sono quelle che si leggono: il catalogo e le didascalie.
Ci sono cose che (finalmente!) si vedono, alla sontuosa mostra alla Fondazione Prada di Milano (fino al 27 febbraio), – l’istituzione privata, lo ribadiamo a scanso di equivoci, che pone stabilmente Milano al centro del dibattito internazionale dell’arte, essendo l’unico museo che ha una vocazione così eccezionalmente globale e contemporanea – che si intitola, forse sì, strizzando l’occhio ai tempi (che del “riciclo” hanno fatto una bandiera culturale e progressista a tutti i livelli) “Recycling Beauty”.
E queste cose sono, sorpresa!, le opere. Un allestimento di bellezza e qualità notevoli, che ripercorre già le precedenti esperienze della Fondazione, dove le opere sono davvero “a portata d’occhio”, se non di mano, del visitatore. E gli si presentano non solo da vicino, ma nella loro nuda ed inequivocabile bellezza materica: tant’è che non c’è bisogno di orpelli. Collocate ancora sui pallet da viaggio e trasporto, sui loro stessi imballaggi, questi pavoni, questi gruppi marmorei, queste sculture, tombe, sarcofagi, portali, iscrizioni, copertine di libro, teste, statue colossali, cosmatesche e camei, ci si presentano per ciò che sono sempre stati: materiali d’uso.
Ad uso, come e di cosa, è questione da discutere. E conoscere. E, infatti, ci viene in soccorso una cosa che, di solito, nelle mostre, non si vede. Anzi: si dimentica. Eppure, delle mostre è l’unica cosa che resta. Un catalogo. Questo non è solo un contrappunto incisivo all’esposizione. Ne è il completamento, l’inveramento e la spiegazione ragionata di ciò che forse si è intuito, di ciò che forse non si era pensato.
La mostra (e il catalogo) sono frutto della curatela di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica, il progetto allestitivo è ideato da Rem Koolhaas/OMA.
Nel catalogo ci vogliono 60 (sessanta!) pagine prima di arrivare al primo saggio. E sono 60 pagine che, da sole, ti aprono gli occhi. Sono un “viaggio in Italia” fotografico di Alessandro Poggio: da Roma (ovvio!) a Rimini, da Lucca a Terracina, da Volterra a Pozzuoli, da Milano ad Assisi, Perugia, Siracusa, Gerace; da ponti a chiese, da strade all’apoteosi del Pantheon, colonne napoletane e capitelli spoletini: l’antico non è una rovina e non è nemmeno passato. È struttura di convivenza, è pietra oltre il tempo, è presente che non si stanca di ripetere la sua attualità, è promessa di futuro, è genio e fantasia, è ricapitolazione, scarto, riutilizzo, “riciclo”, anche, ma è soprattutto, vita. Questa è la lezione che ci arriva da una mostra del genere e che mai è stata ripetuta con tale forza. Conviviamo con il nostro passato, ci camminiamo sopra, ci lavoriamo, ci passiamo oltre: ed è lui che ci supera, non noi lui.
Ecco perché, tornati con la mente (e, chi può), con la presenza, nell’esposizione, ci diventa tutto più chiaro. Le statue che vengono riutilizzate, le cose greche che vengono fatte proprie dai romani, e le loro dai cristiani. L’evocazione di un passato persino equivocato diventa spunto per nuova bellezza, spuria, diversa, imprendibile. È superbo il caso dell’attribuzione incerta di una testa di cavallo, che ora si sa essere di Donatello, e invece, per lungo tempo si pensò classica: quale più alta forma di travisamento costruttivo?
Potrei dire, didascalicamente, che il progetto espositivo si sviluppa lungo due edifici della Fondazione, il Podium e la Cisterna, ma non potrei sostenere che si tratta di un percorso di analisi storica: al contrario, e qui Settis & Co, hanno ragione da vendere, è di “scoperta e immaginazione”.
Nel Podium un paesaggio di plinti bassi permette di percepire i pezzi esposti come un insieme, mentre le strutture simili a postazioni di lavoro incoraggiano un esame più ravvicinato grazie alla presenza di sedie da ufficio (chi ci aveva pensato prima? è una soluzione geniale). Nella Cisterna i visitatori incontrano gli oggetti gradualmente, in una sequenza di spazi che facilitano l’osservazione da punti di vista alternativi. Due sale della Cisterna sono poi dedicate alla statua colossale di Costantino (IV sec. d.C.), una delle opere più importanti della scultura romana tardo-antica.
Due monumentali frammenti marmorei, la mano e il piede destro, normalmente esposti nel cortile del Palazzo dei Conservatori a Roma, sono accostati a una ricostruzione del Colosso in scala 1:1, mai tentata prima, che evidenzia come l’opera sia il risultato della rielaborazione di una più antica statua di culto, probabilmente di Giove. Progetto risultato di una collaborazione tra i Musei Capitolini, Fondazione Prada e Factum Foundation, la cui supervisione scientifica è stata seguita da Claudio Parisi Presicce, Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali.
Ma non si capisce l’essenza di questa esposizione se non restituendo la parola a Settis. “Ogni opera classica riciclata è pars pro toto, funziona come simbolo e condensazione emotiva di un’antichità ancora autorevole. In quanto riciclate, le opere in mostra hanno simultaneamente più cronologie e più significati, quelli originali e quelli accumulatisi nel tempo. Il trono di un sacerdote di Dioniso dall’Asia Minore (II secolo a.C.) diventa seggio episcopale e poi, a Mantova, «trono di Virgilio»; una seggetta da latrina di età imperiale, in pietra rossa simile al porfido, viene usata per alcuni secoli nelle incoronazioni papali; e fin nell’Ottocento si aggiunge un bastone fiorito di gigli a una figura togata con ritratto di Antonino Pio per trasformarlo in San Giuseppe (una devozione fortemente promossa da Pio IX).
La convivenza di temporalità diverse deforma la linea del tempo, il salto da un significato all’altro evidenzia l’instabilità semantica degli oggetti d’arte, il loro prestarsi agli arbitrii dell’interpretazione”. Dunque, questa è una mostra, sublime, sul passare del tempo, sul mutare delle condizioni e delle interpretazioni, sulla continuità e sul cambiamento. È una mostra sulla geografia, perché le opere si trovano a viaggiare e a reinventare e reinventarsi nei loro significati, ed è una mostra sulla caducità umana. Ma anche, e questa, è una parola che bene si adatta ai tempi, di nuovo, sulla sua resilienza.
Nel titolo della mostra, infatti, poca attenzione forse viene posta dallo spettatore alla seconda parola. Non al riciclo ma alla Bellezza. Perché se non fossero, prima e più di tutto, belle, queste opere non avrebbero attraversato il tempo, contro tutto e tutti, per raccontarci ancora oggi una storia diversa.
Ancora Settis, nella conclusione del suo bellissimo saggio in catalogo (ribadiamo, in un catalogo che va letto e meditato e costituisce la solida base sulla quale questa mostra, transeunte come tutte, si fonda): “Il reimpiego non viene tanto detto quanto fatto”. E poi: “La parola cede il passo alla cosa e al gesto che implica, dal prelievo dei marmi nelle rovine alla loro riattivazione nel nuovo contesto. Nel silenzio delle parole, le cose prendono forza, e s’imbevono del senso delle parole non dette. I marmi antichi assumono una nuova pregnanza, e onde poter agire si dotano di una propria memoria, che non si articola nello spazio letterario ma nella fisicità di quello scultoreo e monumentale, con un potente effetto dimostrativo. Il gesto del mostrare genera la memoria delle cose”.
E di più. Tra i tanti esempi che potrei scegliere, ecco il sontuoso pavone che oggi si conserva ai musei Vaticani e che ha oltrepassato secoli di incantamento e intemperie nei giardini di Castel Sant’Angelo e dove altro fosse, ci dice che è il testimonial perfetto della potente attrazione che l’uomo, in tutte le epoche e spazi, prova per il meraviglioso, il fantastico, l’arte. Ciò che suggerisce appunto che tutto ciò che incarna nel concetto d’arte ha solo una suprema utilità: quella non di servirci come sarebbe da sua funzione (una sedia, un monile, una statua) ma da memento: che siamo mortali, e che dobbiamo superare questa condizione. Con la bellezza, per la bellezza, grazie alla bellezza.