Südtirol. Una guerra rimossa
C’era bisogno di questo asciutto saggio di Mauro Marcantoni e Giorgio Postal, Sudtirol. Storia di una guerra rimossa (1956-1967), prefazione di Giuseppe De Rita, Donzelli editore, per fare i conti con la “questione sudtirolese” e la stagione della “guerra dei tralicci”. Una pagina della storia italiana apparentemente rimossa,.
Una rimozione non giustificata ma comprensibile visto l’“happy end”, una volta tanto, impresso su un drammatico “nodo” italiano collocato dentro il Novecento.
La faccenda inizia con il confluire del Tirolo meridionale dentro il regno d’Italia, quando, conclusa la prima guerra mondiale, la frontiera con l’Austria arriva al Brennero. La successiva politica fascista di “italianizzazione” di quelle terre è così brutale da diventare un’inesauribile fonte di rancori. Nel 1939 il patto delle “opzioni” tra Hitler, ormai padrone anche dell’Austria, e Mussolini, aggiunge altre bestialità: prevede infatti il trasferimento nel Reich, in pochi mesi, dei tedeschi e ladini delle province di Bolzano, Trento e Belluno. Quelli che rimangono – “i Dableiber”, ovvero i “restanti” – non avranno più alcuna tutela. Poi un altro colpo di scena: con l’8 settembre ’43 quelle tre province diventano l’Alpenvorland, parte del Reich. Ed è il momento del ritorno a casa degli “optanti” per il Reich. Quindi delle vendette contro gli italiani e i “restanti”.
Poi arriva la fine della guerra e, nell’ambito del trattato di pace che riporta il confine al Brennero, ecco un inizio di ragione: l’accordo tra il premier De Gasperi e il ministro degli esteri di Vienna Gruber sancisce l’autonomia per il Sudtirolo e il Trentino. Proprio i ritardi nella realizzazione di questa autonomia scatenano prima le reazioni politiche della minoranza tedesca e poi la sfida terroristica da parte di settori sudtirolesi.
Mentre la crisi tra Roma e Vienna viene dibattuta all’assemblea delle Nazioni Unite e si avviano i primi incontri tra il governo italiano e i portavoce della popolazione di lingua tedesca (rappresentata elettoralmente dalla Sudtiroler Volkspartei) si apre la stagione degli attentati sudtirolesi contro i tralicci, le ferrovie, le caserme. All’inizio sono ancora azioni dimostrative alle quali Roma risponde militarizzando la regione ma non chiudendo il dialogo. A questo punto, siamo nei primi anni Sessanta, gli attentatori – supportati in Austria da elementi pangermanici e filo-nazisti – alzano il tiro, mirano a uccidere.
È un’escalation per un totale di ben 346 azioni terroristiche – esplosioni, imboscate contro pattuglie, attacchi a caserme – dal bilancio pesantissimo: si conteranno alla fine una quindicina di vittime, in gran parte tra le forze dell’ordine italiane, molti feriti e danni ingenti in una guerra sotterranea che raggiunge l’acme tra il 1962 e 1967. Merito del saggio è ripercorrere con scrupoloso dettaglio questo insanguinato versante della vicenda senza perdere di vista, però, l’orizzonte più vasto. Mentre i fomentatori d’odio operano, le relazioni diplomatiche tra Roma e Vienna si spingono sul baratro di una durissima rottura ma, in questo contesto difficilissimo, la classe dirigente italiana, alla guida dei governi di centro-sinistra, non perde la bussola.
Reagisce con fermezza alla violenza ma non rinuncia al dialogo: resiste anche alle spinte alla “militarizzazione” espresse da alcuni apparati. Ma la politica italiana ha la forza e la pazienza di non farsi prendere la mano. Persegue il dialogo e parla attraverso Fanfani, Taviani, Saragat e, soprattutto, Moro. Lo statista pugliese, attraverso i serrati incontri del ’66 e del ’67 con Silvius Magnago, leader della Volkspartei, è l’artefice finale del “pacchetto”: vale a dire del complesso accordo che, garantendo i diritti delle minoranze e l’autonomia delle province di Bolzano e, anche, di Trento, scioglie il nodo tirolese.
Per separare popoli, divisi da lingue e culture diverse, vanno bene – come dimostra un casistica in continuo aggiornamento – profeti, martiri e guerrieri, avvolti in opposte bandiere e disposti a far divampare incendi. Per tenere insieme pacificamente popolazioni servono invece lucidi tessitori di intese, pazienti costruttori di pace. Aldo Moro lo è stato. E non solo sulla questione del Sudtirolo.