Nina Edwards / Storia del buio
Tea ha paura del buio. Come molti bambini pensa che nel buio si nascondano mostri e pericoli. Di notte, se spegne la luce le si sbarrano gli occhi, il cuore le pulsa nelle orecchie e non riesce a dormire. Il suo giovane zio, per aiutarla a superare la paura, ogni sera la porta con sé a esplorare la notte mostrandole quali meraviglie il buio rivela: la luna, le stelle, i fuochi d'artificio e la magia del mondo. Finalmente la bambina impara ad abbandonarsi serena e grata tra le braccia del buio, il che è poi l'obiettivo del piccolo libro illustrato per bambini, Tea. Perché il buio è così nero (Silvia Serreli, Giunti editore).
Da adulti non si temono più tanto i mostri di cui l'immaginazione popola il buio, ma il buio in se stesso, la cecità. Siccome attraverso gli occhi leggiamo il mondo e lo decodifichiamo, consideriamo la vista il più prezioso dei cinque sensi. Chi ne è privo sin dalla nascita e ha sopperito a tale mancanza potenziando al massimo gli altri non si spaventa all'idea del buio, ma per chi ci vede immaginarsi immerso nell'oscurità totale provoca angoscia e spavento. La stessa parola 'oscurità' evoca un senso di minaccia incombente, rimanda a qualcosa di poco benevolo che ci sovrasta. Difficile trovare un valore positivo per l'oscurità: metafora del male, di un'ignoranza che preannuncia una qualche violenza; metafora della morte, come le tenebre popolate dalle ombre dei morti nello sheol degli ebrei o nell'ade dei greci.
Il buio è prossimo alle tenebre e all'oscurità, ma in qualche modo è un po' meno malvagio ancorché pericoloso (cosa si nasconde, infatti, nel buio oltre la siepe?). L'ignoranza indicata dal buio è meno tragica, meno cosmica, meno trascendente di quella suggerita da oscurità e tenebra, quasi che il male nascosto nel buio sia tutto opera umana. Il buio è umano, l'oscurità è divina, le tenebre sono infernali. Almeno così pare a me. Per quanto il significato dell'uno sfiori, intersechi, richiami quello dell'altro, buio/oscurità/tenebra hanno ciascuno qualcosa che lo distingue dagli altri due. In inglese darkness sembra comprenderli tutti, è la prima parola offerta dal dizionario come traduzione per ognuno dei tre. Buio: darkness; oscurità: darkness; tenebra: darkness. Perciò è facile immaginare che per il traduttore sia stato difficile scegliere in che modo rendere il titolo del saggio Darkness. A cultural history della scrittrice inglese Nina Edwards. In italiano è diventato Storia del buio (il Saggiatore); scelta appropriata, perché appunto "buio" è la parola che meglio abbraccia la varietà dei significati, reali e metaforici, che il concetto esprime. E rispecchia la tesi dell'autrice che vuole spezzare una lancia in favore del buio difendendone gli aspetti positivi e buoni, come fa lo zio della piccola Tea, che l'eccessiva dicotomizzazione dei concetti luce/bene, buio/male a suo avviso ci ha fatto dimenticare. Gli obiettivi di Nina Edwards, scrittrice di storia culturale, sono due: mostrare come sia stata interiorizzata e usata metaforicamente questa contrapposizione e rammentare i molti aspetti buoni del buio che l'avvento sempre più massiccio e diffuso dell'elettricità ci fa rimpiangere. E ha ragione, perché potrà mai essere tenera la notte sotto una luce al neon?
Torniamo un attimo alla vista. I sensi, abbiamo detto, ci servono per sperimentare il mondo e conoscerlo, e tra tutti la vista ci sembra il più affidabile al punto di credere che vedere qualcosa ne garantisca l'esistenza reale, mentre ci sentiamo autorizzati a dubitare di qualsiasi cosa che non abbiamo visto direttamente, per quante prove se ne diano. Pensate ai cosiddetti terrapiattisti… Siamo perciò indulgenti con Tommaso l'apostolo diffidente – ma in realtà dovremmo dire semplicemente pragmatico – e naturalmente, siccome siamo fatti un po' tutti allo stesso modo, noi oggi non crediamo a lui, perché non c'eravamo. E Tommaso, almeno lui, sarà a sua volta indulgente con noi se mai ci sarà rimproverata la nostra incredulità.
A dire il vero, neppure la vista è garanzia di realtà. Oggi sappiamo troppe cose su come è fatto l'Universo, noi compresi, per non sapere che ci sono cose che non possiamo vedere, neppure immaginare del tutto, eppure esistono veramente. Mentre altre, sulle quali metteremmo la mano sul fuoco, non esistono o sono molto diverse da come ci appaiono. Pensate al colore. Vediamo il mondo a colori, eppure il colore non è quello che abbiamo a lungo creduto, anzi non esiste proprio, perché è il nostro cervello che interpreta la luce sotto forma di colore, leggendola attraverso quello straordinario e complicatissimo organo che è l'occhio. Le cose non hanno un colore, la materia di cui sono fatte assorbe e trasmette radiazioni elettromagnetiche a diversa frequenza. Noi non possiamo vedere le onde – i fasci di fotoni che compongono la luce – ma le percepiamo e le traduciamo in colori.
La luce fa esistere il buio, perciò a lei va il primato, è lei il fondamento. Senza la luce scompare il colore, tutto è scuro, più o meno scuro fino al buio totale il quale, di per sé, non esiste perché è, appunto, assenza di luce. Questi due poli opposti – del quale per l'uno, il buio, abbiamo molti sinonimi pur con diverse sfumature, mentre per l'altro esiste una sola parola, luce, cui possiamo aggiungere molti aggettivi per descriverla ma resta una cosa sola – sono entrati a far parte del linguaggio metaforico in quasi tutti gli ambiti della cultura umana compresa la scienza che, in alcune sue branche, si occupa della luce piuttosto che del buio il quale, pur essendo ovunque, non è niente. Insomma, non c'è contesto dell'immaginario umano in cui la luce e il buio non siano presenti e carichi di significati, allusioni, suggestioni. Per questo è coraggioso il tentativo compiuto da Nina Edwards di tracciare una storia del senso e dell'uso di tale concetto e dei suoi affini, oscurità e tenebre, nella nostra cultura. Per la sua vastità, questo tema potrebbe essere oggetto di un trattato scritto a più mani da esperti di molte discipline ciascuno dei quali ne potrebbe discettare nel proprio ambito. Il risultato sarebbe certamente un libro più esaustivo, ma meno stimolante e accattivante del saggio di Edwards, che tocca rapidamente ma con competenza e molte intuizioni l'arte, la letteratura, il cinema, la moda, la fotografia per far emergere l'importante ruolo che gioca il buio nell'immaginario collettivo.
Interrogando l’oscurità, fisica e metaforica, l'autrice rileva l'ambiguità e la plurivocità dei concetti di buio e luce che non possono esistere l'uno senza l'altro, né sono l'uno solo negativo e l'altro solo positivo. Un'incertezza che si manifesta soprattutto nei momenti equivoci dell'alba e del tramonto, quando ancora nessuno dei due ha prevalso sull'altro e la realtà appare sfumata. Momenti che alludono anche alla duplicità intrinseca della realtà stessa, difficilmente separabile in modo netto in buona o cattiva. Perciò, avverte Edwards, sarebbe un errore considerare l'elusivo concetto di buio simbolo e immagine soltanto di male o ignoranza. Non si può negare, ad esempio, che “l'oscurità nutre l'immaginazione” e questa è una funzione buona del buio. D'altra parte neppure la luce è solo bene, infatti se è troppa o mal diretta acceca, rovina gli occhi e rende impossibile la visione. Nel suo versante negativo la luce agisce come il buio: nasconde ogni cosa. Per vedere c'è dunque bisogno di entrambi e in giusta misura. Dall'Illuminismo in poi l'identità luce/bene ha assunto un'eccessiva preminenza, è diventata una sorta d'imperativo categorico, oggi persino uno strumento politico. Nella vita pubblica, infatti, non si ammette più alcuna riservatezza identificando totalmente il non detto con qualcosa di brutto che si vuole nascondere, una condotta scorretta, un'azione sbagliata. Si è perso e annullato completamente il valore positivo del lasciare in ombra e riservare soltanto a se stessi alcuni aspetti della propria vita. Questo atteggiamento si dovrebbe chiamare discrezione, non volontà di nascondere. È possibile addirittura volere celare una buona azione, un'opera degna d'encomio ma di cui non ci si vuole vantare, caso raro forse tra i politici ma possibile. E comunque vero per i tanti che quando fanno del bene lo fanno senza che la mano sinistra sappia cosa fa la destra.
Il saggio di Edwards procede gradevolmente in modo non sistematico, più suggestivo che argomentativo, e l'autrice invita il lettore a seguirla nelle sue osservazioni riguardo a come la percezione della notte deve avere riempito di paura e meraviglia i primi uomini davanti ai fuochi spontanei; li fa sbirciare nelle mitologie antiche dove la notte e la luce diventano dei e personaggi di un mondo inaccessibile all'uomo se non con l'immaginazione. Si addentra poi nella letteratura e nella pittura rinascimentale per proseguire avvicinandosi all'oggi descrivendo i fuochi d'artificio della corte di Versailles e la loro funzione politica, passando poi al teatro, al cinema e alle ombre cinesi dove il buio diventa sfondo del divertimento. Un buio che certo eccita e suscita paura, però anche lei va bene, perché la paura diverte e fa vendere. Ma quando, infine, l'elettricità illuminerà senza alcun riguardo le nostre notti liberando il mondo dalla paura del buio, conclude Edwards, lo priverà anche del godimento del mistero dell'oscurità e del piacere di raccogliersi in sé per gustare le proprie visioni interiori.