Speciale Librerie | L'isola che c'era

9 Gennaio 2013

Fra i motivi per cui chi sta a Roma può invidiare chi vive a Milano, il primo è la sua rete di trasporti pubblici e il secondo sono le sue librerie. Che poi, nel mio caso, si avvicinano a essere un unico motivo. 
Chi viva oltre la cinta daziaria delle ZTL, e sia costretto dagli insufficienti (è un eufemismo pietoso) trasporti pubblici della Capitale a spostarsi in automobile, l’idea antica di “fare un salto in libreria” se l’è scordata da un pezzo (e i libri s’è abituato a comprarli solo on-line: cioè solo quelli di cui già conosce l’esistenza).
Giorgio Manganelli, che aveva vissuto in entrambe le città, lo diceva già negli anni Ottanta: cultura a Milano la si fa incontrandosi di persona; se si sta a Roma, a dir tanto ci si fa una telefonata.
Una città fatta in questo modo non aiuta certo la socializzazione. La Milano d’un tempo invece, e non parlo dei tempi del Conciliatore, ce l’hanno raccontata diversamente. C’erano i famosi bar, e c’erano le famose librerie (il tempo che è passato si misura dal fatto che ora, nei commenti destati dal grido d’allarme di Francesco Cataluccio, si tende invece a contrapporre gli uni alle altre).

 

      

Una libreria non è solo una rivendita di merci, come nel Ventennio ultimo scorso ci hanno abituato a pensare gli ideologi dello scopo di lucro (cfr. Franco Tatò, Donzelli 1995). In libreria si sono strette amicizie (è capitato anche a me), si sono fatti progetti culturali e politici, si sono sognate – appunto – utopie.
Basta leggere Senior Service, il bellissimo libro di Carlo Feltrinelli su suo padre Gian Giacomo, per capire come le Librerie Feltrinelli fossero insieme una grande, innovativa idea imprenditoriale e un grande, avventuroso progetto politico. Costruire dei luoghi che facessero comunità, che fossero strani attrattori in grado di mettere insieme persone diverse, persone che altrimenti non avrebbe avuto modo di incontrarsi all’Università o al lavoro, o appunto nei bar o nelle trattorie (persone, per esempio, di classi sociali diverse: perché leggere, almeno una volta, premeva al povero – che immaginava fosse suo interesse – quanto al ricco – che di questo, invece, era certo). Lasciamo perdere, per carità di patria, che proprio l’involuzione delle Feltrinelli è stata l’inizio della fine per la libreria moderna, la crepa nella diga che ci ha portato all’alluvione di arlecchineschi mediatore nei quali il libro è solo un optional e dove, in concreto, i libri che cerchi non li trovi (mentre quelli che non vorresti nemmeno vedere ti bersagliano sin dalle vetrine – magari vendute al miglior offerente).

 

    

È un fatto che luoghi con minori quarti di nobiltà, come appunto Utopia a Milano, rapidamente possano diventare punti di riferimento irrinunciabili.
A Roma, nella dai noi autocoatti infrequentabile Trastevere, un ruolo simile lo ha svolto per anni Bibli, a via dei Fienaroli. Che da tempo versa in gravi difficoltà.
Mentre si capisce come un luogo carico d’aura come la libreria di cui si dicono cose turche, nei commenti al pezzo di Cataluccio, quello status non lo meriti più. (Il che ci insegna che, per dare il giusto valore alle tradizioni da difendere, per prima cosa bisogna essere aggiornati sulla più stretta attualità). L’episodio del libraio che ti chiede cinque euro se sfogli un libro senza acquistarlo è grottesco, ma proprio per questo assai istruttivo. Il raccapriccio che ci ispira dimostra come la libreria non possa essere considerata solo un esercizio commerciale, così come la casa editrice non può essere solo un’azienda che produce merci. Una libreria non è una biblioteca, ma in entrambe istituire un pedaggio è un’eresia. Lo spazio condiviso della lettura, sia o no propedeutico a un acquisto, è uno spazio comune: e in quanto tale il suo uso deve essere lasciato libero.

 

    

Lo sapeva già Baudelaire, che la città cambia forma più in fretta del mio cuore, ma non è un buon motivo per dire che quello stesso ganglio nervoso di relazioni si possa trasferire di peso, radici e tutto, in periferia (o semplicemente in un altro quartiere). In nessuna città riqualificare le periferie lo si può fare costruendo cattedrali nel deserto. Da tempo mostra la corda la demagogia delle “cinture” veltroniane (già discussa qui), mentre bisognerebbe studiare il modo concreto di far riaccedere ai centri storici gli esiliati, i forclusi delle periferie.

 

Ben vengano dunque le iniziative concrete del Comune di Milano, annunciate da Stefano Boeri. Ma questo è solo reagire all’emergenza. Per ripensare il ruolo delle librerie occorre in primo luogo facilitare in ogni modo gli esercenti di qualità – non solo e non tanto quelli delle “botteghe storiche”, dunque – attivando il punto 1 della proposta di Cataluccio e agendo soprattutto sui contratti di locazione, vera spina nel fianco dei librai nei centri storici (come lamentavano quelli di Tombolini nel film Senza scrittori). Ma perché ciò sia possibile è urgente mettere mano a un’Anagrafe Nazionale delle Librerie di Qualità (cioè rilanciare sul punto 3 di Cataluccio).
All’inizio dei lavori di Generazione TQ avevamo cercato di lavorare a un’iniziativa del genere, ma per realizzarla occorrono molte più energie di quante ne possa produrre il volontariato. Il CEPELL (Centro per il Libro e la Lettura) presieduto da Gian Arturo Ferrari e finanziato da fondi pubblici, che ben potrebbe essere preposto a queste forme di coordinamento, pare impegnato in altre, più generiche direzioni. Occorre che chi le librerie le conosce bene (perché ci lavora o perché le usa) metta a punto una Carta dei Parametri che consenta alle Amministrazioni di individuare quali davvero, fra le librerie indipendenti (e, perché no?, fra le librerie di catena – non tutte così standardizzate e trash), siano librerie di qualità.

 

Ma forse la prima cosa da discutere è proprio questa parolina magica, qualità, che tanto fa arricciare il naso ai relativisti a oltranza; e cominciare a dirci apertamente quello che in realtà sappiamo benissimo, ma che una pseudocorrettezza politica di marca mercatista ci vieta di dire: e cioè che certi libri, spacciati altrove a pile, di qualità non sono affatto (e anzi, in molti sensi, propriamente non sono nemmeno libri). Considerando la storia della libreria Utopia, verrebbe da dire che – come l’aria e la libertà nell’apologo famoso – la qualità nessuno sa cos’è, fino al momento in cui viene meno. Una libreria di qualità è quella che aumenta la qualità della vita del luogo in cui si trova. Non è così difficile da capire, quando quella qualità – nel nostro vissuto quotidiano – improvvisamente cade a picco.

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