Senza trauma

19 Agosto 2011

“Qualche volta, bisogna riconoscere, il saggio vale più del libro che l’ha provocato”, diceva Luigi Malerba negli anni ottanta, infastidito dal proliferare di una “critica letteraria del tutto fantastica, anche inventiva, ma che considera i libri come puro pretesto per i suoi esercizi di scrittura”. Viene da pensare, leggendo il saggio di Daniele Giglioli Senza trauma (Quodlibet, 2011), che la critica esercitata nel libro sia priva di oggetto, o di un oggetto degno di un qualche interesse e considerazione critica, e che il critico, alla fine, sia il vero (s)oggetto di quelle “scritture dell’estremo” cui il sottotitolo rinvia.

 

La tesi del libro è duplice, o meglio, una è tesi vera e propria, l’altra è un suo corollario, o legittimazione. Innanzitutto, la constatazione che esista una generazione non più emergente ma oramai compiutamente emersa di scrittori, a far data dagli anni novanta (e dunque di scrittori nati tra gli anni cinquanta e i settanta, grosso modo), storicamente smarcata dai grandi traumi degli scrittori delle generazioni precedenti, confrontatisi forzatamente con l’esperienza della guerra in modo più o meno diretto (partecipandovi, subendone gli effetti, essendone testimoni a vario titolo). Per questa nuova generazione (che le cronache letterarie recenti registrano come Generazione TQ) si è trattato invece di un approccio tutto diverso a quello che in modo essenzialistico viene da Giglioli definito “il Reale”, un approccio filtrato, per lo più, da uno schermo televisivo. Soccorre qui la cinica immagine della birra fresca che lo scrittore Antonio Scurati dichiarava di aver sorseggiato durante la “visione” notturna dei primi bombardamenti americani su Bagdad negli anni Novanta: un’immagine certamente provocatoria utilizzata nell’ “agone” La letteratura dell’inesperienza, di un paio d’anni fa, in qualche modo anticipatore, nella sua tesi di fondo, del libro di Giglioli. In particolare, per il risalto dato in quello all’inedito atteggiamento inerte-passivo-contemplativo dell’intellettuale di fronte alle prime esperienze potenzialmente traumatiche del millennio incipiente, e però vissute col filtro dello schermo televisivo: uno “spettacolo”  come altri.

 

Dall’eventuale obiezione, che pur non avendo conosciuto le guerre, e certo non direttamente, la maggior parte degli scrittori “TQ” ha però diversamente fatto esperienza dei disastri ambientali, delle catastrofi nucleari, del progressivo venir meno delle certezze sociali, Giglioli si ripara ribadendo che si è trattato, anche in questi casi, di esperienze mediate, per lo più, esperienze che comunque non avrebbero mutato nella sostanza il nuovo approccio degli scrittori alla realtà. Questo nuovo approccio Giglioli lo definisce “scrittura dell’estremo”, ed è una definizione che copre (finendo in qualche modo col legittimarlo) l’uso e l’abuso dei generi letterari da parte degli scrittori indagati: dal noir al giallo di De Cataldo o, diversamente, di Giuseppe Genna, all’autofiction (anche in questo caso praticamente opposta) di Siti o di Aldo Nove, di Antonio Franchini o di Antonio Scurati, al romanzo storico o pseudotale di Wu Ming e dintorni, prevalentemente. Si tratta non di un’attitudine stilistica (perché, a dispetto del nome scelto per la categoria, troviamo poi negli esempi prodotti, con l’unica eccezione di Saviano, il sovrabbondare di una retorica piuttosto convenzionale quando non edulcorata del corpo e dei suoi mali, soprattutto sociali) quanto di contenuti: così nel tanto acclamato “caso” della misteriosa Babsy Jones, nel cui Sappiano le mie parole di sangue, la posa letteraria assunta sarà quella della vittima, ma senza che a ciò corrispondano reali abusi o torsioni linguistiche.

 

L’aspetto più interessante del libro di Daniele Giglioli è senz’altro la riflessione sul posizionamento dello scrittore nello scenario contemporaneo, ma si tratta di una riflessione che non prevede però mai un terzo elemento, ossia il contesto sociale cui riferirsi. L’unico e solo problema connesso alla letteratura dell’estremo pare sia in che modo dar voce alle proprie idiosincrasie, domande esistenziali, personali inclinazioni: ma a chi si parla, rimane totalmente inespresso, e sullo sfondo. Giglioli, che si affretta nelle conclusioni a ripararsi da un’altra possibile obiezione rispetto al suo libro, e cioè, dicendola con Slavoj Žižek, di aver considerato il fenomeno esaminato e i conseguenti esempi prodotti più come sintomi che come feticci, e dunque di aver trascurato totalmente il giudizio estetico su di essi (vedi, dopo l’elenco iniziale, l’affermazione ripresa – e stigmatizzata - da Magrelli suRepubblica, “non si faranno pagelle”, e vedi anche rubrica su Alias, Sintomi, da cui molte di queste pagine, pur rielaborate, si traggono), in cui la lingua di un testo, il modo in cui parla, funzione, ci hanno insegnato, dell’ideologia-visione del mondo che veicola, parrebbe orpello del tutto irrilevante. Giglioli dimentica anche in questo caso di confrontarsi con una dimensione politica del fare letterario, cioè con la possibilità che non solo la letteratura sia sintomo del mondo, ma che in questo mondo, poi, effettivamente circoli se non come cura, come virus e come contagio di qualcosa che non si dà già nella cronaca, nelle trasmissioni tv o nelle inchieste giornalistiche.

 

Che poi, dei libri di cui Giglioli parla, il solo Saviano ha forato quel muro che divide il recinto anestetizzato e senza traumi di chi conserva il privilegio della scrittura dal mondo sempre più infettato di chi i libri non li (può) legge(re) quasi più (e, singolarmente, lo stesso Saviano dopo Gomorra non ha più scritto nulla di paragonabile: passati ormai 6 anni dall’uscita). Segno che se una funzione sopravvive è proprio quella del feticcio, nella realtà contemporanea: del feticcio del libro che bisogna comprare per essere à la page e dello scrittore che bisogna conoscere, e aver visto (magari perché è andato da Fabio Fazio in tv, piuttosto che attraverso la scrittura, nello specifico).

 

Quel che manca, inoltre, a una siffatta concezione (tutta letteraria, dove però si dichiara in via preliminare di voler abdicare al feticcio) è la considerazione del trauma ineludibile di quell’esperienza di ciascuno (narrata o meno), che è la morte, estremo biologico e non narrabile per sé (teste il Benjamin del Leskov, da poco ridato alle stampe).

 

In questo, il libro si mostra retrodatando a un decennio precedente, anche a dispetto degli esempi stracontemporanei, perché dell’aspetto biologico e creaturale dell’esperienza la narrativa contemporanea torna vivamente a parlare. E torna a parlarne nella forma propriamente esperienziale del compianto o del cordoglio, dal momento che, teste Leopardi, è la morte degli altri quella che viviamo. La letteratura contemporanea, da Arminio a Pincio a Anedda a Calandrone dà spesso asilo ai fantasmi, specie in poesia (ecco, tra l’altro: perché un libro sulle scritture contemporanee non si arrischia a indagare nemmeno l’opera di un prosatore, se non di un poeta, considerando solo il mainstream della narrazione cosiddetta pura? “Scritture dell’estremo e narrazioni”, recita il sottotitolo e dunque, teoricamente, lo spazio per campi ibridi o ibridati si sarebbe pur dato), e dà un aspetto alla morte  trovandole una via di narrazione. Narrazione cioè rappresentazione, racconto tanto meglio condivisibile e socializzato quanto meno l’io vi sia implicato senza mediazioni (schermi anche qui: l’Hotel dell’ultimo libro di Pincio, le cartoline di Arminio). Al di là dell’estremo, che non prevede il quotidiano, c’è poi propriamente nella narrativa contemporanea un ritorno a un côté intimista o espressionista, che non descrive mortiammazzati in gare truculente di effettacci, ma racconta la morte per noi, la morte di cui alcuni fanno esperienza generazionalmente, più precocemente di altri o meno, ma comunque, biologicamente, un dazio da pagare.

 

Che sia reale o meno, autobiograficamente verificata o no, la morte letteraria del singolo, vicino, caro (gaddianamente) altro, è la miglior risposta e la maggior smentita dell’estremo: di quell’estremo che non si vuol vedere come feticcio, e che lo è invece (mentre quel sintomo di cui la letteratura vorrebbe essere “farmaco”, metafora che ricorre più volte, specie nelle pagine fatalmente, persino involontariamente diagnostiche della conclusione), difficilmente si cura. Nemmeno per via letteraria, evidentemente. Ma la pratica sociale che è forse ancora la letteratura può rendere l’esperienza estrema della fine (fine della vita, fine dei tempi, fine del mondo) comunicabile, ancora e sempre, in forza di stile e di lingua e di parola. Il problema non è aggirabile, perché anche i sintomi possono essere pessimi segnali, e quando la diagnosi è infausta, occorre passare senza incertezze di sorta a rimedi non peggiori dei mali. A partire dal dato, non irrilevante, che la lingua del libro di Daniele Giglioli è la migliore che sia dato leggere nelle sue pagine: un libro-pretesto per i suoi esercizi di scrittura?

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